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Autore: mystery_koopa    07/03/2021    3 recensioni
La semplice storia di due ragazzi incontratisi per caso, legati l'uno all'altro come elementi estranei e inseparabili.
Una storia di indifferenza, riflessioni, sentimenti e insicurezze raccontata attraverso tre momenti nel tempo.
✠ Quarta classificata al contest fiume "Acquerelli" indetto da Juriaka e valutato da GaiaBessie sul forum di EFP.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon, Lime, Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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TERZA PARTE – SETTE ESTATI FA

 
Il riflesso dello specchio non mentiva. Sulle tempie, i capelli ingrigiti erano ormai molti di più di quelli neri: pensai di non essere ancora arrivato a trent’anni e mi ritrovai indeciso tra il piangere e il ridere. Un pensiero stupido come quello mi fece propendere per la seconda opzione.
Mi sciacquai velocemente il volto, lo asciugai inspirando il profumo di pulito dell’asciugamano e tornai in soggiorno a passo svelto, spegnendo la macchinetta del caffè un istante prima che il cappuccino uscisse dalla tazza. Lo bevetti lentamente, seduto sul balcone, indossando solamente l’intimo che mi aveva coperto durante la notte: non faceva caldissimo in rapporto alle medie stagionali, ma era comunque agosto.
Posai la tazza e sollevai lo sguardo verso la spiaggia, che già alle nove del mattino era completamente affollata, e verso il mare, che quasi brillava sotto la luce solare. Sorrisi, ripensando a come il temporale della sera precedente, oltre a bagnare i panni che avevo dimenticato stesi, avesse portato via l’afa che mi opprimeva da quando ero tornato; l’avevo sempre sofferta, tanto che le estati più fresche, per quanto descrivere in questi termini le stagioni vissute da una cittadina mediterranea sembrasse quasi un ossimoro, erano le uniche in cui potevo davvero definirmi a mio agio. Non a caso amavo l’Europa settentrionale.
Era così strano, pensai, che fossero state proprio le stagioni anomale a cambiarmi la vita: le due estati più fredde e il dicembre più caldo da quando ne avevo memoria. Ed erano passati sette anni.

Rientrai in casa, dando una veloce occhiata alla mensola all’ingresso su cui erano posate le foto scattate in Islanda, già stampate ma ancora senza cornice, e istintivamente mi guardai la pelle, notando l’assenza di un qualsiasi tipo di abbronzatura. Se non avessi passato un mese nei pressi del Polo me ne sarei fortemente preoccupato, ma non credevo comunque fosse il caso di presentarmi in spiaggia con un colorito ai limiti del cadaverico il 3 di agosto. Per fortuna avevo il balcone a disposizione, anche se mi sentii ridicolo al solo pensiero di passare lì l’estate: in caso avrei avuto una mezza scusa per evitarmi il falò di Ferragosto, una delle poche cose che non avevo mai sopportato, nemmeno nei miei anni, per definirli con un eufemismo, incoscienti.

Il telefono squillò all’improvviso, costringendomi a correre verso il bagno dove l’avevo lasciato; leggendo il nome di Alex sul display, tuttavia, avrei preferito che il silenzioso notturno fosse rimasto impostato. Sospirai, scorrendo il dito sulla barra verde della risposta.

“Ma buongiorno, signor Romani! Ti sei svegliato molto presto vedo”.
“Ti odio”.
“Sì, come no. A proposito, quand’è che ci vediamo? Non vedo l’ora di ricevere quel ghiacciolo che sicuramente mi avrai portato come souvenir!”
“Stai tranquillo che non ti ho preso proprio un cazzo, Alex. Comunque-”
“Nervosetto il signor Romani. Il fuso orario deve averti fatto male”.
Sbuffai rumorosamente, resistendo alla tentazione di riattaccare immediatamente la chiamata. Poi, con calma e ponderazione, ripresi il mio discorso interrotto.
“Comunque, stavo dicendo: se vuoi possiamo vederci in qualche chiosco sulla spiaggia oggi pomeriggio, tanto riprenderò a lavorare solo lunedì”.
“Va bene, va bene. Facciamo al lido davanti al Laser alle tre? Da quanto hanno cambiato gestione non ci sei mai stato, merita!”
“Fingerò di fidarmi dei tuoi gusti. Ci vediamo alle quattro e mezza, va bene?”
“Va benissimo. Mi sei mancato, in questo mese, ma ti ho chiamato poche volte, sai com’è, non volevo disturbare il tuo idilliaco soggiorno nel Paese del pesce sotto sale”.
“Mi sei mancato anche tu, scemo. A dopo”.

Sorrisi chiudendo la chiamata, poi mi lasciai cadere sul letto di schiena, allargando le braccia come nella pubblicità di una spa di basso livello. Mi era mancata, casa, per quanto col passare del tempo aveva iniziato a sembrarmi sempre più piccola. Ma immagino sia così per tutti: andare a vivere sotto un diverso tetto rispetto a quello dei genitori è un’esperienza unica, che ti fa cambiare visione sulla dimensione domestica. Poi quei quattro muri diventano abituali, si riempiono e si svuotano di arredi, mobili e persone, e sembra che, anche quando in realtà è cambiato tutto, non sia cambiato assolutamente nulla.
Sì, per fare un discorso del genere stavo davvero diventando vecchio, i capelli grigi erano solo un’avvisaglia del mio imminente ricovero in ospizio. E ancora non avevo compiuto trent’anni. Se Alex mi avesse sentito mi avrebbe sicuramente preso a schiaffi per darmi una svegliata, e non avrei nemmeno potuto dargli torto.

A malincuore mi alzai, rifacendo il letto e svuotando l’ultima valigia rimasta ancora intatta. Mi avrebbe aspettato una divertentissima mattinata da casalingo di ritorno dalla villeggiatura, ma, dopotutto, ne valeva decisamente la pena.

 
***

Il suono della sveglia del cellulare mi fece quasi sobbalzare, non c’ero più abituato: quasi quasi, impostare le campane islandesi come suoneria non sarebbe stata una scelta tanto sbagliata…
Erano le quattro meno cinque: non avrei mai tollerato di arrivare in ritardo, sebbene Alex e l’anticipo non fossero certo elementi compatibili. Mi pettinai distrattamente i capelli, indossai l’unica maglietta e l’unico paio di pantaloncini che si erano salvati dall’acquazzone della sera precedente poiché riparati da una tettoia improvvisata e uscii di casa a passo spedito, godendomi il contatto di una leggera brezza sulla pelle.
Quando arrivai al chiosco indicato dal mio migliore amico erano le quattro e mezza esatte, e con mia sorpresa vidi Alex già intento a sorseggiare un cocktail pericolosamente alcolico, vista l’ora. Eppure, invece di rimproverarlo come al solito, non potei fare a meno di stringerlo in un caloroso abbraccio.

“Mi fa piacere esserti mancato, signor Cesare Romani”.
Risi fragorosamente, fregandomene della ragazza seduta al tavolino attiguo che mi stava squadrando con disprezzo, anche se al suo posto avrei di certo fatto lo stesso.
Parlammo per oltre due ore, senza dirci niente di serio, andando avanti ad aneddoti sul viaggio, sulla ragazza con cui Alex era durato due settimane scarse, su Alice che era stata recuperata in mare aperto dopo essersi addormentata su un materassino gonfiabile, su mia madre che aveva temuto potessi morire assiderato. Purtroppo per lui avevo disatteso le sue aspettative, non portandogli nessun ghiacciolo sotto sale come souvenir, ma soltanto una banale bottiglia di Brennivin che, ahimè, sapevo avrebbe scolato nel giro di due sere.
Prima di separarci ci accordammo per vederci la sera successiva, un sabato: per una volta, rivedere i suoi amici di bevute non mi avrebbe infastidito così tanto. Sebbene in realtà non fosse cambiato nulla, mi sembrava davvero che la mia vita fosse svoltata dopo una semplice frase; e credo che anche Alex pensò la stessa cosa, sentendo la durezza del metallo riscaldato dal sole mentre mi stringeva la mano. Un velo di tristezza gli coprì lo sguardo per un istante, salvo scomparire subito dopo, e non potei fare altro che capirlo, per quanto la mia situazione fosse opposta alla sua sotto ogni aspetto immaginabile. Gli sorrisi, in modo leggermente amaro, e non ci fu bisogno di nessun’altra parola: lo strinsi a me ancora una volta, quasi a volergli trasmettere quel senso di “ce la farai” che così tante volte lui mi aveva infuso nel corso della nostra amicizia più che decennale. Una frase, e la mia vita sembrava per davvero un’altra, e io sembravo davvero una persona nuova, che aveva abbandonato ogni odio, ogni preoccupazione verso di sé, e la socialità, e il tempo.

Mi incamminai verso casa con la testa leggera, osservando distrattamente le instancabili file di ombrelloni che si susseguivano lungo il litorale. A pochi passi da casa vidi un accenno di scogliera, e ripensai a quel falò di sette estati prima, dove tutto era iniziato e sembrava finito una, due volte.

Mettendomi la mano destra in tasca mi accorsi di aver dimenticato le chiavi, così presi il cellulare in mano e guardai l’ora: erano appena passate le sette, per fortuna, non sarei rimasto fuori di casa.
Salii le scale esterne e suonai alla porta, guardando inevitabilmente l’etichetta del citofono appena ristampata:

 
Massimo Romani
Cesare Vignola

 
Nel girò di pochi secondi, mio marito aprì la porta.
 
***

“Stai preparando la cena?”
“Sai com’è, ad aspettare te si faceva notte…”
“Stai zitto, te l’ho scritto che sarei uscito a salutare Alex. Mi avresti potuto chiedere ti passare a prendere qualcosa di pronto, lo so che sei stanco. E lo sarei pure io se fossi stato costretto ad andare a lavorare il giorno dopo un volo di otto ore, senza contare il viaggio in auto. Lasciamo perdere”.
Inspirai profondamente, sentendo un’improvvisa ansia, una paura di dire qualcosa di sbagliato. Ma fu solo un istante: lasciai che l’aria uscisse, svuotandomi completamente, poi sorrisi sinceramente.
“Forse è anche meglio così, avrei rischiato di bruciare qualcosa”.

Mi avvicinai a Massimo e lo abbracciai da dietro, posandogli le mani sui fianchi e appoggiando il viso sulla sua spalla, dove gli lasciai un bacio leggero.
“Cos’è questa improvvisa manifestazione d’affetto, vuoi farti perdonare per aver dormito l’intero pomeriggio prima di uscire o non ti è bastato quello che abbiamo fatto tutti i giorni in hotel?”
“Non ho dormito tutto-”
“Aspetta che ti credo. Comunque, rispondi alla mia domanda!” Rise di gusto, rischiando di tagliarsi un dito col coltello che ancora non aveva posato.
“Mal che vada, l’anello lo puoi portare attaccato a una collana, se almeno la testa riesci a non staccartela di netto”.
Senza smettere di ridere, provò a colpirmi con una gomitata nello stomaco, ma gli bloccai il braccio col mio.
“E va bene, lo ammetto, due giorni senza ricevere alcun tipo di attenzione sono tanti, per me! Devo dire che mi hai abituato bene”.

Si girò di scatto, baciandomi con passione. Lo strinsi a me spingendolo contro il bancone della cucina, incurante del tagliere che rovesciò sul piano tutto ciò che vi era posato sopra. Mantenendo il contatto visivo gli introdussi una mano al di sotto della maglietta, sentendo i suoi muscoli appena accennati contrarsi involontariamente al mio tocco. In un secondo i suoi pochi vestiti erano a terra, ricoperti dai miei, come sette anni prima.
“Non c’è niente che sta cuocendo, vero?” Gli sussurrai all’orecchio, ricordandomi per un secondo che avevo interrotto la preparazione della cena.
“No, avevo appena iniziato… ma non eri tu quello fissato con l’igiene e che a momenti si rifiutava di baciarmi in cucina?”
Avevo iniziato a massaggiare la sua erezione, lentamente. “Se vuoi smetto subito!”
Mi staccai da lui e feci un passo indietro, fingendomi scandalizzato, e il suo sguardo stizzito mi sembrò una delle cose più soddisfacenti al mondo.

Si alzò, uscendo a passo spedito dalla stanza incurante delle finestre spalancate del soggiorno.
“E adesso dove stai andando, a fare l’offeso?”
“In camera da letto, lì almeno non hai scuse”, mi disse ironico.
“Ti amo anche quando ti comporti così, pensa come mi sono ridotto!” Gli risposi quasi gridando, prima di seguirlo.

Quando lo raggiunsi, lo trovai seduto sul bordo del letto, la stanza illuminata soltanto da un raggio filtrante dalle persiane serrate; fuori, in lontananza, si poteva sentire la musica di una festa in spiaggia. Ripresi da dove mi ero interrotto, toccandolo delicatamente, lasciando che la mia mano scorresse con un movimento naturale. Lo guardai per un’ultima volta nella penombra e poi chiusi gli occhi, godendomi l’amplificazione dei sensi che solo il buio poteva darmi: a lungo avevo pensato che non ci fosse niente di più bello al mondo che vedere la persona che amavo provare piacere grazie a me, ma a volte sentivo la necessità di concentrarmi sull’udito, sul tatto, per percepire ogni minima variazione nel rapporto. E Massimo lo sapeva più di chiunque altro: sapevo che quelle persiane le aveva chiuse solo per me.

Sollevai una mano lungo la sua figura, accarezzandogli il petto, poi il volto, sentendo il ritmo del suo respiro variare a ogni tocco, e dolcemente lo spinsi indietro, sdraiandomi a mia volta sul suo corpo come a volerlo guardare negli occhi nonostante la completa oscurità che ci avvolgeva.
Entrai dentro di lui lentamente, avvertendo la sua intimità aprirsi per accogliermi al suo interno. Abbassai la testa vicino al suo collo, baciandolo ripetutamente sulla superficie, aumentando la durata del contatto a ogni movimento unisono dei nostri corpi l’uno verso l’altro, a ogni ansito sfuggito dalle sue labbra; e mi sollevai ancora, sentendo le sue dita stringermi ritmicamente la schiena e il suo battito accelerare mentre le mie spinte si facevano sempre più veloci, lasciandoci quasi senza fiato.
Nel momento in cui il suo respiro si arrestò, producendo come risultato un solo gemito strozzato, affondai in lui un’ultima volta con le gambe tremanti, i muscoli contratti dal propagarsi del piacere, con l’odore familiare della sua pelle che riempiva la stanza. Mi lasciai cadere al suo fianco, mantenendo i nostri corpi in contatto tramite la stretta ancora salda delle nostre mani.

Dopo pochi istanti, col respiro ancora irregolare mi voltai verso di lui, aprendo finalmente gli occhi e scorgendo una lacrima scorrergli lenta lungo la guancia sinistra. Mi avvicinai per accarezzargli il viso.
“Massimo, tutto bene? Scusami, non credevo di averti fatto male, io non-”
“Tranquillo, è tutto a posto. A dire il vero, mi sono solo emozionato”.
“Emozionato?”
“Sì, in pratica stavo pensando che… ecco, è che è la prima volta che facciamo l’amore qui, a casa nostra, da quando ci siamo sposati e-”
“Uniti civilmente, al massimo”.
“Ma vaffanculo!” Mi rise in faccia, con quello sguardo leggermente piccato che tanto amavo. “Cesare, proprio non ce la fai ad essere romantico per più di venti secondi. E pensare che ero anche intenzionato a farti un discorso su quanto poco importi ciò che c’è scritto su un foglio di carta quando siamo insieme… guarda, sarà meglio che vada a lavarmi e finisca di preparare la cena, con te non c’è nulla da fare”.
Lo tirai a me, stringendolo tra le mie braccia e baciandolo nuovamente, e per una volta fui io ad asciugare una delle sue lacrime; tutto era diverso, ma le sensazioni erano le stesse di quel 16 agosto di sette anni prima, quando per la prima volta l’avevo visto e avevo percepito il suo calore. Ero cresciuto ed ero cambiato con lui, per lui, lasciando che una parte di me si depositasse nel passato, che le mie debolezze si evolvessero in punti di partenza e non di arrivo, che la mia incomunicabilità si trasformasse nella nostra complicità.
“Ti amo”. Mi baciò ancora una volta e ci alzammo insieme dal letto, sapendo che ci saremmo ritornati il prima possibile. Accesi la luce e lo guardai negli occhi: sì, la cerimonia nuziale era forse la peggiore delle ricorrenze prestabilite, ma ne era valsa decisamente la pena.


 


 
[2415 parole]
SPAZIO AUTORE:
Un saluto a tutti, vi ringrazio per aver letto questa raccolta fino alla fine! Scrivere questi ultimi due capitoli è stato quasi un parto, sia per l'ispirazione che sono riuscito a trovare solo all'ultimo momento, e in ordine sparso, sia per il tema romantico che è decisamente fuori dalla mia comfort zone come autore (per non parlare della scena erotica, per cui ho speso fin troppo tempo e che spero solo non sia tremenda, ma almeno passabile. Soprattutto, se pensate che il rating vada alzato a rosso avvisatemi e provvederò, sono rimasto indeciso fino all'ultimo). Ringrazio in particolare Juriaka, che con i suoi stupendi pacchetti mi ha dato l'idea per la raccolta, Gaia Bessie, che si è presa l'incarico di portare a termine un contest così impegnativo, e Kim, alla cui challenge "Fammeli shippare!" partecipa questo capitolo conclusivo.
Ogni capitolo della raccolta è stato ispirato da una canzone, ma in modo un po' particolare (sono strano): in pratica, ho preso il significato della canzone e l'ho ribaltato (quindi, un amore estivo che nella canzone finisce male, qui è finito bene) cercando di mantenerne però l'atmosfera generale. I brani sono:
Sabbia e ceneri: August (Taylor Swift);
La volontà di perdere: Evermore (Taylor Swift ft. Bon Iver);
Sette estati fa: 7 Summers (Morgan Wallen).

Nel caso questa storia vi fosse piaciuta così tanto da volerla continuare (se proprio ne siete sicuri... Io non lo farei!), ho in cantiere un'altra idea su Cesare&Massimo, che dovrebbe vedere la luce nel medio periodo, quando la long fantasy che ho appena iniziato sarà a buon punto. Grazie a tutti ancora una volta, alla prossima!
mystery_koopa

 
  
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