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Autore: Nirvana_04    23/01/2018    6 recensioni
Amore vuol dire aspettare mille anni, e ancora mille.
Amore vuol dire non aspettare neanche un attimo.

Questa storia è ambientata al di là dell'Antica Venasta, oltre i Monti a est di Cahar, in un tempo che si perde nelle trame della leggenda e sfocia nel mito che sta all'origine dell'antico legame tra Puèsigath e Agabar; e narra dell'amore senza tempo di Arket e Adelaya, divenuto trastullo di dei e portatore di dolore per mortali ed eterni.
Queste note selvagge lacrimano ancora
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Racconti del Veto'
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Quanto può cambiare in una notte! L’amore muore, la fede crolla. Il fratello diventa nemico e l’eroe uno sconosciuto in terra amata.
Si narra che, affacciati dai letti di nuvole nelle pozze di cielo, gli dei avessero guardato Arket fuggire dalla sua terra, scacciato dalla sua tribù.
La pelle e gli occhi lo avevano reso irriconoscibile agli occhi dei suoi stessi fratelli. I Nabaik avevano impugnato le picche e lo avevano pungolato per farlo arretrare. Lo Shalak aveva brandito la verga e saltellato a gambe divaricate, le tanti pellicce che si erano alzate e avevano denudato il suo corpo ossuto e nodoso. I lamenti di purificazioni erano risuonati tra le alture e le grotte, nelle gole e verso le vette. Un canto indignato, fatto di grida e terra pestata con forza, di tamburi percossi e lance che erano sbattute le une contro le altre, aveva sancito il suo esilio. Un esilio che sarebbe diventata la nuova trama di gioco degli dei.
La leggenda vuole che, la notte prima, senza che i due amanti se ne accorgessero, Sefta avesse già pensato a mille modi in cui tramutare la richiesta di Arket in uno dei loro giochi, trovando uno più sagace dell’altro: voleva imprigionare l’anima di Arket sulla terra e costringerlo ad assistere alle gioie della vita di Adelaya, mentre questa sposava qualcun altro e adorava quelli stessi dei che lui aveva denigrato; ma era più affascinata dall’idea di mettere alla prova entrambi gli amanti, facendoli vivere una vita longeva ma separandoli da leghe e leghe, e assistere mentre si cercavano disperatamente attraverso i secoli. Ma Not, che di morte ne spartiva non poca, era stato irremovibile: il tempo di Adelaya si era concluso, e nessuno poteva sovvertire quella Regola. Ad Arket, invece, rimanevano trenta, lunghissimi anni da vivere.
E narra anche che Yara, la quale aveva vinto le vite dei due amanti al fratello, avesse lanciato le pedine in direzione dei due dei, dicendo annoiata: «Che se la dividano.»
E ancora, dall’alto del suo scranno, che Puèsigath fosse rimasto in silenzio, sobrio e irraggiungibile persino dagli altri eterni. Così che era stato Zeptum, che fino a poco prima se n’era stato in disparte sopra tutti scrutando il padre, a esclamare: «Ascoltate il consiglio di Yara, e io aggiungo: portate lei dove lui non possa trovarla. La vana ricerca sarà la sua punizione. E vedremo se benedirà il sapere la sua amata lontano ma viva o maledirà noi e se stesso per non poterla avere anche solo per un attimo.»
I suonatori intonano note di quella notte di preghiere, maledizioni e suppliche, cantando di come il velo bianco di Yara e il mantello blu di Not avessero volteggiato tra gli spifferi, dentro la tenda dei due amanti, e di come i due fratelli avessero di nuovo le loro vite: Not aveva aspirato metà della vita di Arket e l’aveva donata a Yara, che l’aveva soffiata negli occhi di Adelaya, come fosse cenere insignificante e fastidiosa. Il corpo di Arket era sembrato soffrire la perdita di tempo ed era soffocato, fino a quando la pelle non era impallidita prima e illividita dopo e gli occhi insanguinati d’amore avevano acquisito le tonalità dell’ultimo tramonto che egli aveva ammirato. Al contrario, la pelle di Adelaya era sbiancata, quasi rilucette come marmo, il suo corpo che, ormai raffreddato dalla morte, si era rianimato di un nuovo soffio di vita.
«Ecco, gli dei hanno ascoltato la tua preghiera, felica.» Not lo aveva guardato con commiserazione e, rivolgendosi alla sorella, aveva aggiunto: «Vediamo cosa sa fare la tua pedina. Portiamo l’altra a Sefta, prima che scagli i suoi capricci sul tempio di Zuritamb.»
«Sarebbe divertente. E comunque ho ceduto la pedina del felica al corvo bianco.»
«La creazione di vite richiede tempo ed energia. Bruciarne tante in un colpo solo è uno spreco.»
«Fratello, rischi di indebolirti con tanta… pietà.»
«È strategia» aveva tagliato corto, caustico.
Si narra che due fulmini fossero sfrecciati dalla tenda verso il cielo scuro, e che in mezzo a esse una scintilla gialla avesse sparso granelli dorati sulla terra. Da esse, si tramanda ancora oggi, nacquero le gemme di Arakat.

 
 
 
 
La nuova vita di Adelaya scorreva a due tempi. C’erano giorni in cui sentiva il profumo di Arket in ogni tentacolo di nebbia che accarezzava il suo viso, come se il suo amato fosse lì con lei; in quei momenti, ella cantava, fiduciosa che presto il suo promesso sposo sarebbe arrivato da lei. C’erano giorni, o forse intere settimane, in cui ella faticava a ricordare persino il nome del felica; presa dal panico, correva come una cerva nei boschi, la foresta che premeva per avere la sua anima, ma ella vi resisteva e cercava un pertugio, una felce marrone, qualcosa che le ricordasse un dettaglio di Arket, anche se in maniera sbiadita.
Un giorno, tornando dal suo vagare verso la pietra su cui era solita sedersi a cantare, Adelaya scorse la figura di una donna: aveva una leggera veste celeste, indossata sopra a una tunica pervinca, a coprirle il corpo longilineo; sulla spalla sinistra si intravvedevano disegni floreali di mandala color rame; indossava due collane, un pendente con un diamante azzurro e un collarino d’oro con gemme di rubini e diamanti che pendevano. Ed era a forma di diamante il viso, con le guance leggermente incavate e le ossa spigolose degli zigomi che si intravvedevano sotto la carne; le labbra a cuore erano rosse e il naso era piccolo, dritto e un po’ a punta. I capelli lunghi e lisci sembravano fiamme aranciate che brillavano di luce propria, e anche in assenza di vento aleggiavano a ventaglio dietro le spalle. Ma furono gli occhi ad ammaliare Adelaya: erano indolenti, con le estremità all’insù a prolungare lo sguardo, e avevano il mondo dentro; c’era il cielo azzurro in alto e un tramonto sulla parte bassa della pupilla, spezzati solo dall’iride verticale. E rilucevano della stessa luminosità che avvolgeva la sua figura, subdola e pericolosa.
Le due fanciulle rimasero a fissarsi, in silenzio. La dea studiava Adelaya. Adelaya ammirava la dea. Era Sefta, ne era sicura. Le fiamme della distruzione le davano corpo, gli occhi serpentini mostravano con quanta annoiata curiosità la scrutavano. Agli occhi della dea, ella non era altro che un fuscello da ardere. Eppure Sefta se ne stava seduta sullo scranno di pietra improvvisato, aspettando che lei si gettasse tra le sue fiamme. E per un attimo Adealaya lo desiderò tanto. Ma più che mai il nodo di capelli legato al braccio strinse la presa sulla sua carne, i pendenti della sua vecchia collana vibrarono di note conosciute, le uniche che risuonavano in quel luogo di morte, a metà tra l’oblio e l’eremita solitudine.
«Khan tuhrt crev fush or khoscr.» Era la lingua del fuoco che la dea parlava, e un essere dalla foggia legnosa come Adelaya tremò a sentirne il suono.
Non era più abituata alle parole, ai rumori che non fossero quelli prodotti dai suoi piedi tra le foglie morte e dai suoi pianti durante i momenti di sconforto. Neppure le piume di corvo e fagiano che raccattava da terra producevano rumore al suo tocco.
«Asssomili tzantzo a hun ombrra, ppicolaa folia.» Tra le labbra di Sefta persino l’idioma felica diventava scoppiettante suono di brace.
La dea si alzò, e i sonagli cuciti al bordo superiore della veste celeste tintinnarono come campanelli d’allarme. Avvicinatasi alla fanciulla, allungò una mano: la pelle arrossata finiva con lunghe unghie appuntite, diamanti che potevano tagliare addirittura un metallo, se avesse voluto. Adelaya non si mosse, non osò neanche respirare, ma il dolore che pensava sarebbe giunto non la sfiorò nemmeno.
«Tzantzo esssile, tzantzo uttile.» Le dita della dea seguirono a un passo dalla sua carne il disegno sul braccio, dalla spalla al polso. La luce azzurra tornò a risplendere proprio in quell’istante. Una foglia sfrigolò e sbiadì fino a scomparire. «Ppeccatto, cosssì ppoco tzempo» e il suo dito saltellò da una foglia all’altra, contandone tredici.
Adelaya si ritrasse come se fosse stata punta. Si tenne il braccio con l’altra mano e proferì a filo di labbra: «Arket?»
Sefta sibilò, divertita. I suoi capelli ondularono come serpenti dietro di lei. «Ppoco tzempo purre luiì» e fece la mossa di contare di nuovo le foglie, muovendole il dito davanti al volto.
Si voltò per andarsene.
«Ti prego!» la supplicò. «Ti prego, fammelo vedere un’ultima volta.» Adelaya le si gettò ai piedi. «Fammi abbracciare una volta sola il mio amato. Tu che sei bella e conosci l’apice di un fuoco, lascia che il mio possa bearsi di lui un’ultima volta» la osannò con rinnovata fede. «Lascia che la mia ultima gioia divampi tra le sue braccia. Il nostro amore ti darà riconoscenza, canterà per te.»
Lo sguardo languido e annoiato della dea parve intensificarsi di curiosità davanti a quella purezza di fede. Adelaya alzò il viso remissivo verso di lei, le ombre di cenere che imprigionavano i suoi occhi speranzosi di ricevere clemenza.
Adelaya vide il volto di Sefta perdere interesse per lei e voltarsi, sparendo in un alone di luce rossa.
 
 
 
 
Il suo riflesso nel torrente gli diede ribrezzo: aveva gli occhi di uno scyx, un demone dei Lunghi luoghi, come il Sentiero dei Bivi[1] o il Viale di Scale[2], aranciati e senza iride; la sua pelle, una volta scura, era livida e pallida, quasi stesse soffocando, e le sue quattro dita cercarono di staccarsela dal viso, ma quella si limitava a sbiadire in tonalità più chiare. Era freddo, il suo corpo; ed era recettivo. Sentiva molte cose in modo strano, adesso, Arket: il rumore del vento in mezzo a un canneto pareva lo stropicciarsi di papiri tra le mani; lo scorrere dell’acqua nel torrente, il parlottio di una dama che voleva sedurlo. E i versi degli animali! Un gracidare di rane, in mezzo al canneto, pareva metterlo in guardia, suggerirgli di scappare. Una talpa si tuffò dentro la sua tana, smuovendo tanta terra quanto il suo intero peso, e sparì in fondo, quasi a volere fare spazio al felica. Un corvo bianco volò in ampi cerchi sopra la sua testa, e il fruscio delle sue ali copriva a tratti la risata che usciva dal suo becco… risata divina.
Il corvo bianco si posò poco distante da lui, su una roccia che affiorava dalle acque del torrente, e lì prese le sembianze di un ragazzo, poco più che fanciullo. Capelli bianchi, morbidi e voluminosi, arruffati come le piume d’un uccello; occhi di civetta, grandi e tondi e di ghiaccio, senza iride e con la pupilla verticale. Aveva tratti del viso delicati e mento a punta e prominente simile a una noce, orecchie appuntite e capelli corti, labbra piene e a cuore marcate in una smorfia di sufficienza.
Il dio Zeptum sedeva con le gambe accavallate sulla roccia, incurante degli schizzi di acqua che continuavano a bagnarlo.
Arket lo fissò per qualche istante incredulo, sbattendo gli occhi come per ridestarsi da quel miraggio.
«Rauc argunam, arc ondrg uow.» Le sue parole furono la sferza di vento che avrebbero prodotto le sue ali di corvo bianco, se queste non fossero state messe da parte per le sembianze di fanciullo. Erano fredde, affilate come rostri, dure come le correnti ascendenti che gli uccelli sfidano per volare in montagna.
«Dov’è Adelaya?» irruppe subito, mantenendosi in posizione guardinga. Era più facile essere impertinente con la figura di un fanciullo che con uno spirito a forma di corvo bianco o, peggio, con una mastodontica Puoepella[3] che si ergeva in mezzo all’accampamento della sua tribù.
«Szorrella a detto cuanto gentile è parrlarre con la tua metà» disse annoiato e quasi deluso, le pupille verticali che sembravano spezzare in due i suoi occhi tondi, «ma tu szei rrude come la mazza di un ferdg
Arket saltò in piedi. «È la vostra perfidia che ha indurito il mio cuore e freddato l’adulazione nei vostri confronti!» Sollevò un pugno. «Dov’è?»
Zeptum sollevò il labbro superiore in una smorfia di disgusto, a indicare la sciattezza con cui si destreggiava l’infima figura di Arket. «Da cuella parrte, felica.» E indicò la via che conduceva a sud, verso le rapide dei molti fiumi di quella zona, che in quel periodo dell’anno affrontavano il disgelo ed erano voraci e impetuosi, grossi come pitoni e letali come tigri.
Arket esitò, sospettoso. «Come faccio a sapere che dici il vero?»
Zeptum puntò un piede scalzo sulla roccia e, con la leggerezza di una piuma, si tirò su. Gli diede le spalle e si arrampicò con portamento orgoglioso all’apice della pietra, poi si voltò con una mezza piroetta. Il viso affilato e il mento prominente scattarono come il becco di un uccello che cala sulla preda. «Perrché dovrrei mentirrti? Sze tu cerrchi nella dirrezzione szballiata, szi perrde tutto il gusto del gioco.»
«Se io cerco nella direzione giusta, posso anche vincerlo, il vostro gioco» sibilò tra i denti.
Zeptum allontanò le sue parole con uno svolazzo incurante della mano, quasi lo annoiassero con il loro poco buonsenso e la loro mancanza di arguzia. «Vincerre o perrderre la parrtita contrro di te non è imporrtante, per me. Adeszo va, e falli diverrtirre.»
Allargò le braccia e si lasciò cadere all’indietro, un angelo che si getta nelle acque del fiume. Ma prima di toccare il pelo dell’acqua, il suo corpo si accartocciò come carta e il corvo bianco dispiegò le ali nel suo volo radente, per poi volare in alto. Volteggiò diverse volte sopra la sua testa e volò a sud, tracciando il suo cammino.
Arket guardò l’uccello sparire sopra i prati di erba alta e i cieli azzurri sormontati da soffici nuvole. Per un attimo si sentì per quello che era: un topo con l’illusione di star dando la caccia a un rapace. In quelle vesti, trovò inquietante il fatto che il simbolo della sorella gemella del dio fosse una serpe. Un serpente dalla pelle cangiante tra gli artigli del corvo bianco che apre le fauci verso il suo basso ventre. Quali dei due era più pericoloso? Il dio aveva detto che la sorella trovava gentile parlare con Adelaya, la dea quindi era in compagnia della sua amata fanciulla, viva da qualche parte. In nome di quella spaventosa visione, Arket, quale topo illuso che era, rincorse il predatore verso sud.
 

[1] È una piccola strada di montagna, sopra la terra in cui la tribù di Arket soggiornava in inverno, che compare solo al crepuscolo. La credenza della sua tribù vuole che chi vi si avventuri possa raggiungere qualsiasi luogo, ma deve trovare il bivio corretto entro l’alba, o egli sarà perduto.
[2] Questo è conosciuto da tutti i felichi, ed è un canalone tra due alte vette che discende, come tante rampe di scale, verso la Valle degli scyx. Questi sono un popolo fatato che si dice essere stato creato per spiare l’uomo, creato dagli dei, per scoprire i segreti taciuti.
[3] I monoliti raffiguranti gli dei e i loro simboli si ergono per tutta Puèntagor, ed è intorno ad essi che le tribù ergono i loro accampamenti durante il loro pellegrinare. Il percorso che esse compiono durante il loro nomade sentiero è scandito dalla posizione in cui questi monoliti sono stati eretti.


 

N.d.A.

Se siete arrivati fin quaggiù senza volermi uccidere, grido al miracolo.
Allora, vi sarete accorti che la storia segue due ritmi differenti, i quali sono scanditi da due narratori differenti: quello esterno e onnisciente e quello esterno con punto di vista interno.
Questo perché volevo dare alla storia due dimensioni, quella della leggenda e del mito, un po' misterioso e pieno di dubbi (sarà davvero andata così?) e quella reale, quella che vi porta a vivere gli eventi in maniera ravvicinata.
Consideratelo un esperimento un po' scenico. L'occhio del narratore è la telecamera: a volte guarda tutto dall'alto, e una voce fuori dallo sfondo vi narra le vicende; e una, o meglio due volte (una con Adelaya e una con Arket) vi porta sopra la spalla del personaggio, e voi guarderete con i suoi occhi e avrete modo di percepire le sue sensazioni (nel caso di Adelaya ci sarà amore e rispetto e timore degli dei; nel caso di Arket ci sarà forza, rabbia e coraggio).
Spero che l'avventura sia di vostro gradimento.
Il prossimo aggiornamento: 5 Febbraio.
   
 
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