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Autore: _Unmei_    18/04/2020    3 recensioni
Chissà se qualcuno è riuscito a capirlo, che in ogni colpo di scalpello che ha dato forma a quell'angelo, dietro a ogni lineamento cesellato con pazienza, nei boccoli che gli ricadono sulle spalle, nel morbido drappeggio che gli copre le gambe, nel lievissimo sorriso che gli increspa le labbra… che in ogni piuma delle ali che ho fatto nascere dalla sua schiena, c’è la mia dichiarazione d’amore per lui.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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Giardini di Pietra
 
Capitolo 1

 
_________________
 
 
Genova, gennaio 1914
 
Ogni inverno è sempre peggio: freddo e umidità mi fanno star male, mi ammalo facilmente, tossisco fino a farmi mancare il fiato e il mio respiro sibila… a sentirmi faccio pena e schifo persino a me stesso.
Il mio medico pretenderebbe che me ne restassi chiuso nella mia confortevole casa, al caldo, con una coperta sulle ginocchia, e che impegnassi il mio tempo al più leggendo, evitando ogni fatica, uscendo raramente; vorrebbe anche che rinunciassi ai sigari e alla pipa, quell’idiota. Peggiorano la mia tosse, dice, come se ciò avesse il potere di farmi preoccupare. Le passeggiate e il tabacco sono due delle poche consolazioni che mi restano, e lui vorrebbe togliermele! Tanto varrebbe seppellirmi subito che, in ogni caso, le mie ragioni di vita sono esaurite ormai da tempo.
Non do mai retta a quel cavasangue, e anche stamattina sono uscito, tra i rimproveri di quella seccatrice della mia governante (gran brava donna, per carità, ma più opprimente di una moglie… o di come immagino debba esserlo una moglie), e infagottato nel mio cappotto scuro ho passeggiato fino al cimitero, una strada che mi sembra sempre più lunga, più faticosa, e ancora una volta sono giunto ai miei amati giardini di pietra… sono giunto fino a lui.
 
Staglieno è un luogo pieno di quiete e silenzio; altrove non potrei sentirmi altrettanto bene, non potrei mai trovare una simile pace se non fra i suoi vialetti, e nelle lunghe gallerie dove i miei passi echeggiano su un pavimento di lapidi. C’è tanta triste, dolente bellezza intorno, e un senso di speranza, di paura e attesa. E per me c’è anche il ricordo dolce-amaro della mia giovinezza, la prova scolpita nel marmo candido di chi ero un tempo, e la consolazione che un giorno, che ormai non credo lontano, anche io sarò solo un nome su una di queste pietre:
 
“Riccardo Varnesi – Scultore”
 
Sì, un tempo lo fui, e uno dei migliori: sentivo la grazia e il calore pulsare sotto il freddo marmo, in attesa che io li liberassi; così come il pittore vede sulla tela ancora immacolata splendere la sua opera, così come lo scrittore brucia notti e candele per raccontare di personaggi che non esistono e che tuttavia sono più vivi di lui.
Era l’arte che adoravo, il mio grande amore.
Gli amori sono sempre destinati a finire, o ad affievolirsi, dicono i cinici, ma non questo: quanto ancora desidero far vivere la pietra, quanto farebbe sentire vivo anche me! Mi pesa sentire il richiamo di una musa crudele che m’ispira, che mi invita seducente ben sapendo che non posso più soddisfarla come vorrei e dovrei.
Le mie mani, un tempo così forti, quanto le odio ora che sono inutili, deformate dall’artrite, avvizzite e doloranti, deboli! Per me è grande fatica persino scrivere queste parole, procedo con lentezza, devo fare pause… quasi non riesco a reggere la stilografica, figuriamoci scalpello e mazzuolo!
Le mie mani sono deboli come tutto il resto di me, come la mia salute; in gioventù non avrei mai creduto che un giorno avrei rimpianto quel corpo che mi sembrava ordinario, ma che era forte e sano, instancabile e vigoroso. Ero alto, e mi sono dovuto curvare sotto il peso degli anni senza la possibilità di ribellarmi, nonostante tutto il mio orgoglio.
Né avrei immaginato di ricordare con nostalgia il mio volto un po’ squadrato, i capelli e gli occhi scuri che mi sembravano tanto banali; invece ora lo faccio tutti i giorni, scrutando nello specchio quell’odiata ragnatela di rughe, i capelli incanutiti, gli occhi sempre arrossati: no, quella maschera patetica non sono io!
C’è una parte del mio cuore arido e amareggiato che è rimasta immutata; lì un giovane uomo di trent’anni mi urla di smettere di compatirmi e di tornare a essere me stesso.
Ma che ne sa lui?
Io ho ottant’anni, e non trenta, e tutto di me sta cadendo a pezzi.
 
Una cosa però è ancora buona, nonostante tutto: la mia vista.
È perfetta come quando ero un ragazzo, e così posso vedere con chiarezza, eternamente giovane nel marmo, il volto bellissimo che tanto ho amato, che ancora amo e amerò per sempre. Il volto per il quale cammino fino al cimitero, sotto la fredda pioggia invernale e sotto il fulgido sole dell’estate.
Il volto verso il quale anche stamattina ho alzato lo sguardo, riempiendomi della sua bellezza, della sua dolcezza, di quell’espressione incredibile che lui aveva, e che forse non mi è nemmeno riuscito di cogliere del tutto.
Chissà se qualcuno è riuscito a capirlo, che in ogni colpo di scalpello che ha dato forma a quell’angelo, dietro a ogni lineamento cesellato con pazienza, nei boccoli che gli ricadono sulle spalle, nel morbido drappeggio che gli copre le gambe, nel lievissimo sorriso che gli increspa le labbra… che in ogni piuma delle ali che ho fatto nascere dalla sua schiena, c’è la mia dichiarazione d’amore per lui.
Cinquant’anni fa… mezzo secolo.
 
Avevo ventinove anni ed ero abbastanza famoso e richiesto; lo sarei diventato molto di più, e avrei insegnato nelle migliori accademie, ma ancora non lo immaginavo, e quel che avevo già mi sembrava moltissimo. Mai la vita mi sarebbe potuta sembrare più rosea: che può volere di più un artista se non vedere apprezzate le proprie opere?
Gli artisti sono egocentrici e narcisi: lodi e ammirazione com’è ovvio mi riempivano di orgoglio, forse persino di vanagloria, e io ne ero sempre affamato, però, in realtà… in fondo ho sempre scolpito per amore della bellezza. Perché mi sarei sentito vuoto e inutile, senza, per l’emozione di creare e l’appagamento di portare nel mondo qualcosa che prima non c’era; se pure mi avessero condannato a non mostrare mai a nessuno le mie statue, a essere l’unico a poterle vedere, io avrei continuato, sempre, a dare vita al marmo. Non sarei mai stato infelice, credevo, fino a che avessi potuto farlo.
 
Quando il signor V.S., uomo molto in vista e facoltoso, appartenente all’aristocrazia cittadina, si rivolse a me perché realizzassi un’allegoria per la tomba di sua madre, in quello stesso cimitero che già ospitava opere di scultori la cui fama andava ben oltre la mia, mi sentii onorato. V.S. non mi diede particolari istruzioni; mi disse solo che desiderava un monumento si rifacesse a modelli cinquecenteschi, e che sarebbe stato posto nel porticato superiore a ponente. Era quella, e ancora è, una delle aree più costose del cimitero; la cifra stessa che mi offrì per la mia opera mi frastornò: sessantamila lire, solo per il mio lavoro, più il finanziamento di ogni spesa per materiali e manovalanza. Appartengo a una famiglia benestante, diciamo pure ricca, avrei potuto vivere di rendita, ma quella somma lo stesso mi tolse il fiato, perché non mi era mia stato offerto così tanto, prima d’allora.
Ancora non avevamo finito di discutere, e già nella mia mente prendeva forma quello che avrebbe dovuto essere il monumento; riflettevo sui dettagli, sulla simbologia che avrei usato, e quella sera stessa iniziai a mettermi all’opera. Nei giorni successivi tracciai schizzi su schizzi, realizzai numerosi piccoli modelli di creta, proposi le mie idee, che vennero approvate, e quando ebbi chiaro – quasi del tutto – ciò che volevo, comprai il marmo.
E iniziai a scolpire.
Oh, quanto mi manca! Nulla mi faceva sentire meglio, né i miei amici, né i piaceri materiali; ero capace di trascurare chiunque e qualunque cosa, di dimenticare anche di mangiare, solo per lui, il candido marmo. Passavano i mesi, e mi dedicavo solo a quell’opera, dedicandole quasi ogni istante di veglia, lavorando a un ritmo tale da procedere ben più in fretta del previsto.
Passò un anno e mezzo; avevo già scolpito l’allegoria della Fede, dalle sembianze di una donna incoronata che regge un crocefisso, e sarebbe stata posta sul sarcofago, e stavo lavorando l’allegoria della Speranza, nelle sembianze di un angelo riccioluto, dall’espressione un po’ malinconica, che a lei volgeva lo sguardo. Lui sarebbe stato posto alla destra del sarcofago… e in quanto al sarcofago stesso, ancora dovevo iniziare a scolpirlo, ma già lo avevo accuratamente raffigurato su carta: la famiglia dolente che vegliava al letto della defunta.
Era l’altra allegoria a darmi pena, la statua che volevo porre sulla sinistra; un altro angelo a guardia della tomba, a custodire chi vi fosse sepolto fino al giorno della resurrezione. Nella resurrezione, in realtà, credevo ben poco; in fondo al mio cuore speravo, e forse spero ancora, di poter rivedere tutte le persone care che ho perduto, una volta che mi sarò lasciato alle spalle questa vita… ma la razionalità mi ripete che quando la morte spegne una luce, non ne accende nessuna in cambio. È la fine di tutto, il cadere del sipario, lo spiegarsi del sudario; tutto il resto sono favole con cui cerchiamo di consolarci.
Il Sonno Eterno! Un nome più gentile per la morte…
Il Sonno Eterno, l’Eternità, certo, ecco chi sarebbe stato l’altro custode del sepolcro. Ma che aspetto poteva avere un angelo che rappresentasse qualcosa di tanto misterioso, qualcosa che tutti temono? Desideravo un volto insolitamente bello e dolce, perché nei miei pensieri la Morte, per quanto fosca e temuta, non è crudele: l’ho sempre vista, in fondo, come un abbraccio d’oblio che ti scioglie da ogni miseria, o che almeno ti risparmia quelle sicuramente la vita ti infliggerebbe.
Per quanto mi sforzassi, non riuscivo proprio a immaginare un viso adatto, e la giusta espressione, nulla che incarnasse al meglio la mia idea: se un angelo della morte esisteva, a me precludeva la sua vista.
 
Intanto era giunta la fine di novembre e le temperature erano insolitamente basse, come ora, ma a quei tempi il freddo che entrava nelle ossa ancora non mi faceva star male. Anzi, lo amavo, quel mese considerato da tanti grigio e triste, non più autunno, non ancora inverno; lo trovavo dolcemente malinconico.
Quel pomeriggio avevo deciso di fare una lunga pausa e di distrarre la mente con una camminata, sperando che mi portasse ispirazione. Ma mentre ero fuori prese a scendere una fine pioggerella, e interruppi la mia lunga passeggiata entrando in un caffè, un locale modesto, vecchio e non molto grande, in una via in cui passavo raramente. Il posto era fumoso, il pavimento di legno coperto da un sottile strato di segatura. Avrei semplicemente bevuto del brandy con acqua calda e sarei uscito senza nemmeno aspettare che spiovesse, se non fosse stato per la persona che, al centro della sala, iniziò a suonare meravigliosamente il violino. Una melodia che partiva ariosa, malinconica, che si sarebbe ben accordata a tramonti sfocati dalla nebbia, o al fuoco morente in un camino.
Ma poi la musica si faceva più rapida, acuta, vivace… era un Capriccio di Paganini, il ventunesimo.
Sono un artista, la bellezza mi folgora, mi ammalia al punto di estraniarmi da tutto, da rendermi indifferente al tempo che scorre: affascinato potrei passare ore a osservare un dipinto, una scultura, la vetrata di una cattedrale gotica e i giochi della luce che l’attraversa; così pure rimasi ammaliato, senza parole, davanti a quel violinista.
Il ragazzo suonava con gli occhi chiusi e un vaghissimo sorriso, inebriato dalla musica, e non so dire se fu la bellezza della melodia o quella di colui che la eseguiva a incantarmi a tal modo.
Il suo viso era incantevole, delicato; non sembrava maschile, ma certo nemmeno femminile, quasi fosse quello di un bel fanciullo, cresciuto senza che i tratti e gli zigomi si fossero induriti nel raggiungere l’età adulta.
I capelli erano piuttosto lunghi, mossi da morbide onde e sparsi sulle spalle, di un biondo scuro dai riflessi dorati, e sembravano puliti e curati, nonostante lui avesse l’aria di essere di molto modeste condizioni.
O meglio… gli abiti che indossava sembravano di ottima fattura e buona stoffa, ma erano consumati e lisi, la rendigote gli era stretta, i pantaloni consumati sulle ginocchia, e gli orli erano stati rivoltati; le scarpe erano sformate e molto malridotte.
Gli andai più vicino per osservarlo meglio, e cercai di esaminare il suo strumento; aveva un suono perfetto, caldo e potente, e potei vedere che era un pezzo di artigianato pregiato, probabilmente molto vecchio, e certo nessuno meno che facoltoso si sarebbe potuto permettere qualcosa di simile. E nella sua povertà, quel ragazzo possedeva una dignità e un portamento che avrebbero fatto sfigurare anche un signore dell’alta società.
Chi era, mi chiesi, era forse stato ricco prima di conoscere le ristrettezze?
Intanto lui suonava, e la musica, così espressiva, m’incantava, mi trasportava lontano, e non mi trovavo più in un modesto caffè, ma in un meraviglioso teatro, o in un nobile palazzo dagli alti soffitti affrescati e ampie scale di marmo.
 
La musica accelerò e poi finì, e lui si inchinò, un movimento sciolto e leggero, e mentre tutti gli altri presenti applaudivano e gettavano monete nella custodia del violino aperta ai suoi piedi, solo io ero rimasto immobile, a bocca aperta e con il cappello in mano, a fissarlo come fosse un’apparizione celestiale.
Lui rialzò la testa e mi vide, e dovevo sembrare bene un idiota, perché con espressione sconcertata ricambiò il mio sguardo, perplesso per un attimo, e poi fece un gran sorriso, e fu come se tutto il suo volto si illuminasse; i suoi occhi verdi, un verde scuro di foresta, luccicarono come se avesse capito fino a che punto ero stato conquistato.
… gli avessi voltato le spalle, me ne fossi andato, fossi fuggito da quel posto e da lui, forse sarebbe stato meglio.
Sicuramente sarebbe stato meglio.
E invece restai, segnando la mia vita.
 
Mi avvicinai ancora di più, avrei voluto esprimere con parole che lo colpissero, parole che non avrebbe mai dimenticato, ciò che avevo pensato di lui, l’emozione che mi aveva dato con il suo violino, ma mi riuscì di fare solo un gesto con le mani, e di proferire un misero:
 
“Sei bravissimo.”
 
Lui sorrise ancora e si portò una mano al petto, accennando un mezzo inchino, dedicato a me soltanto, poi mi rivolse ancora uno sguardo, benevolo e divertito, come se avesse capito lo stesso tutto ciò che avevo sperato di dirgli.
Come poteva il suo viso essere così eloquente, come poteva riuscire a esprimere così tanto con un semplice sguardo?
Restai assorto: un volto incantevole, senza sesso e senza età, un sorriso così mesmerizzante… il pensiero mi colpì: poteva essere lui, il mio angelo della morte?
Dopo essermelo chiesto capii che per lui non avrei più potuto pensare a nessun altra incarnazione.
Ma il mio violinista già aveva raccolto la sua roba, una sacca a tracolla in cui aveva posto anche il violino, e se ne stava andando.
 
“Aspetta!”
 
Lo chiamai, quando ormai era sulla soglia, una mano già protesa verso la porta. Lo raggiunsi e afferrandolo per un braccio lo feci voltare verso di me; un gesto sgarbato e invadente, lo so, ma ero fuori di me, scombussolato da una tempesta di emozioni confuse e di ispirazioni artistiche, e penso che ciò possa in parte giustificarmi.
 
“Io… voglio proporti un lavoro.”
 
Dissi, incrociando la sua espressione meravigliata. Il modo tanto diretto in cui posi la mia offerta non faceva che confermare che stavo sragionando… non era così che si comportava un gentiluomo! Per Dio, immagino di essere sembrato una specie di pazzo!
Così mi scusai e mi presentai in maniera più civile, gli dissi il mio nome e cognome e il mio mestiere, sperando di sembrare un uomo per bene, e riformulai la mia richiesta.
 
“Devo finire un gruppo scultoreo, mi serve un modello.”
 
Tacqui qualche secondo, poi mi affrettai ad aggiungere:
 
“Oltre a una paga, posso offrirti vitto e alloggio fino al termine dell’opera, se ne hai bisogno.”
 
Aveva l’aria di vivere in qualche squallida camera piccola e fredda, e avevo ragione di credere che l’offerta di una casa riscaldata e pasti sicuri fosse per lui più che allettante.
Inarcò le sopracciglia e mi sorrise ancora; mi osservò con attenzione, e infine annuì, prendendomi una mano e stringendola. Poteva essere un assenso, quello? Che strano ragazzo!
 
“Io mi sono presentato; qual è il tuo nome?”
 
Si portò una mano alla gola, e con l’altra indico la propria bocca, socchiudendola; facendo quel gesto scosse lievemente la testa.
Capii, e stavo per aprire bocca e dire un ‘mi dispiace’ che, credo, sarebbe stato fuori luogo, ma prima che potessi farlo lui mi prese di nuovo la mano e sul palmo traccio dei segni: lettere dell’alfabeto in uno stampatello grande e chiaro.
 
“Florent.”
 
Tradussi, quando ebbe finito, e lui annuì, e mi strinse ancora una volta la mano.
 
Così, da quel locale in cui ero entrato da solo, uscii in compagnia, con al mio fianco un giovane di cui non conoscevo nulla, se non il nome; quasi non credevo d’aver agito tanto d’impulso, ma ero stato folgorato… era l’amore stesso per l’arte che governava la mia vita a guidarmi. O così almeno mi ero detto.
A guardare Florent quasi mi sentivo impacciato, per il suo sguardo intenso, e il suo portamento sicuro; forse, poiché era povero e più giovane di me, mi aspettavo da lui deferenza e soggezione, e invece era sicuro di sé, per nulla intimidito, pieno di fierezza, avrei detto, come un principe.
Allo stesso tempo pero egli mi sembrava dolce, e davvero lo era, come avrei poi scoperto; dolce, profumato e vellutato come miele tiepido… ma tutt’altro che fragile, o indifeso, altra cosa che avrei poi sperimentato di persona. Sì, aveva forza, coraggio, e carattere, e se avesse voluto avrebbe potuto far danzare il mondo sulle corde del suo violino.
Mi schiarii la voce e inumidii le labbra, sentendomi immotivatamente nervoso.
 
“Hai qualcuno da avvisare? Devi andare a prendere qualcosa? Ti serve forse…”
 
Lui mi rispose scuotendo la testa, continuando a guardare di fronte a sé, e trovai triste che non avesse niente e nessuno di cui preoccuparsi, né averi, né famiglia, nemmeno un amico da salutare; quella mancanza di legami faceva quasi pensare che non avesse un passato, non uno felice, e mi diede una sensazione di tale solitudine da stringermi il cuore. Ma lui non era turbato, la sua espressione era serena, e nel freddo non tremava, nonostante i suoi abiti fossero troppo leggeri per la stagione.
Aveva smesso di piovere, il cielo si stava sgombrando dalle nubi, e facemmo un po’ di strada a piedi, poi fermai una carrozza scoperta e comandai al cocchiere l’indirizzo di casa mia; attraversammo la città infreddolita, passando davanti a ricchi palazzi e a mendicanti laceri, vecchi barcollanti e bambini infagottati per mano alle loro madri.
Superammo una curva ed avemmo davanti l'aspro mare che non mi stanco mai di contemplare; respirai l’aria profumata di salsedine, guardai il sole che si preparava a lasciare spazio all'oscurità, tingendo il cielo e le nuvole rimaste di rosso e di viola. Era incantevole, e provai una gran sensazione di leggerezza, di fiducia, di impazienza di rimettermi al lavoro. Sentivo solo il rumore degli zoccoli del cavallo e non quello della tempesta in avvicinamento, che avrebbe stravolto la mia vita.

__________

NdA


Anni fa, visitando il Cimitero di Staglieno a Genova, vidi una statua di un angelo che mi colpì moltissimo, per la sua posa e la sua espressione. L’angelo rappresenta appunto il Sonno Eterno, o l’Eternità, come stanno a indicare la corona di bacche di papavero che ha sul capo e il cerchio che tiene in una mano.
Si trova sulla tomba Bracelli-Spinola, scolpita dallo scultore Santo Varni, che in Genova e in altre città realizzò molte importanti opere (per esempio, in Staglieno sono una quarantina, tra cui la grande statua della Fede, e quella dedicata alla moglie Giuditta).
Stando a quanto dice il libro su Staglieno “Giganti di Marmo”, la tomba Bracelli-Spinola costò all’epoca, 1864, sessantamila lire; secondo il convertitore del Sole 24 Ore, equivarrebbero a poco più di trecentomila euro dei giorni nostri.
Ovviamente il mio Riccardo e il vero scultore non hanno nulla da spartire, a parte la città di nascita e il mestiere!
 
Quanto a me, la statua appunto mi colpì moltissimo, e m’ispirò all’istante. Scrissi di getto una prima versione di questa storia, che ora,a rileggerla, mi fa accapponare la pelle per gli errori di tutti i tipi che contiene… va bene buttare giù con entusiasmo, ma santo cielo!
In questa versione ho cercato di porre rimedio, e anche di dare più spessore ai personaggi, di rendere un po’ più vive le ambientazioni.
È una storia diversa dal mio solito: è più breve sia numero di capitoli (saranno 11 o 12) che per lunghezza degli stessi, fin dall’inizio si sa come finirà, ma soprattutto è scritta in prima persona, e non so quanto sia nelle mie corde scrivere da questo punto di vista… specie quando si tratta di mettersi nei panni di un ottantenne amareggiato vissuto oltre un secolo fa.
Spero che comunque vi sia piaciuta! Se vi va lasciatemi un commento, perché sono davvero curiosa di sapere che ne pensate di Riccardo e di Florent. Sulla mia pagina Facebook  tra le foto potrete trovare qualche immagine della statua e del cimitero; via via ne aggiungerò altre, anche dei luoghi di cui si parla nella storia,  
e metterò le musiche che verranno citate. La pagina è QUI
 
Posterò i nuovi capitoli con cadenza abbastanza distanziata, in modo da poter andare avanti (spero!) con la scrittura di altre storie. Se intanto voleste leggere un’altra mia storia, quella a cui tengo di più è Tenebra e Luce, e la trovate QUI. È sempre slash, ma a sfondo fantasy.

Intanto, grazie per aver letto fin qui <3

 
 

 
 
 
 
 
 

 
   
 
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