In ritardo, come al solito, ma
eccomi qui.
Ho approfittato della piccola
pausa tra un esame e l’altro – la sessione è tutt’altro che finita ç__ç – per
terminare e rivedere questo capitolo. E poi non volevo farvi aspettare ancora:
so che siete rimasti sulle spine. Ma quanto è divertente? XD
In
the still of the night
32.
-
È morto? – ansimo. Il mio mondo sta tornando ad essere nero. Sento la mia
faccia accartocciarsi su sé stessa. – No… ti prego…
-
Non è morto, Katniss. È vivo – mi rassicura Haymitch. – Ma è messo male.
-
Ha bisogno di un intervento chirurgico, tesoro – mi spiega mia madre, mettendo
una mano sul mio viso. – Potrai vederlo più tardi, appena possibile, ma adesso
devi lasciare ai medici la possibilità di farlo stare meglio.
-
Che… che gli hanno fatto? – balbetto.
-
Non vuoi saperlo sul serio. Credimi, non vuoi saperlo sul serio. Vieni, andiamo
fuori. Verranno ad avvisarci appena potremo vederlo.
Haymitch
mi porta in sala mensa, che è deserta e a malapena illuminata a quest’ora della
notte. Ci siamo solo noi due, e non ci sediamo nemmeno attorno ad un tavolo a
caso, ma ci mettiamo per terra. Sediamo lungo una delle pareti fredde, l’una al
fianco dell’altro. Ho i gomiti posati sulle ginocchia e le mani strette dietro
il collo, e mi guardo i piedi. Comincio a sentire freddo, ma cerco di non
pensarci.
-
Tu l’hai visto, Haymitch? – gli chiedo, piano. – Hai visto cosa gli hanno
fatto?
Sospira.
- L’ho visto, sì – ammette, a malincuore. – Non è stato bello da vedere. Spero
solo che lo rattoppino un pochino, prima che tocchi anche a te vederlo.
Tiro
su col naso, e lo asciugo con la manica della divisa; non mi interessa se è una
cosa schifosa da fare.
-
È stata tutta colpa mia…
-
Non è colpa di nessuno di noi, Katniss.
-
Tu me lo avevi detto, che non sarei mai stata in grado di meritarmi Peeta.
Neanche tra cento vite.
-
Da quando tieni in considerazione ciò che ti dico? – esclama.
-
Da quando ho capito che faccio del male a tutto ciò che amo.
Haymitch
sospira di nuovo. - Ascoltami bene, ragazzina – mormora, picchiettando il dito
sulla mia testa. – Non sei tu che porti sfortuna o roba simile, ma chi ha
inventato questo sistema. È a loro che dovresti rivolgere la tua rabbia. Ed è a
loro a cui dovresti dare la colpa, non a te stessa.
Lo
ignoro. - Gli hanno fatto male a causa mia.
-
Perché è questo ciò che fanno, dolcezza. Infieriscono su di te prendendo di
mira i tuoi punti deboli; per te è stato Peeta, per Finnick Annie… e per
centinaia di altre persone, è stato qualcun altro – Haymitch sospira,
stancamente. – Hanno punito anche me, per ciò che ho fatto col campo di forza.
Volto
la testa nella sua direzione. Haymitch non ha mai, mai fatto cenno, da quando
lo conosco, sul modo in cui è stato proclamato vincitore degli Hunger Games. Io
e Peeta sappiamo perché abbiamo visto il nastro, quella notte, sul treno che ci
stava riportando a Capitol City, ma lui non ci ha mai accennato nulla. Non ha
mai voluto parlarne. E non voleva che ripercorressimo insieme a lui il viale
dei ricordi… ma si sta rivolgendo a me come se lo stesse dando per scontato,
come se sapessi già a cosa si sta riferendo. E non sbaglia, naturalmente.
-
Sai che abbiamo visto il nastro – dico. Non è una domanda, è una
constatazione.
-
Non potevo impedirvi di farlo, dopotutto. Siete curiosi, ed essere curiosi non
è quasi mai sbagliato.
Sbatto
un paio di volte le palpebre, osservandolo. – Che cosa è successo, Haymitch?
-
A loro non è piaciuto il modo in cui ho trasformato il campo di forza come
arma. Non gli è piaciuto per niente: hai presente il tuo giochetto con le
bacche? – annuisco. - La stessa cosa… solo, non hanno aspettato molto tempo
prima di mostrarmi il modo in cui si sarebbero vendicati su di me – Haymitch si
zittisce, guarda fisso davanti a sé, ed il suo tentennare mi fa capire che si
sono accaniti su di lui nel modo peggiore. – Non c’era più nessuno ad
attendermi, quando feci il mio trionfante ritorno a casa da vincitore. Mia
madre, il mio fratellino. E la mia fidanzata… li avevano già uccisi prima della
mia partenza da Capitol City.
Ecco
come hanno distrutto irrimediabilmente la vita di un ragazzo di soli sedici
anni. Ecco perché Haymitch ha trascorso il resto della sua vita a cercare di
dimenticare gli orrori vissuti grazie all’alcol. Ecco il motivo per cui non
parla mai del suo passato, e perché non ha mai avuto un familiare al suo
fianco. Prima di me e Peeta, Haymitch non ha avuto nessuno…
Ecco
come Capitol City è capace di annientarti.
-
A me hanno tolto tutto, Katniss. Con te ci hanno provato, ma non sono riusciti
a completare il lavoro. Ti hanno fatta soffrire, ti hanno strappato via una
vita prima ancora che potesse nascere… ma hai ancora Peeta. Hai ancora il
ragazzo accanto a te. Hai ancora la possibilità di essere felice.
Singhiozzo.
– Haymitch…
-
Ehi, sono per me questi lacrimoni? – scherza, asciugandomi le guance con i
pollici. Mi lascia un bacio sulla fronte ed io chiudo gli occhi. Mi lascio
cullare dalle sue braccia, che non avrei mai creduto potessero essere così
gentili ed accoglienti. - È passato tanto tempo, Katniss. Non fa più così male.
Sonnecchio
contro la spalla di Haymitch quando Prim viene a dirci che possiamo di nuovo
tornare in ospedale. Mi scuote piano e mi sorride, tendendomi la sua mano. Non
aspetta che sia io a prenderla, lo fa da sola: mi rimetto in piedi, temendo ciò
che potrebbe dirmi, ma il suo sorriso mi rassicura in qualche modo, mi dà
conforto e speranza. Non può essere andata così male, se Prim sorride nel modo
in cui è solita fare solo con me. Porgo la mia mano ad Haymitch prima di uscire
dalla mensa, e lui la prende subito. Tra Prim e Haymitch, mi sento al sicuro.
Sento di poter essere abbastanza forte da affrontare i minuti successivi.
Mentre
camminiamo, Prim mi dice che Peeta ha superato l’intervento e che i medici sono
riusciti a fermare l’emorragia interna. Ha altre ferite, alcune un po' più
serie rispetto alle altre: un trauma toracico, una commozione cerebrale, e
tante, tante contusioni. Ha numerose ferite causate dalle percosse. Se
dovessero usare un termine solo per spiegare lo stato in cui verte, quel
termine sarebbe proprio “contuso”.
Nella
camera in cui hanno sistemato Peeta c’è già la mamma ad attenderci, seduta su
una sedia posizionata accanto al letto, ma la degno a malapena di uno sguardo
perché i miei occhi sono subito calamitati dal volto di Peeta, e non riescono a
vedere nient’altro che questo. Mi avvicino al letto su cui è sdraiato, appoggio
le mani sul materasso, e quasi cado in ginocchio. Non riesco a capacitarmi che
ciò che sto vedendo sia il suo vero viso… perché non ha l’aspetto che un viso
dovrebbe avere.
Uno
spesso strato di bende gli copre l’occhio sinistro e metà del volto, e la metà
libera è livida e gonfia, di un intenso color viola. Tre giorni fa i lividi
erano verdi, in via di guarigione… questi sono nuovi. Hanno avuto il tempo di
fargliene di nuovi. L’occhio libero è chiuso e cerchiato di nero, ed ho paura a
pensare a cosa quelle bende possono nascondere al mio sguardo. Una mascherina per
l’ossigeno gli copre bocca e naso, e lo aiuta a respirare.
-
Gli hanno dato la morfamina per il dolore, e lo tengono sedato. Dormirà per
qualche giorno – mi dice la mamma, al mio fianco.
Non
riesco nemmeno a rispondere, o ad annuire. Sono confusa, scioccata, inorridita.
Addolorata. Non riesco a riconoscere Peeta nel ragazzo che giace
addormentato di fronte a me. Ma quei capelli biondi sembrano proprio i suoi.
Tendo la mano e li accarezzo, piano. Ho paura di svegliarlo, o di fargli altro
male, ma non accade nulla: Peeta non si muove, seguita a dormire. Non sembra
aver sentito le mie carezze. Abbasso gli occhi e li faccio scorrere lungo il
suo braccio, coperto di lividi e tagli e pieno di tubicini, quelli delle flebo,
fino a raggiungere la sua mano. Il mignolo e l’anulare non hanno più le unghie.
Stringo le labbra, cercando di soffocare il singhiozzo e il grido che,
insistenti, cercano di uscirmi dalla gola, e la prendo nella mia. Accarezzo il
piccolo punto tra pollice e indice in cui Peeta ha la voglia, e vederla lì, di
quel marrone inconfondibile, scaccia ogni dubbio dalla mia mente.
È
davvero Peeta. Peeta è qui davanti a me.
E
hanno cercato di portarmelo via.
-
Che ti hanno fatto… - ansimo. Le lacrime riprendono a scorrere, ed è strano
perché credevo di averle esaurite tutte ormai. Credevo di non averne più, ed
invece eccole qui, pronte a smentirmi. – Peeta…
Non
risponde, naturalmente. Gli unici rumori, oltre ai miei singhiozzi, sono quelli
prodotti dai macchinari che stanno monitorando i suoi segni vitali: tanti
ronzii, e tanti “bip” riempiono l’aria. Quel “bip” è il suo cuore che batte.
-
Ogni volta che hai paura per me…
Sembrano
parole vecchie di anni, ma invece le ha pronunciate nemmeno due mesi fa.
Allungo la mano e la poso delicatamente sul suo petto, coperto dal leggero
camice grigio dell’ospedale. Il battito arriva, chiaro ed inconfondibile. Il
suo cuore che batte.
-
…ascolta il mio cuore. Lui ti dirà che non devi averne affatto.
Il
cuore di Peeta non placa le mie paure, ma mi sta dicendo che è vivo.
E
per ora mi basta.
I
giorni successivi si trascinano lenti e sempre uguali. Li trascorro
praticamente sempre all’interno dell’ospedale. Mi siedo accanto al letto di
Peeta ed aspetto il momento in cui riaprirà gli occhi; da quando è uscito dalla
sala operatoria non l’ho mai lasciato da solo, e mi sono fermamente rifiutata
di seguire chiunque mi volesse portare fuori dalla sua stanza. E ci sono
riuscita… almeno, per quanto riguarda il primo giorno e mezzo.
-
Dovresti andare a stenderti un pochino, Katniss – ha tentato la mamma.
-
Dovresti andare a mangiare qualcosa – ha provato invece Prim.
Loro
non sono riuscite a schiodarmi da quella sedia, ma Haymitch invece ha colto nel
segno grazie ai suoi soliti modi, che erano diventati improvvisamente troppo
gentili per poter avere una durata a lungo termine.
-
Dovresti fare un bagno, dolcezza – ha detto. Solo questo. E non si
riferiva di certo a un bagno di piacere, ma ad un bagno di pulizia. Non mi
lavavo da almeno tre giorni e, forse, la cosa cominciava a notarsi.
Ho
lasciato Peeta giusto il tempo necessario per raggiungere il mio alloggio e
lavarmi, non sentendomi per nulla tranquilla, nonostante ci fosse rimasto
Haymitch insieme a lui e nonostante l’equipe di medici che passava più volte al
giorno a controllare il suo stato di salute. Non avrò impiegato più di mezz’ora
ad andare e tornare, e l’ho fatto senza neanche asciugarmi i capelli, che ben
presto hanno inzuppato i miei vestiti sulle spalle e sulla schiena.
Tornando
verso la sua camera, però, sono passata davanti alla stanza in cui si trovava
Gale e mi sono sentita stupida, ingrata ed egoista per non essermi informata,
neanche un poco, sulle sue condizioni. Anche Gale era rimasto ferito quella
notte, ed avevo visto il sangue che usciva dalla sua schiena. Sono entrata
senza bussare grazie al fatto che c’era la porta aperta, e vederlo seduto sul
letto, con il vassoio della cena sulle gambe, fu molto meglio di quanto mi
aspettassi.
-
Ehi – mi ha salutata, posando il cucchiaio nella ciotola.
-
Come stai, Gale?
-
Domani mi dimettono – mi ha informata, sorridendo. Poi ha smesso di farlo. –
Come sta Peeta?
Mi
sono seduta sul suo materasso e ho cominciato a lisciare la coperta con le
dita. – Sta – ho risposto.
Gale
ha annuito, senza aggiungere altro.
-
È per questo che mi hai urlato di andare via? – gli ho chiesto. Questa domanda
aveva continuato a frullarmi nella testa in continuazione, senza darmi pace. –
Non volevi… che lo vedessi.
Gale
ha sospirato, grattandosi il mento. – Pensavamo che fosse morto, Katniss,
quando siamo entrati nella sua cella. Non reagiva, non si muoveva, e non sembrava
nemmeno in grado di respirare. E durante il viaggio di ritorno si è aggravato.
La Mason ci ha detto che non le parlava più da almeno un giorno… come potevo
lasciartelo vedere in quelle condizioni?
Ho
deglutito a vuoto. – Gale…
-
Lo so, Katniss – ha posato una mano sulla mia e me l’ha stretta forte,
come per infondermi coraggio. – Te lo avrei riportato indietro lo stesso, anche
se fosse morto. Non meritava di restare laggiù. Nessuno di loro lo meritava.
Da
Peeta, quando ho lasciato Gale a continuare la sua cena, ho trovato un
gruppetto di persone: Haymitch ovviamente, e con lui c’erano anche Boggs,
Fulvia, Effie e Plutarch. Stavano chiacchierando a bassa voce, ma si sono
zittiti quando mi hanno sentita entrare.
-
Eccola di ritorno – ha detto Haymitch. – Non lo lascia da solo nemmeno per un
istante.
Effie
lo ha rimproverato mentre prendevo di nuovo posto sulla sedia, accanto al
letto. - È più che comprensibile! Smettila di parlare come uno sciocco.
-
Cos’avrò mai detto di sbagliato?
Haymitch
ed Effie non smetteranno mai di sembrare, ai miei occhi, una vecchia coppia di
sposi: sono sempre pronti a riprendersi a vicenda, e a punzecchiarsi. Ma anche
questo sembra passare in secondo piano. Tutto ciò che non riguarda Peeta,
adesso, passa in secondo piano.
-
Hanno usato i vecchi metodi per farlo parlare, ma il ragazzo non sapeva nulla.
Era la pedina sbagliata. Mi dispiace che abbiano infierito su di lui con metodi
così medioevali – ha commentato stancamente Plutarch.
Le
sue parole mi hanno irritata, e non poco. – Medio… che? – mi è uscito fuori,
invece di una rispostaccia.
-
Medioevali, Katniss. Il Medioevo era un’epoca antica in cui la tortura veniva
praticata ogni giorno per far confessare il malcapitato di turno.
Non
doveva essere proprio così antica, se si sono ricordati i metodi giusti per
usarli contro Peeta… e dopo così tanti secoli, ho pensato.
Fortunatamente, Plutarch e gli altri sono usciti subito dopo, probabilmente per
parlare di metodi di tortura in un luogo lontano, a distanza di sicurezza dalle
mie orecchie. Sono rimasta di nuovo da sola, e ho preso la mano di Peeta per
stringergliela. Forse non era in grado di percepire la mia presenza, di sentire
la mia voce, ma forse riusciva a sentire il contatto della mia mano sulla sua
pelle. Poteva essergli di conforto… per quanto ne potessi sapere io. Una
ragazza senza alcun tipo di competenza medica, che fino a poco fa sarebbe
scappata via davanti ad uno scempio simile per non essere costretta a vederlo.
Nei
giorni successivi i medici hanno continuato a somministrargli la morfamina, ma
hanno diminuito le dosi dei sedativi per agevolare il suo risveglio; tutti i
suoi parametri mostravano dei piccoli miglioramenti. Anche il suo viso
migliorava: il gonfiore diminuiva, il viola intenso dei lividi stava lasciando
spazio al blu, decisamente più spettrale ma era il segno evidente della
guarigione che avanzava. La mascherina dell’ossigeno viene sostituita da dei
tubicini posizionati sotto al naso. Ed il dettaglio che mi fece sorridere per
la prima volta, dopo giorni di tristezza, fu vedere le sue guance ed il suo
mento ricoprirsi di un velo di barba. Non mi capitava quasi mai di vederlo con
la barba.
Quattro
giorni dopo l’intervento, sono riuscita a restare accanto a lui mentre
medicavano e cambiavano le bende alle ferite che aveva sul corpo; ho potuto
farlo solo perché quel giorno se ne stavano incaricando la mamma e Prim. Se ci
fossero stati altri medici al loro posto, sarei dovuta uscire ed aspettare in
corridoio fino a che non avevano terminato. Una volta li ho travolti, per la
velocità con cui sono sgusciata all’interno della stanza.
La
ferita in via di guarigione sull’addome non mi ha colpita più di tanto;
ricordavo abbastanza bene il lungo taglio che Cato gli inflisse sulla coscia, e
quella cicatrice c’era ancora a ricordare l’accaduto; quel taglio era stato di
gran lunga peggiore, e nemmeno i grandi luminari di Capitol City erano riusciti
a cancellarla del tutto. Mi preoccupava maggiormente ciò che celava la benda
che aveva al viso.
Mia
madre ha tolto i cerotti e lo strato di garza, e ciò che mi sarei aspettata –
un’orbita vuota – non apparve. C’era una palpebra chiusa, arrossata, e un lungo
sfregio che gli percorreva la guancia dalla tempia ed arrivava quasi all’osso
della mandibola. Anche questa cicatrice, forse, non si sarebbe mai cancellata
del tutto.
-
È un miracolo che non gli abbiano preso l’occhio – ha mormorato Prim. La mia
sorellina stava cominciando a parlare come la mamma, ormai. E aveva poco più di
tredici anni. Era cresciuta e stava crescendo troppo in fretta.
-
Sta guarendo bene. Tra non molto potremo togliere i punti – ha detto mia madre.
– Possiamo anche non rimettere le bende, stavolta.
Con
la testa poggiata sulle braccia incrociate, sopra il materasso, ho continuato e
continuato ad osservarlo dormire. Cercavo di carpire dal suo viso il dettaglio,
anche il più piccolo, il più impercettibile dei tanti, che mi avrebbe svelato
quand’è che avrebbe riaperto gli occhi. Una volta ho creduto che stesse
succedendo perché aveva inclinato di poco la testa, ma dopo quel piccolo movimento
non è più accaduto nulla; Peeta ha seguitato a dormire, e basta.
Non
volevo perdermi quel momento: volevo essere io la prima persona a vederlo
sveglio, e volevo che il mio viso fosse la prima cosa che Peeta avrebbe visto.
Per questo ho lottato, e continuavo ancora a lottare, contro il sonno. Non mi
concedevo una nottata intera di riposo dal giorno in cui organizzarono la
squadra di salvataggio. Ho sonnecchiato un po' durante questi giorni, qualche
ora al massimo, ma mai tutte di fila. Ed i miei occhi avevano cominciato a
pesare come macigni.
Alla
fine, credo di aver ceduto. Non me ne sono nemmeno resa conto, e mi sono
addormentata con la testa accanto al suo cuscino. Sono stata vinta dalla
debolezza e dal sonno che avevo cercato di respingere con così tanta
risolutezza per tutte quelle ore. Forse non ho passato troppo tempo a
dormire, ho pensato, quando sono tornata ad essere un po' più vigile. Avevo
gli occhi chiusi, ma non dormivo più. Forse erano passati solo pochi minuti:
avevo chiuso gli occhi solo per pochi minuti…
Ma
evidentemente quei pochi minuti erano stati sufficienti. Erano bastati per fare
la differenza.
Ho
capito che c’era stato un cambiamento dal modo in cui i miei capelli, accanto
alle mie mani, mi solleticavano la pelle. Non potevano muoversi a causa del
vento, o dell’aria, perché nel Distretto 13 non c’è vento. C’era qualcuno che
li stava muovendo di proposito.
Ho
aperto gli occhi, e due iridi azzurre hanno ricambiato il mio sguardo.
Non
mi sono mossa, non ho detto nulla.
Come
se il mio cervello non fosse più stato in grado di impartire alcun tipo di
ordine, immobile, rimango ad osservare gli occhi di Peeta, finalmente aperti.
Dopo intere settimane, posso bearmi di nuovo di quell’azzurro che ho imparato
ad amare così tanto e che ho bramato così tanto di rivedere. Peeta mi osserva,
chiude e apre gli occhi un paio di volte, ma smette di giocare con i miei
capelli. Anche lui, come me, sembra incapace di dire qualcosa. Forse non ci
riesce.
Rabbrividisco,
davanti al pensiero che la mia mente ha appena formulato.
Mi
sollevo dal materasso quel tanto che basta per portare una mano alla sua
fronte, per scacciare via quel ciuffo di capelli che ci ricade sempre sopra. Al
mio tocco, come scottato, Peeta chiude gli occhi. Forse gli ho fatto male.
-
Scusa. Non volevo farti male – mormoro piano.
Peeta
deglutisce e, lentamente, riapre le palpebre. Fa uno strano verso che gli nasce
dalla gola. – Non… potrai mai… farmi del male – sussurra, con voce roca.
Sorrido.
Gli occhi cominciano a pizzicare, ma li ignoro. Non voglio piangere adesso: ho
pianto anche troppo in questi giorni, e Peeta non deve assolutamente vedermi
piangere. Comincio ad accarezzargli la fronte usando solo il pollice, piano,
rassicurata dal fatto che sia uno dei pochi punti a non avere ferite o lividi
evidenti. Poso l’altra mano accanto alla sua spalla, sulla clavicola, e lì
faccio attenzione, perché è un punto ancora ammaccato.
Dovrei
chiamare qualche medico, avvertire chi di dovere che Peeta ha finalmente ripreso
conoscenza, così da venire a controllare che sia effettivamente tutto a posto…
ma non riesco ad alzarmi. Non riesco a pensare a qualcosa di più importante che
non sia lui, sveglio, accanto a me. Anche se avvertire i medici è,
effettivamente, importante. Ma spero che possano aspettare ancora qualche
minuto.
I
suoi occhi mi scrutano attentamente mentre continuo le mie carezze. – A cosa
pensi?
La
sua risposta mi spiazza. – Penso di essere morto, e che questo deve essere per
forza il paradiso.
Anche
io, quando mi sono risvegliata al 13, ho pensato di esserlo… ma non è così.
-
Non sei morto, Peeta – sussurro. Mi chino su di lui e gli bacio delicatamente
lo spazio tra le sopracciglia.
-
Katniss… - deglutisce, strizzando gli occhi. Quando li riapre, sono dello
stesso colore del mare, e carichi di lacrime. Il petto gli si solleva
rapidamente, a scatti, e questo mi fa allarmare.
-
Ssssh… sta tranquillo, tesoro. Sta tranquillo.
Peeta
alza la mano e la posa sulla mia guancia. – Pensavo… di avervi perso entrambe.
Stavolta
deglutisco io. Poso la mia mano sulla sua, incapace di aggiungere alcunché, di
dirgli ciò che forse sa già e che non si aspetta comunque di sentire. Come
faccio a rivelargli che lei non c’è più?
È
una realtà che non sono ancora riuscita ad accettare io stessa.
-
Cosa le è successo? – bisbiglia. – Katniss? Ho visto il video… di te, e non
avevi…
Scuoto
la testa, e le lacrime riprendono a scorrere anche sulle mie guance. A cosa
serve tentare di trattenerle? A cosa serve tentare di mostrarmi forte davanti a
lui, quando non lo sono mai stata davvero? A cosa serve tentare di nascondere e
soffocare il dolore?
Uscirebbe
fuori lo stesso.
-
Non sono stata in grado di proteggerla, Peeta – bisbiglio a mia volta. – Perdonami,
Peeta, io… io non ci sono riuscita.
_________________________
Peeta è vivo – avevate dubbi per
caso? U_u – e, come vi avevo già confermato negli scorsi capitoli, non è stato
depistato. Però sentivo di dover trovare un’alternativa al depistaggio, e a
parte le percosse non è che mi siano venute in mente grandi idee. Rileggendo il
tutto mi sono resa conto che forse – forse? – ho persino esagerato ^^’ povero
Peeta… è capitato nelle mani sbagliate.
Le mie.
Ma mettiamo da parte questo
discorso.
Non so di preciso quando riuscirò
a farvi avere il prossimo aggiornamento, voi però sappiate che anche se in
ritardo vi farò avere mie notizie :) e speriamo che questo ritardo non diventi
mostruoso, nel frattempo.
Al solito: grazie per essere
arrivati fin qui ♥
D.