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Autore: AthenaKira83    20/10/2019    6 recensioni
Quando Magnus Bane, ex agente speciale della Marina militare statunitense, accetta di fare un favore al padre, di certo non si aspetta di dover fare da babysitter a uno scontroso, irritante, ma dannatamente attraente, agente di viaggi che non ha alcuna intenzione di rendergli facile il compito che gli è stato affidato.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sei un bugiardo!
Non è vero che dovevi lavorare fino a tardi.
Sono venuta a trovarti, ma l'ufficio è chiuso e tu non ci sei.
Non mi piace essere presa in giro.

Alec Lightwood allontanò il ricevitore dall'orecchio e, per un istante, fu tentato di scaraventarlo contro il muro. Fece un respiro profondo e cercò di scacciare l'irritazione che lo invadeva sempre quando le decisioni venivano prese senza consultarlo.
Alec era un tipo preciso, scrupoloso, metodico. Gli piaceva controllare le cose, pianificare tutto nei minimi dettagli e ponderare con largo anticipo ogni mossa, anche quella successiva.
In quel momento, però, niente stava andando come voleva. Era stato preso completamente in contropiede e, spiazzato, stava faticando non poco a tirarsi fuori da quella situazione che l'aveva investito come uno tsunami.
Con un altro sospiro esagerato svuotò i polmoni e si sforzò di tenere a bada la frustrazione che gli ribolliva nelle vene. Perdere il controllo non sarebbe servito a nulla. Non con la persona dall'altro capo del telefono, almeno. No, con lui doveva rimanere calmo, freddo, lucido. O non avrebbe avuto scampo e sarebbe rimasto schiacciato dalla sua ferrea volontà di piegarlo al suo volere.
"E cosa dovrei farmene di questa guardia del corpo?" ringhiò Alec, tamburellando, nervoso, le dita sul piano lucido della sua scrivania, sormontata da una montagna di fascicoli e fogli sparsi su tutta la superficie.
C'era una pila, al suo fianco, che pendeva pericolosamente verso destra e minacciava di franargli addosso da un momento all'altro. Quello, però, era l'ultimo dei suoi pensieri, anzi c'era una vocina, dentro di lui, che gli stava suggerendo che sarebbe stato meglio venire seppellito da tutte quelle scartoffie piuttosto che affrontare la catastrofe che stava avendo luogo. Diede un colpetto con l'indice alla pila, per raddrizzarla alla bell'e meglio, poi prese un matita per renderla ancora più stabile, ma con scarsi risultati. Dopo un lungo sospiro e un'occhiata critica, scrollò le spalle, decretando che non c'era il rischio di morire travolto da decine e decine di fogli, non per il momento almeno, e tornò quindi a concentrarsi sulla conversazione telefonica che gli stava irrimediabilmente rovinando quella domenica mattina.
"E' ridicolo." continuò, appallottolando con una mano un foglio scarabocchiato, gettandolo poi, con un gesto deciso, nel cestino ricolmo accanto alla sua gamba.
La voce profonda di Robert Lightwood risuonò dall'altro capo del ricevitore, calma. "Non è una guardia del corpo, Alec." lo corresse suo padre, tranquillo. "E' più un.. custode." specificò, dopo un momento di pausa "Sì, direi che è la definizione più calzante."
"Ahn-ahn. Certo, come no. E io sono il Presidente degli Stati Uniti!" lo schernì Alec, secco, roteando gli occhi a quella ridicola spiegazione.
Suo padre stava tentando di raggirarlo. Era un artista in questo. Solitamente usava questo trucchetto con il "nemico", ossia i suoi avversarsi politici, ma, se necessario, non si faceva alcuno scrupolo a sfruttarlo anche con i membri della propria famiglia, se questo significava raggiungere il proprio scopo. In quel momento, ad esempio, sperava di fregare Alec dando un'altra definizione a colui che, a tutti gli effetti, in realtà era un cane da guardia che ben presto avrebbe sconvolto la sua tranquilla vita di agente di viaggi. Lui, però, non ci cascava.
"Alec.." sospirò Robert. "Si assicurerà solamente che non ti succeda niente." spiegò con tono rassicurante.
"Davvero? E perché questo tizio non custodisce Jace o, meglio ancora, Izzy? Eh? Perché non va a rompere le scatole a lei?" chiese Alec, stizzito. "Sono certo che Izzy troverebbe la cosa estremamente eccitante e divertente, a differenza del sottoscritto!"
"Perché loro non hanno ricevuto minacce di morte."
"Ma quali minacce, per l'angelo!" ribatté Alec, alzando il tono di voce e sbuffando esasperato. "Stiamo parlando di una stupida e-mail, papà! Una soltanto! Ed era indirizzata a te, non a me!"
Suo padre esagerava. Sempre. Era il re indiscusso del dramma. Nessuno aveva la predisposizione a ingigantire ed enfatizzare qualcosa come Robert Lightwood e quella situazione ne era il classico esempio lampante.
Santo cielo, solo perché un tizio, con più di una rotella fuori posto, gli aveva inviato un'e-mail, in cui lasciava intendere che conosceva l'attività di Alec, sembrava che, di lì a poco, stesse per avere luogo l'Apocalisse e che i quattro cavalieri fossero pronti a squarciare il cielo con le loro armi da guerra e scendere sulla terra per seminare morte e distruzione.
"Alec, questo tipo di intimidazioni non vanno prese alla leggera." si giustificò Robert.
"Papà, apprezzo la tua preoccupazione per me, davvero, ma non sono più un bambino. So badare a me stesso! Senza contare che si è trattato sicuramente di un brutto scherzo e nulla di più!" rispose Alec con convinzione, evitando accuratamente di menzionare ciò che aveva trovato sopra la tastiera del suo PC.
Lei, infatti, era stata lì.
Alec si rigirò, tra le dita, uno dei suoi tanti biglietti da visita della sua agenzia di viaggi, Cacciatori di sogni. Questo, però, era diverso da tutti gli altri: nella parte immacolata, che si trovava sul retro del cartoncino, minacciose lettere, scritte con inchiostro rosso, marchiavano, enormi, lo spazio color avorio.
Non era firmato, ma Alec non aveva dubbi su chi fosse la mittente.
Lydia Monteverde gli aveva chiesto un appuntamento ogni giorno da quando era entrata la prima volta nel sua agenzia, due mesi addietro, per informazioni su una vacanza.
Era successo anche il giorno prima e, ancora una volta, Alec aveva rifiutato con educazione, adducendo l'ennesima scusa per non cenare con lei.
Trascurando il fatto che quella ragazza non era decisamente il suo tipo, visto che Alec preferiva tratti ben più mascolini, c'era qualcosa, nel suo comportamento, che l'aveva messo in allerta fin dal loro primo incontro e ora sapeva che il suo istinto non si era sbagliato: l'interesse di Lydia, nei suoi confronti, si stava trasformando in morbosa ossessione e Alec iniziava a sentirsi davvero a disagio per quella situazione.
Non era affatto preoccupato che gli potesse succedere qualcosa, no, questo no, ma era spiacevole doversi continuamente "difendere" da quegli attacchi indesiderati. Non gli era mai capitato di essere l'interesse amoroso di nessuno, non nel senso romantico del termine almeno, e di certo non aveva alcuna intenzione di iniziare a esserlo ora. Soprattutto se quelle attenzioni arrivavano da una ragazza, per l'angelo!
Incastrò la cornetta del telefono tra l'orecchio e la spalla e strinse le labbra in una lunga linea sottile, mentre rileggeva il messaggio delirante che aveva davanti, guardandosi poi nuovamente attorno, con uno strano senso di inquietudine. Come diavolo aveva fatto a entrare? La serratura era intatta e non c'era alcun segno di effrazione. Nulla era fuori posto e tutto sembrava come l'aveva lasciato il giorno prima, a parte il biglietto con le lettere scarlatte scritte a caratteri cubitali, che era stato incastrato tra i tasti della tastiera del suo computer. Il pensiero che quella donna potesse avere accesso al suo ufficio, in ogni momento, lo infastidì e turbò al tempo stesso.
Fissò, pensieroso, lo sguardo fuori dalla finestra, dove la vita trascorreva tranquilla, almeno rispetto a quanto stava succedendo dentro al suo ufficio. Un pallido sole domenicale accompagnava la giornata dei newyorkesi, che, carichi di sacchetti colorati e indaffarati a chiacchierare con il proprio accompagnatore o a parlare al telefono, affollavano il marciapiede al di là del vetro. Quell'usuale e pacifico tran-tran era in netto contrasto con l'atmosfera che stava respirando Alec, carica di tensione ed elettricità. Improvvisamente il moro desiderò essere lì fuori.
Il lungo silenzio dall'altra parte della linea ebbe il potere di riportarlo bruscamente al presente e di focalizzare la sua attenzione su ciò che stava accadendo in quel momento. Alec sapeva bene, infatti, che suo padre stava per passare all'attacco, ponderando con attenzione le prossime parole che gli avrebbe rivolto.
Robert Lightwood era un uomo che raramente agiva d'impulso: il suo autocontrollo era proverbiale e soppesava ogni parola prima di pronunciarla, stando sempre attento ai toni e ai contenuti delle proprie dichiarazioni. Anche per questo era uno dei favoriti, tra i vari candidati che si sarebbero contesi l'ambita poltrona al Senato alle prossime elezioni.
"Alec, chiunque ci sia dietro a questa faccenda, sa benissimo che il modo migliore per colpire me è colpire i miei cari." mormorò Robert, con un esagerato sospiro melodrammatico.
Alec irrigidì le dita attorno al biglietto da visita che aveva in mano, intuendo la nuova tattica dell'uomo: far leva sul suo senso di colpa. Era un comportamento sleale.. e così tipico di suo padre!
Non sapeva se Lydia c'entrasse qualcosa o meno, ma lo sconosciuto che aveva inviato l'e-mail a Robert non aveva rivolto nessuna reale minaccia ai suoi familiari, perciò Alec sapeva di non essere davvero in pericolo e trovava, quindi, assurda l'idea di vedersi affibbiare una guardia del corpo. Non ne aveva bisogno. Era un uomo, per l'angelo! Nel caso in cui ci fosse stato davvero un pazzo che l'aveva preso di mira, lui era capacissimo di badare a sé stesso. Era alto e ben piazzato e poteva stendere tranquillamente qualsiasi aggressore osasse anche solo avvicinarsi. Non era affatto la damigella in pericolo che suo padre si ostinava a pensare, dannazione!
Al contempo, però, c'era una parte di lui, quella diligente, quella che faceva sempre la cosa giusta, quella che metteva la famiglia prima di tutto, che non voleva assolutamente far preoccupare l'uomo dall'altro capo della cornetta, che già viveva un momento stressante, tra la gestione dell'azienda di famiglia, la corsa al Senato e le minacce dello sconosciuto.
Suo padre non era sempre stato un genitore affettuoso e presente nella vita dei propri figli. Votato al lavoro, aveva dedicato alla propria società e alla propria scalata politica molto più tempo e molte più energie di quelle che aveva riservato ad Alec e ai suoi fratelli, ma il ragazzo sapeva che, a modo suo, voleva loro bene e lo sentiva davvero preoccupato, forse memore di quanto successo dieci anni prima, quando uno sconosciuto aveva assassinato il membro più piccolo della famiglia Lightwood, Max.
Un'ondata di dolore minacciò di soffocare Alec, trascinandolo in un abisso buio e freddo. Nonostante fosse passato del tempo, quell'episodio l'aveva segnato nel profondo e, da quando non c'era più Max, il moro era cambiato. Non che prima fosse l'anima della festa ogni qual volta entrasse in una stanza, eh. No, lui non era mai stato come suo fratello Jace, che sembrava brillare di luce propria tanto era splendente, né tantomeno aveva il carisma e l'autostima di sua sorella Isabelle, che sembrava avere un enorme cartello lampeggiate sopra la testa con su scritto "Lo so! Lo so! Sono fantastica!", ma perlomeno riusciva a sorridere alle battute e a sostenere una conversazione che durasse più di due frasi fatte. Dopo la scomparsa di Max, invece, Alec si era chiuso in se stesso, diventando apatico. Per un certo periodo non gli era importato nulla di vivere e aveva addirittura sperato di raggiungere il fratellino, ovunque lui fosse. C'era voluto del tempo prima che, lentamente, riprendesse i contatti con la realtà e, anche se qualcuno (sua madre) riteneva che la sua non era comunque un qualcosa che si potesse definire vita, ma una sorta di ritiro, di sospensione, ad Alec non importava. Certo, gli dispiaceva moltissimo non riuscire a toglierle quello sguardo preoccupato ogni qual volta coglieva i suoi occhi posati su di lui, ma si sentiva impotente a cambiare quella situazione. E, a dirla tutta, non era neanche sicuro di volerlo fare.
Prese un respiro profondo e accantonò con forza tutti quei pensieri, riportando la sua attenzione al presente e sul fatto che aveva il forte sospetto che Robert stesse sfruttando, forse inconsapevolmente, la situazione in cui si trovavano in quel momento per cercare di essere il tipo di padre che avrebbe voluto e dovuto essere dieci anni prima.
Fin dall'infanzia, il loro rapporto era stato piuttosto anaffettivo e sbrigativo. A causa del suo lavoro, Robert non aveva mai avuto tempo di andare a vedere il piccolo Alec praticare il tiro con l'arco, il suo sport preferito in assoluto, o portarlo allo Yankee Stadium a vedere una partita di baseball della sua squadra del cuore, i New York Yankees. Non c'erano mai stati abbracci caldi o coccole prima di andare a dormire, né discorsi di incoraggiamento quando un compito non era andato come avrebbe voluto, nonostante il moro avesse studiato come un dannato. Per gran parte della sua vita, Alec aveva dovuto combattere per affermare la propria indipendenza e le proprie capacità. Suo padre aveva sempre preteso da lui dei risultati assurdamente alti e non si era mai fatto scrupolo di criticarlo aspramente ogni volta che il ragazzo non raggiungeva gli standard richiesti.
L'entrata nella fase adolescenziale aveva incrinato maggiormente quel fragile legame di sangue, che era peggiorato drasticamente dopo il coming out del moro, avvenuto a diciassette anni, ed era stato quasi del tutto reciso quando Alec aveva dichiarato, orgogliosamente, che non sarebbe entrato nell'azienda di famiglia nemmeno per tutto l'oro del mondo.
Per Robert era stata una mazzata tremenda scoprire che al suo primogenito non interessava minimamente entrare in società con lui e, soprattutto, che gli piacessero i maschi. No, era assolutamente fuori discussione che suo figlio, sangue del suo sangue, non solo non avrebbe mai garantito il proseguo della stirpe Lightwood, con numerosi nipoti maschi, ma sarebbe stato addirittura condannato alla dannazione eterna, ardendo nelle fiamme dell'inferno, a causa della sua condotta peccaminosa e immorale.
La tragedia familiare che li aveva colpiti, però, li aveva avvicinati come niente altro avrebbe potuto fare e, negli anni, la loro relazione era migliorata a tal punto che suo padre aveva iniziato a scherzare sul fatto che Alec fosse uno zitello impenitente e che sarebbe diventato un vecchio rugoso prima di vederlo in abito nuziale, accanto all'uomo della sua vita.
"Per favore, Alec." lo stava pregando Robert, con tono accorato. "Fallo per me. Fallo per tua madre."
Alec sospirò profondamente. Anche tirare in ballo sua madre era un'altra mossa sleale tipica di Robert. Suo padre sapeva benissimo, infatti, che il moro si sarebbe strappato il cuore dal petto per Maryse Lightwood e che non avrebbe mai fatto nulla (non intenzionalmente, almeno) che l'avrebbe fatta soffrire o preoccupare.
Sua madre era stata la sua più preziosa alleata, insieme a sua sorella Isabelle, nel delicato processo di scoperta del proprio orientamento sessuale, facendogli da scudo ogni qual volta Robert scagliava contro di lui tutta la propria frustrazione e Alec gliene sarebbe stato sempre grato per questo. Era stata Maryse la prima spalla su cui aveva pianto tutte le sue lacrime amare e disperate, quando aveva scoperto di essere gay, ed era stata sempre Maryse a spronarlo a non arrendersi alle prime difficoltà e a spingerlo a inseguire i suoi sogni e a essere felice. Se era l'uomo che era diventato, seppur apparentemente incompleto, lo doveva a lei.
"E va bene." concesse alla fine il moro, rassegnato, dopo un lungo momento. "Gli permetterò di venire con me al lavoro e dare un'occhiata veloce al mio appartamento, quando rientrerò, ma nulla di più. Non vivrà con me."
"Perché no?" chiese Robert, sorpreso. Non contento di averla appena spuntata sulla questione guardia del corpo, suo padre era già passato a un nuovo obiettivo. "Casa tua è grande abbastanza per entrambi! Ci sarebbe sicuramente spazio anche per lui e.."
Alec roteò gli occhi. "Papà!" lo bloccò. "Prima di tutto il mio appartamento non è affatto grande. Per l'angelo, ci sto a malapena io e.."
"Te l'ho sempre detto che posso aiutarti a prenderne uno più spazioso." lo interruppe Robert.
"Papà!" lo rimbeccò Alec, esasperato. "Per favore, non riapriamo questo vecchio discorso!"
"Ma Alec.."
L'appartamento di Alec era una delle tante battaglie che suo padre soleva intraprendere contro di lui. A Robert sarebbe piaciuto comprargli una casa enorme, sfarzosa, moderna, con un numero infinito di stanze e aggeggi tecnologici inutili. Il moro però aveva sempre rifiutato: a lui piacevano le sue quattro mura sgangherate, che sembravano stare su per miracolo, e il suo divano malconcio, pronto per la discarica.
"E, secondo.." continuò Alec, ignorando le proteste del padre. "..non permetterò a uno sconosciuto di gironzolare per casa mia o per la mia agenzia. Spaventerebbe i clienti!"
"Ma per favore!" ribattè suo padre, con uno sbuffo.
Anche la sua amata agenzia di viaggi, ereditata direttamente da nonna Phoebe Lightwood, era sempre stato uno motivo di disputa piuttosto "infuocato". Fin dalla sua nascita, infatti, Robert aveva dato per scontato che Alec, un giorno, avrebbe preso il suo posto nell'attività di famiglia, ma il moro aveva sempre avuto ben altre ambizioni. Il ragazzo, infatti, adorava il lavoro della nonna nell'aiutare le persone a realizzare il loro sogno di viaggiare e affiancarla, in quella particolare e magica missione, l'aveva coinvolto fin dall'infanzia, dove, alto come un soldo di cacio, si arrampicava sulla scrivania dell'anziana donna per rispondere al telefono e proporre le mete più esotiche che gli venivano in mente in quel momento.
"E comunque non è uno sconosciuto." continuò Robert. "Te l'ho detto, è il figlio di.."
"Di quel tuo vecchio compagno d'armi in Marina. Sì, lo so. Me l'avrai ripetuto almeno cinque volte."
"Si chiama Magnus, è un militare e dovrebbe arrivare domani mattina, alle otto in punto. Per favore, Alec, sii gentile con lui." lo esortò Robert, anche se quelle parole suonarono più come un ordine che un'accorata raccomandazione.
Alec inspirò bruscamente. "Io sono sempre gentile!" ribatté con prontezza, accigliandosi subito dopo, palesemente risentito, quando sentì dall'altra parte della linea la risata allegra di suo padre, malamente camuffata con un colpo di tosse. "Ehi! Ti stai prendendo gioco di me?"
"Oh, per l'angelo, ma guarda un po' che ore sono!" esclamò la voce divertita di Robert. "Ti devo proprio lasciare, figliolo. Ho un appuntamento urgente." chiosò furbescamente. "Io e tua madre non vediamo l'ora di vederti! Ci sentiamo presto! Ciao!"
"Cosa? No! Non abbiamo ancora fin.."
Si udì un clic, poi il segnale che la comunicazione era stata interrotta. Alec mormorò un verso strozzato, mentre fissava, attonito, la cornetta ormai muta.
Sospirò per la milionesima volta, poggiando la fronte sugli avambracci incrociati sopra la scrivania, e tentò di scacciare tutti i pensieri negativi su Lydia e sullo sconosciuto che, indirettamente, gli stava creando non poche seccature. Quella giornata era cominciata in modo davvero pessimo ed erano solo le nove di mattina.
Dopo un lungo momento di pace, il telefono iniziò a suonare nuovamente. Alec allungò stancamente una mano e si portò il ricevitore all'orecchio, senza neanche alzare la testa.
"Pronto?" rispose, con voce funebre.
Era così di cattivo umore che, nonostante fosse il giorno di chiusura, non si era nemmeno presentato con la solita frase di cortesia che usava sempre, meccanicamente, quando il telefono dell'agenzia squillava.
"Alec?" chiese, titubante, una voce familiare.
"Sì." confermò il ragazzo, con un tono che arrivava direttamente dall'oltretomba.
"Stai bene?"
"Ahn-ahn."
"Sicuro?"
"Sì."
"Uhm.. se lo dici tu. Comunque, per l'angelo, è da un'ora che cerco di chiamarti! Si può sapere che ci fai in ufficio?"
Alec sospirò, raddrizzandosi sulla poltrona e massaggiandosi il setto nasale. "Ciao, Iz."
"Ciao?" chiese Isabelle, sul piede di guerra. "Alec, perché sei lì?" ripeté nuovamente, con tono accusatorio.
"Sto solo sistemando alcune scartoffie e mettendo un po' a posto l'ufficio." si difese Alec, con un sospiro stanco.
Il moro sentì, in modo chiaro, la sorella minore sbuffare pesantemente. "Oh, Alec.. l'agenzia non andrà in rovina se ti prendi un giorno di riposo." lo ammonì dolcemente.
Alec sorrise. Isabelle Lightwood era fatta così: nonostante fosse il fratello maggiore, vivesse da solo da anni e decidesse della sua vita da molto di più, sua sorella si preoccupava per lui, sempre. Le crociate di Isabelle, contro lo stacanovismo fraterno, erano ormai diventate una prassi domenicale e la ragazza non mancava mai di assicurarsi che non si stancasse eccessivamente, rimproverandolo senza indugio quando lavorava troppo.
La quantità di lavoro che si stava accumulando sopra la scrivania di Alec, però, aumentava di giorno in giorno e, se non avesse approfittato del suo unico giorno libero, il moro sapeva che, di certo, tutte quelle pratiche non si sarebbero svolte da sole, ma, anzi, sarebbero diventate una pila imponente che sarebbe arrivata a sfiorare il soffitto. Toccava a lui portarle a termine.
E, d'altro canto, era anche giusto così. L'agenzia di viaggi era una sua responsabilità e, a differenza dei fratelli, non aveva alcuna vita sociale che lo aspettava dopo il lavoro: non aveva un fidanzato con cui passare il tempo né una moltitudine impressionante di amici con cui uscire o cose davvero interessanti da fare. Era un tipo solitario che amava la sua tranquilla routine, il suo lavoro, gli inviti a pranzo o a cena dei genitori e passare il tempo con i suoi fratelli. Una vita semplice, insomma.
Per amore di cronaca, andava detto che i fratelli avevano tentato, in più di un'occasione, di alleviare la sua solitudine, incoraggiandolo a uscire e organizzandogli qualche appuntamento galante, ma Alec oramai era diventato un vero esperto nel sviare tali inviti, anche perché, quelli in cui erano riusciti a incastrarlo, convincendolo a presentarsi, erano finiti tutti in modo disastroso.
Sua sorella diceva che era troppo esigente, che le sue aspettative per un semplice appuntamento spensierato erano troppo alte, ma lei non aveva mai avuto a che fare con quegli individui, per l'angelo! Non era colpa di Alec se quegli incontri erano finiti male: gli erano capitati i peggiori maschi in circolazione, santo cielo! Uno viveva ancora con la mamma, un altro aveva parlato a vanvera per tutta la sera, senza mai fermarsi o porgli qualche domanda per sapere qualcosa di più sul suo conto, e un altro ancora era più interessato all'aspetto dei propri capelli che a chiacchierare con lui. Il peggiore di tutti, però, era senza ombra di dubbio l'ultimo con cui avevano tentato di accasarlo: un biondino che aveva passato una mezz'ora buona ad annusarsi le ascelle, prima di schiaffargliene una in faccia e chiedergli, dubbioso, "Secondo te, puzza?". Alec ricordò di aver appoggiato la tazza del suo té caldo sul tavolo e, schifato, di essersi alzato e di essersene andato senza dire una parola.
Insomma, già era difficile essere gay, con tutto il pesante bagaglio che ne conseguiva, figurarsi se si sarebbe accontentato del primo idiota che quelle spine nel fianco gli spingevano a forza tra le braccia. Non era mica così disperato! Non aveva bisogno del loro intervento inopportuno e, il più delle volte, imbarazzante. Se voleva, sapeva trovarselo da solo un uomo, per l'angelo! Solo che, in quel momento, non sentiva tutta quella necessità di appiccicarsi a qualcuno, e rinunciare alla sua libertà, ecco.
"Avevi bisogno di qualcosa?" chiese alla sorella, per evitare la solita ramanzina che, era certo, sarebbe arrivata da lì a poco.
"Cosa? Oh, sì!" esclamò Isabelle. "Hai sentito Jace? Ho provato a contattarlo non so quante volte, ma è da ieri che mi sta evitando!"
"Non ti ha ancora fornito la lista, eh?" chiese Alec, con un sorriso che la sapeva lunga.
Jace era il loro fratello adottivo. Si sarebbe sposato tra un mese e Isabelle si era offerta di organizzare a lui e alla fidanzata, nonché segretaria di Alec, Clary Fairchild, una festa di fidanzamento per il sabato seguente. Peccato che il biondino, in due settimane, non avesse ancora fornito l'elenco dei suoi invitati a Isabelle, dando la colpa al suo lavoro di agente di polizia, che lo teneva impegnato costantemente ventiquattro ore su ventiquattro.
"Ho i fornitori che mi stanno con il fiato sul collo e non so più quale scusa inventarmi, per l'angelo!" sbraitò Isabelle, seccata. "Giuro che se non me la spedisce entro oggi lo strangolo, anche se è un agente di polizia!"
"Gli manderò un messaggio." promise Alec, ridacchiando, per poi tornare serio quando adocchiò nuovamente il biglietto di Lydia. "Ah, Iz, quando parli con Simon, gli accenni per cortesia che voglio installare un sistema d'allarme in ufficio?"
Il fidanzato di Isabelle, Simon Lewis, lavorava per una società di sicurezza e Alec era certo di potersi fidare di lui e della sua esperienza al fine di essere più discreto e veloce possibile nel montare l'antifurto.
"Un sistema d'allarme?" chiese Isabelle, sbalordita. "Ha a che fare con l'e-mail ricevuta da papà?"
Alec roteò gli occhi. "No e non voglio parlare di lui. Sai che mi ha imposto una guardia del corpo a causa di quella stupida e-mail?" si lagnò, stizzito. Il moro sentì chiaramente sua sorella inspirare bruscamente e poi emettere un singulto. Alec scostò la cornetta dall'orecchio per fissarla, quasi avesse potuto vedere Isabelle al suo posto, poi la riportò dov'era. "Stai.. stai ridendo?" le chiese, tra il sorpreso e l'offeso.
"Cosa? No!" esclamò Isabelle, lasciandosi scappare un verso stridulo.
"Non c'è niente da ridere!" ribatté Alec, indignato. "E' inaccettabile che papà vìoli la mia privacy in questa maniera, obbligandomi a ospitare un perfetto sconosciuto in casa mia!"
"Aspetta, dormirà da te?" chiese Isabelle, lasciando perdere ogni freno e ridendo apertamente. "Oh per l'angelo! Non vorrei essere nei suoi panni!"
"Scusa?" domandò Alec, sbalordito. "E con questo, cosa vorresti dire?"
"Oh, Alec, lo sai che ti voglio un bene dell'anima, sul serio, ma devi ammettere che non è facile interagire con te. Ti chiudi a riccio e mordi chiunque osi anche solo avvicinarsi a dieci metri dalla tua persona."
"Cosa? Ma non è vero! " si difese Alec, indignato.
"Quel poveretto patirà le pene dell'inferno." continuò Isabelle, allegra.
"Beh, nessuno lo obbliga a venire! Non ho bisogno di lui!"
Isabelle ridacchiò. "Quando dovrebbe arrivare?"
"Domani. Alle otto." rispose Alec, tetro.
"Voglio una sua foto!" pretese Isabelle, divertita.
"Cosa? No! Non gli farò alcuna foto!" protestò Alec, scandalizzato.
"Oh, vabbè! Tanto lo vedrò comunque!" dichiarò la ragazza, compiaciuta. "Ma, se non è per l'e-mail, perc.. aspetta! Non dirmi che lei è ritornata alla carica!"
Alec sospirò. Isabelle era l'unica, tra amici e parenti, a essere a conoscenza dell'esasperante ossessione che Lydia aveva per lui. L'aveva scoperto per puro caso, quando, un giorno in cui dovevano pranzare insieme, aveva notato gli appostamenti della bionda davanti alla sua agenzia di viaggi. Da quel momento, sua sorella non mancava mai di esternare tutta la sua preoccupazione per quella spinosa situazione ed era quindi del tutto inutile tentare di nasconderle il biglietto che aveva trovato quella mattina. Primo, perché sua sorella era dotata di un sesto senso che, in più di un'occasione, gli aveva fatto venire i brividi, ed era certissimo quindi che avrebbe fiutato la novità anche dalla cornetta del telefono, e, secondo, perché, una volta scoperto il tutto, si sarebbe di certo esibita in una sceneggiata epocale sul fatto di non essere stata messa al corrente dei nuovi sviluppi.
"Sì. Non so come, ma è entrata qui dentro e.."
"Aspetta! Aspetta! COSA??? E' entrata nella tua agenzia?" urlò Isabelle, spaccandogli un timpano.
"Iz, non serve gridare in questo modo." implorò Alec, massaggiandosi il padiglione auricolare.
"Sì, sì, scusa." tagliò corto Isabelle. "Come diavolo ha fatto quella tizia a entrare?" chiese, moderando il tono di voce.
"Non lo so. Ho controllato da cima a fondo, ma non ci sono segni di effrazione." rispose Alec, guardandosi attorno, per l'ennesima volta, alla ricerca della più minima traccia del passaggio della ragazza. "L'ufficio è a posto." la rassicurò. "Ha solo lasciato un biglietto."
"Un biglietto? Che tipo di biglietto?" chiese Isabelle, preoccupata.
Alec glielo lesse. "Non è niente di serio, comunque. Non preoccuparti." minimizzò, tentando di tranquillizzarla.
"Alec! Quella psicopatica ti perseguita da mesi! Ora è entrata nel tuo ufficio per lasciarti un messaggio minatorio e io non dovrei preoccuparmi?" berciò Isabelle, tornando ad alzare la voce. "Grazie a cielo da domani hai una guardia del corpo, ma la tua agenzia.. Ah, ma adesso ci penso io! Dirò a Simon di venire domani stesso!"
"Ma.." protestò Alec, debolmente. "Potrebbe già avere degli appuntamenti fissati. Sul serio, Iz, non è urgente e.."
"Domani mattina sarà lì!" ripeté Isabelle, con tono autoritario.
Alec sospirò. Non voleva farla preoccupare né tantomeno seccare Simon con qualcosa che, forse, non era davvero niente di serio, ma sapeva, però, che far ragionare Isabelle, quando si metteva in testa una cosa, era impossibile. Era identica a Robert! "Ti ringrazio." mormorò quindi, rassegnato.
"Ma ti pare! Ehi, ti va di venire a pranzo da noi, oggi?" gli propose, dolcemente. "Cucino io!"
Alec sbarrò gli occhi e iniziò a sudare freddo. "Cu-cucini tu?"
"Sì!" esclamò Isabelle, entusiasta. "Ho trovato questa ricetta su internet, per fare la pasta al forno, che è favolosa! Sembra davvero facile da preparare!"
"Beh.." rispose Alec, schiarendosi la gola. "Ho.. ehm.. credo.. beh.. sai.. volevo.." balbettò, alla ricerca spasmodica di una scusa qualsiasi.
Sua sorella era strepitosa in tutto, davvero, e Alec l'amava moltissimo, ma quella benedetta ragazza non sapeva distinguere il sale dallo zucchero e una volta era riuscita persino a bruciare una pentola con dentro della semplicissima acqua. Isabelle Lightwood era totalmente negata nell'arte culinaria e ora voleva preparargli la pasta al forno? No, Alec era troppo giovane per morire.
"Ho.. ecco.. non posso. No. Sai.. ehm.. uhm.. sì.. ecco.. ah! No, non posso! No, no! C'è questa gara di tiro con l'arco che comincia alle undici e non so davvero quando finirà. Ecco.. sì.. sai com'è.. ehm..sì, insomma.." Alec aveva sparato la prima cosa che gli era venuta in mente. Il tiro con l'arco era una delle sue più grandi passioni e, tutto sommato, non era poi così improbabile che andasse davvero ad assistere ad una gara. "Mi piacerebbe andare a vederla. Già. Sì, mi piacerebbe molto. Ecco. Quindi.. ehm.. non posso, no."
"Che peccato!" rispose Isabelle, dispiaciuta. "Però, ora che mi ci fai pensare, è meglio così!"
"P-perché?" indagò Alec, preoccupato.
"Beh, perché così possiamo cenare insieme una di queste sere. Con la tua guardia del corpo!" dichiarò Isabelle, prendendolo in contropiede.
"Una.. una di queste sere? Uhm.. non so.. forse.. sai.. uhm.. non credo che.. beh.. ecco.. ehm.. dobbiamo.. sì, insomma, dobbiamo vedere come va e.."
"Ah, sciocchezze! Vedrai che gustosa cenetta ti preparerà la tua sorellina!" gli assicurò Isabelle, tutta felice.
"Beh.. ecco.. Iz, non credo che.." esalò Alec, stringendo spasmodicamente il biglietto di Lydia.
"Ora ti devo lasciare! Ci sentiamo più tardi, ok? Ciao, fratellone."
"Ciao." mormorò Alec, piano, incapace di proferire un'altra parola.
Una spasimante ossessionata da lui, uno sconosciuto che lo minacciava indirettamente tramite e-mail, un cane da guardia pronto a stravolgergli la vita e ora l'invito di Isabelle. Perché Alec non era rimasto a letto quella mattina?
   
 
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