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Autore: Tenar80    15/02/2019    2 recensioni
Corea 2018. Olimpiadi invernali.
Una leggenda alla propria ultima gara.
Un campione in cerca di conferme.
Un atleta di valore, di uno stato periferico.
Una giovane promessa alla propria prima olimpiade.
Il tutto complicato dai sentimenti, dallo scandalo doping, da un calendario gare studiato apposta per accanirsi sui pattinatori, dalle rivalità sportive e gli infortuni.
Genere: Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Stagioni'
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Quindi era questo che significava essere un atleta olimpico.

    Yuri aveva ripetuto a tutti che era solo una gara come le altre. Anche Yakov lo aveva ripetuto un milione di volte, in allenamento. Quella mattina, mentre assisteva al corto della prova a squadre, a Yuri era sembrato che fosse davvero così, una gara come le altre, solo in un posto più ventoso e scomodo del solito, con quel senso generale da vacanza organizzata per bambini dei quartieri disagiati che aleggiava sul villaggio olimpico.

    La cerimonia d’apertura era un’altra cosa.

    Anche se non voleva, anche se cercava di rifugiarsi in quella pozza di rabbia e cinismo del suo animo a cui poteva quasi sempre attingere forza, gli faceva effetto. Gli faceva effetto essere lì, uno dei centossessantotto atleti russi ammessi alle competizioni dopo gli scandali, nella sua giacca a vento grigia, la sciarpa bianca e i pantaloni blu. Gli faceva effetto essere uno di quella massa di atleti che sfilava, ognuno con i propri sogni, ognuno consapevole di essere solo polvere nell’universo, ma di avere, in quel momento che forse mai nella vita si sarebbe ripetuto, la possibilità di fare la storia. Dava, suo malgrado, l’idea di quanto fosse immane l’impresa di vincere una medaglia olimpica. Solo pochissimi di quelle centinaia e centinaia di atleti avrebbe terminato le competizioni con qualcosa al collo. Ancora meno con qualcosa d’oro al collo. Un numero ancora più piccolo avrebbe portato a termine davvero un’impresa degna di essere ricordata. Per quasi tutti loro si trattava dell’unica occasione per farlo. Con i suoi diciotto anni non ancora compiuti e i suoi sessanta chili scarsi, per la prima volta Yuri si sentiva piccolo.

    Anche se non voleva, gli faceva effetto non vedere, davanti alla loro delegazione, la bandiera della Russia, ma solo una con i cinque cerchi, portata da una volontaria.

    Beh, in nessun caso avrebbe potuto farlo Victor.

    Victor che in quel momento se ne stava in camera, con l’obbligo tassativo del medico di muoversi il meno possibile, se voleva recuperare per il singolo.

    Anche se non voleva, gli spiaceva che non fosse lì, a farlo sentire meno piccolo e meno solo, o a sventolare la bandiera. Vanitoso com’era, se la sarebbe proprio goduta. E, anche se non voleva, Yuri sapeva che aveva ragione Otabek, se lo sarebbe meritato.

    Chris, davanti alla delegazione della Svizzera, si pavoneggiava con la bandiera in mano, dando proprio l’aria di divertirsi da matti e di godersi ogni foto che gli veniva scattata. Yuri dalla sua posizione non poteva vederlo, ma era sicuro che Phichit stesse compiendo lo stesso dovere con più serietà, a capo della sparuta delegazione tailandese. Vedeva invece Otabek, serio e marziale come sempre, un passo indietro rispetto al proprio portabandiera, come se ne fosse la guardia del corpo. Yuri proprio non capiva come il kazako potesse avere sempre le idee così chiare su tutto, un piano della propria vita già definito. Arrivare nei primi cinque in quell’olimpiade e a medaglia a quella successiva, con possibilmente un titolo mondiale nel mezzo. E come una persona che sbagliava così poco i propri calcoli avesse fatto quell’uscita, poi era un mistero. Neppure lo voleva offendere, come avrebbe fatto Mila o un altro qualsiasi della squadra russa con la stessa frase. Ma quello che gli piaceva o non gli piaceva non erano fatti di Otabek, come non lo erano di nessuno. A tradimento, tornò il ricordo di quell’estate, quando il kazako era stato suo ospite per una delle rare settimane di vacanza che Yuri trascorreva a Mosca. Lo rivide nella propria camera, intento a guardare il poster appeso all’armadio, che si era dimenticato di togliere.

    – Balletto? – aveva chiesto, con un mezzo sorriso quasi divertito.

    – Mi hanno fatto piroettare così tanto che alla fine dovevo pur capirci qualcosa – aveva bofonchiato lui, stringendosi nelle spalle. – Alla fine non è così male da vedere.

    – Perché non una ballerina?

    – E che me ne faccio del poster di una ballerina?

    E Otabek lo aveva guardato, sul punto di dire qualcosa, mentre lui si era sentito teso in ogni parte del corpo, di cui era all’improvviso troppo consapevole. Ma Otabek aveva scosso il capo, sorridendo e poi erano usciti a prendere un gelato, ciascuno con le mani nelle tasche.

    E allora? Lui adesso doveva pensare solo al pattinaggio, a fare meno schifo possibile. A essere tra quei pochi che avrebbero portato a casa qualcosa. Per se stesso, per Yakov, per suo nonno, che era sempre più vecchio e più dolorante e aveva bisogno di un nipote di cui poter andare orgoglioso, non di uno di cui vergognarsi.

*

    Victor stava seduto sul proprio letto, con il portatile sulle cosce e la caviglia destra, fasciata stretta, appoggiata sopra un cuscino. Suo malgrado, Yuuri pensò che con i capelli tanto chiari da sembrare già bianchi e le rughe da stanchezza nel volto smagrito, sembrava più vecchio dei suoi anni. Non meno bello o desiderabile, ma maltrattato del tempo.

    – Non dovresti essere qui – gli disse Victor, alzando gli occhi dal monitor.

    – Mi importa più di te che della cerimonia d’apertura.

    – È il tuo momento, io l’ho già avuto, dovresti godertelo appieno.

    – È il nostro momento. L’unica Olimpiade che vivremo assieme.

    Victor annuì, accettando la sua presa di posizione.

    – Come va la caviglia? – chiese Yuuri.

    Il compagno sospirò.

    – La teniamo insieme, in qualche modo.

    Yuuri non riusciva fino in fondo a capire cosa l’altro stesse passando. Era stato fortunato. Si era lussato una spalla, una volta, cadendo veramente male, e aveva avuto la sua parte di distorsioni e infiammazioni. La schiena iniziava a risentirsi di tutti gli anni passati a saltare sul ghiaccio e per precauzione in quella stagione aveva saltato delle competizioni. Nonostante quello al mattino spesso iniziava a sentirsi irrigidito e dolorante, ben consapevole del tempo che passava. Ma non si era mai rotto niente. C’erano dolori che semplicemente non conosceva.

    – Ne vale la pena? – chiese

    Dovendo gareggiare ancora due volte la caviglia non sarebbe certo migliorata. Quel pomeriggio Victor aveva ammesso di mettere in conto di potersela rovinare in modo definitivo. Glielo aveva scritto in un messaggio, come se lo informasse dei propri orari di allenamento. Era una cosa che Yuuri sentiva ancora all’altezza dello sterno, come un sprangata.

    L’altro, invece si limitò a un sorriso storto.

    – Certo che ne vale la pena. È la mia ultima gara. Per che cosa dovrei risparmiarmi?

    – Per noi.

    Gli uscì con più freddezza di quanto avesse voluto, con lo stesso suono di uno schiaffo e vide gli occhi azzurri di Victor dilatarsi come se in effetti ne avesse appena ricevuto uno.

    Non voglio litigare. Anche la mia rabbia, alla fine, è solo amore.

    – Vieni qui – sussurrò Victor.

    Con cautela, Yuuri si sistemò sul letto al suo fianco.

    Ho l’impressione che sia di vetro, nell’anima e nel corpo. Non ho mai avuto tanta paura di spezzare qualcosa.

    – Firenze o Venezia? – chiese Victor, mostrando le finestre aperte sul proprio pc.

    – Per cosa? 

    C’era un’affasciante fotografia di un edificio antico che si affacciava sull’acqua, a Venezia, senza dubbio. Victor stava visualizzando una pagina scritta in russo, ma le cinque stelline gialle in alto davano a Yuuri l’impressione che si trattasse un albergo che non si sarebbe mai potuto permettere.

    – La nostra vacanza, dopo i mondiali di Milano – replicò Victor. – Vuoi andare prima a Firenze o a Venezia? Quella che sto rischiando è solo una caviglia. Al peggio verrò con un bastone, come il vecchietto che sono.

    È solo una caviglia… La cosa peggiore è che lo pensa davvero.

    La cosa che più destabilizzava, in Victor, era la sua quasi totale onestà. Ometteva, sin troppo spesso, ma non mentiva mai. E sì, una caviglia era un prezzo onesto da pagare, per lui, per dimostrare di avere il diritto di essere lì, contro tutto e tutti. Ancora una volta, Yuuri si chiese da che esperienze provenisse, per aver appreso nel profondo quella noncuranza. Quali prezzi avesse già dovuto pagare per raggiungere i propri obiettivi. È solo una caviglia…

    – Sarebbe bellissimo – ammise Yuuri, guardando le foto dell’hotel. – Ma possiamo permettercelo?

    –  Sì, ma è un mio regalo. Agli sponsor europei piaccio ancora.

    Anche questa non era ostentazione. Era la soddisfazione di chi viene dal nulla e si è guadagnato ogni cosa.

    – Venezia allora. Ho sempre sognato di vederla.

    – Bene. A Milano andremo all’opera, alla Scala, ho già i biglietti per la sera dopo la finale. Sperando di festeggiare il tuo secondo titolo.

    Victor continuò a illustrare l’itinerario che aveva progettato. 

    Semisdraiato sul letto, con il viso tra il suo collo e la spalla, con l’odore buono dei suoi capelli nel naso, Yuuri era quasi felice. Quasi. Una parte di lui avrebbe voluto che non ci fosse nulla fuori da quella porta, nessuna olimpiade, nessuna gara, nessuna maledetta nazione a cui rispondere. Invece, anche se cercava di non darlo a vedere, ciò che stava fuori da quella porta premeva per entrare, come il mostro in un film horror. Una parte di Yuuri si sentiva inseguito da un’ansia non ancora soverchiante ma che, lo sapeva, alla fine lo avrebbe travolto.

    – Non mi hai raccontato niente dei tuoi allenamenti – disse Victor, quando ebbe terminato il modulo di prenotazione dell’hotel di Venezia.

    – Vanno bene, direi – rispose Yuuri, cercando di stare sul vago.

    Doveva alzare il punteggio tecnico. Quella era la verità. Ma non sapeva ancora come. Né sapeva come dire a Victor, che quel programma l’aveva costruito, che intendeva modificarlo in modo sostanziale.

    – Il tecnico della nazionale… Ti trovi meglio che con me?

    La domanda spiazzò del tutto il giapponese. Si alzò dalla propria posizione, per guardare il compagno negli occhi.

    – Sei impazzito? – chiese.

    Ma non era una provocazione o una ripicca per l’inizio teso della serata. Quello che trovò nel viso di Victor sembrava davvero insicurezza.

    – Ci sto pensando molto… – disse ancora il russo. – Ha più esperienza di me…

    – Victor, tu sei cresciuto con Yakov, che è riconosciuto come il miglior tecnico del mondo e sei il pattinatore che ha vinto più di tutti. Non c’è nessuno che abbia più esperienza di te… Tamura fa il suo lavoro ed è una brava persona, ma continua a chiedermi come ti comporti tu in questa o quella situazione. Come allenatore, non come atleta.

    Il russo si rilassò appena sul cuscino.

    – È che a volte ho paura…

    – Victor, si può sapere che cosa ti hanno fatto prendere? Sono io quello insicuro.

    Questo produsse un vero sorriso nel viso dell’atleta russo, il primo della serata.

    – Reggo gli antinfiammatori più o meno come te il vino, lo sai – disse. – Se vuoi estorcermi qualche torbido segreto credo sia il momento.

    Ne sarei tentato. Ma non lo farei mai.

    – È per il mio libero che non sei tranquillo? – chiese Yuuri.

    – No lo so.

    Yuuri aveva odiato cordialmente il libero della stagione precedente, La tempesta. Aveva un punteggio tecnico mostruoso, o, meglio, lo stesso di quello che Victor aveva preparato per se stesso, La saga della primavera, con cui gli aveva strappato il record del mondo. Yuuri non lo aveva eguagliato, ma pattinandolo al meglio ci andava davvero vicino. Era un programma pensato per superare il 220 di punteggio. Al mondiale, tuttavia, Yuuri era stato a un passo dal farsi male davvero. Aveva recuperato senza cadere e aveva vinto, ma si erano spaventati entrambi. Victor forse più di lui. Così, quando Yuuri aveva insistito per cambiare programma, il russo lo aveva assecondato. Quell’anno Yuuri pattinava sulle Quattro Stagioni di Vivaldi, con un costume che adorava e una coreografia che raccontava il cambiare delle stagioni della propria vita. Riusciva a esprimere al cento per cento se stesso. Ma, salvo miracoli, non sarebbe andato oltre il 205 di punteggio. Non era, non sarebbe più stato, il migliore. L’atleta che Victor meritava di allenare. Né poteva essere un atleta da podio olimpico, come invece tutto il Giappone sembrava aspettarsi.

    – Il libero va bene, credo – continuò Victor. Teneva gli occhi chiusi, come se faticasse a mettere insieme i pensieri. – Sei tu che devi decidere cosa ti senti di fare e alzare o abbassare la difficoltà. Questo, in ogni caso, ti esprime meglio… Sono io… Egoista. Avrei dovuto insistere perché fossi tu a tentare il quadruplo Axel.

    – Victor, tu non tenti il quadruplo Axel. Tu lo fai. Con una caviglia rotta o quasi. Io e Yurio lo abbiamo visto – replicò Yuuri. Gli antidolorifici lo rendono davvero incoerente. – Io spesso ho problemi con il triplo anche quando sto benissimo.

    – Io…

    Yuuri gli impedì di proseguire con una bacio.

    Io non sono all’altezza delle tue aspettative atletiche.

    Victor lo scostò con delicatezza.

    – Non tentarmi. Non ne ho la forza fisica. E Yurio ormai potrebbe rientrare da un momento all’altro.

    – Yurio… Ecco, quello sarebbe imbarazzante – ammise Yuuri.

    *

    – Stai ancora scappando? – la voce di Otabek colse Yuri alla sprovvista.

    – Io non scappo mai – rispose, ostile.

    In realtà tergiversavo. Ho il terrore di arrivare in camera troppo presto e trovarci un giapponese nudo.

    – Cosa ci fai ancora in giro? – chiese al kazako. – Fa freddo, è tardi, hai gareggiato questa mattina e la tua palazzina è dall’altra parte.

    Otabek si strinse nelle spalle.

    – Domani… Già oggi in realtà, è il giorno di riposo, posso starmene tutto il giorno o quasi in camera a poltrire.

    Che poi, conoscendolo, poltrire per lui significava leggere o studiare quelle robe piene di calcoli che faceva all’università di cui Yuri non capiva niente.

    Il ragazzo sospirò. Poteva accampare una scusa qualsiasi e andarsene. Erano proprio sotto la palazzina russa.

    Il coraggio di chiamare le cose con il proprio nome…

    – Perché pensi che io sia gay? – chiese Yuri.

    Forse nel buio della notte non lo si sarebbe visto arrossire.

    Otabek si strinse nelle spalle.

    – Hai il cellulare pieno di donne nude? – chiese.

    – Ma questo cosa vuol dire? – soffiò Yuri.

    – Neppure io – replicò il kazako.

    Poi, come se fosse la cosa più normale del mondo, gli mise una mano sulla spalla, lo accostò al muro, con decisione, ma senza rudezza. E lo baciò.

    Cosa…

    Sa di the e d’estate. Quindi è questo che…

    Cazzo!

    Quando la lingua dell’altro toccò la sua, Yuri sentì un calore che non poteva in nessun modo controllare e fu troppo.

    Si divincolò, scalciando d’istinto, in preda a qualcosa di troppo simile al panico.

    – Che cazzo credi di fare! – ringhiò, cercando di riprendere fiato.

    Anche Otabek aveva il respiro accelerato, nessuna traccia della sua abituale calma negli occhi dalle pupille dilatate.

    – Vai a limonare Mila o una qualsiasi delle brave ragazze russe, se preferisci – ringhiò. – Rovinanti pure la vita come vuoi.

    E se ne andò correndo.

    Yuri rimase un secondo immobile e poi tirò un pugno contro il muro.

 
   
 
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