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Autore: Ciuscream    17/05/2021    4 recensioni
Nell’arcipelago di Pentidad, vi è una leggenda: quando i protetti di Oyàla e Seruh si incontreranno, uno dei due dovrà sconfiggere l’altro e mettere fine alla guerra secolare che i due Dei conducono lontano da occhi mortali. Izar è soltanto una ragazza come tante, nell’Isola degli Stracci; non sa cosa la Dea, il destino o chiunque tessa le trame della sua sorte, abbia in serbo per lei. E, soprattutto, cosa possa fare per cambiare le carte in tavola.
“Quando il fuoco ed il vento incontreranno le spade e la morte, ci sarà una sola corona, un solo regno, un solo Dio.”
Genere: Fantasy, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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CAPITOLO IV. FUGA – parte seconda
 
Questo capitolo è dedicato a Vanessa,
che per questa storia (e per me) è davvero preziosa.
 
Aveva lo sguardo fisso sullo scintillio rossastro che bagnava la lama di quel piccolo pugnale; il sangue scendeva copioso ad inzuppare la terra ancora secca, fuori dall’ombra della foresta, e non riusciva a capacitarsi che fossero quelle di sua madre le mani che tenevano la lama fra le dita. Aveva ancora entrambi i palmi premuti sulla bocca, a soffocare un grido, un conato od entrambe le cose. Le ginocchia tremarono appena, non riuscendo a reggere nemmeno l’esiguo peso del suo corpo gracile: le sentiva della stessa consistenza del pane ammollato nel latte, quello che la stessa donna che aveva di fronte le aveva preparato ogni giorno, in ogni mattina che aveva preceduto quella che stava vivendo – che la trovava spaesata, spezzata e spaurita. Non riusciva a capacitarsi di nulla: pensieri le ronzavano sulle tempie senza prendere consistenza concreta, senza trovare logicità alcuna.
Spostò lo sguardo sotto le ruote del carro, dove gli occhi vuoti e spenti del conducente le rimandavano uno sguardo vitreo e morto. Gocce di sale le si affollarono ai lati degli occhi e, solo in quel momento, slacciò l’intreccio delle dita sulle labbra, per mormorare le sole sillabe in grado di emergere dal profondo del suo sgomento.
«Ch-che hai fatto?»
Fissava sua madre con incredulità, mentre questa strusciava la lama su un lembo della veste cenciosa, a macchiarla di un rosso densissimo e terrificante. Il sole batteva su entrambe –  ignaro –, facendo scintillare il pugnale ad ogni movimento che incocciava un raggio. Izar avrebbe voluto si spegnesse, sparisse dietro una nuvola gonfia di una pioggia salvifica e purificatrice; avrebbe voluto non illuminasse con sfacciataggine quello scempio che aveva di fronte, quel viso morto colmo di sorpresa e smarrimento, quello di sua madre che sostava a metà tra una gloriosa vittoria e la più misera delle sconfitte.
«MAMMA!» Izar riempì ancora quel silenzio che le aveva donato in risposta; copiose lacrime avevano ripreso a scenderle lungo le guance, a raccogliersi sotto il mento in un’unica, più grande, cascata di paure.
«Rispondimi! Perché?»
La donna – i lunghi capelli corvini, sfilacciati di sfumature biancastre, erano stretti in una treccia ormai disfatta ed informe e sospiravano sotto la leggera brezza proveniente dalla foresta – alzò gli occhi su di lei; avevano il colore della terra bagnata, quella che profuma di pioggia e di vita. Erano rare, lì, le piogge. Per questo Izar amava tanto quella tonalità, perché gli ricordava la limpidezza dei profili delle cose dopo un lungo acquazzone, l’aria ripulita e colma di ossigeno.
«Nessuno deve sapere che sei qui.» Sua madre le rispose soltanto, dopo qualche altro interminabile istante di silenzio. Era un tono sbrigativo, pratico, come se quella misera asserzione potesse giustificare, senza possibilità di replica, l’aver spezzato una vita di fronte agli occhi di sua figlia.
Ad Izar, sembravano solo parole vuote, orribili, indegne di lei – di suo padre. Il pensiero volò a lui: cosa avrebbe pensato di entrambe? Erano finite macchiate di quelle colpe che lui aveva sempre definito indelebili, imperdonabili dagli Dei. I ricordi della sera precedente pungevano come spilli sulle tempie: lo sguardo allarmato e sorpreso di suo padre, Pedira, le fiamme che aveva sentito nascere dentro – si era sentita conquistata prima e poi abbandonata ai suoi errori, a subirne le conseguenze non volute e non cercate. Dov’era la Dea che avrebbe dovuto sostenerla? Dov’era, ora che aveva bisogno di lei? Era una sua figlia e una sua protetta ma era sola. Era testimone di un omicidio, probabilmente artefice di un altro e stava fuggendo, con una donna che di sua madre aveva solo il profilo morbido della mascella, le labbra piene che gli aveva lasciato in eredità – la sola cosa che avrebbe potuto – e le vesti lacere. Null’altro vi era in lei che le ricordasse la donna che, dolcemente e docilmente, l’aveva cullata nelle notti in cui i racconti di suo padre sugli Dei l’avevano tenuta sveglia. Stava fuggendo e non sapeva da cosa, non sapeva per dove.
Un rigurgito di tutte quelle paure le salì alle labbra, strozzato in un grido che aveva tutta la parvenza di un rantolo incastrato all’altezza del suo cuore – ormai ingombro e strapazzato.
«Lo hai ucciso! Lo hai ucciso!» Puntò l’indice contro il corpo morto dietro il carro e, come in un impeto di follia improvviso, corse verso questo. Le gambe risposero malamente alla sua volontà: erano ancora troppo indebolite di spavento e incredulità ed ogni passo risultò goffo e strascicato. Fece in tempo solo a trovarsi di fronte al corpo caduto a terra dell’uomo, ad osservare l’innaturale geometria dei suoi arti sparpagliati e la linea – definitiva – che gli solcava la gola, allagata del suo sangue più rosso, in gran parte seccato e scivolato ad inzuppargli le vesti. Gridò.
Si sentì trascinare un istante dopo, la destra di sua madre ad arpionargli l’avambraccio; la forza era tale che le unghie le si conficcarono nella carne, rigandola del loro segno delebile. La ragazza tentò di divincolarsi come poté; singhiozzi sparsi le scuotevano il petto e le pupille non riuscivano a lasciare quel corpo morto che sentiva fissarla ad ogni minimo movimento.
«Lasciami! Tu sei impazzita!»
«Smettila di urlare o ci scopriranno! Sbrigati!» Prese a trascinarla, letteralmente, di peso: Izar piantò i piedi, i talloni puntati nel terreno secco e polveroso, che alzava piccole nuvole ad ogni loro minimo movimento. Le era quasi consolatorio: non aveva voglia di vederla. Immersa così, in quella polvere rossastra che le sue orme esalavano, poteva immaginare che fosse qualcun altro, che non fosse sua madre la donna che aveva aperto da parte a parte la gola di uno sconosciuto e gli aveva rubato il piccolo sacchetto che gli aveva visto legato alla cinta. Questo era ben stretto nella mano della donna che non stringeva la poca carne della figlia e tintinnava di un rumore scintillante ad ogni suo movimento. Dentro, qualcosa di metallico rimbalzava ad ogni loro passo e si faceva più rumoroso ad ogni nuova resistenza di Izar. Notò che non vi erano più tracce della lama; se ne era liberata, probabilmente, gettandola lontano dalla vista di possibili avventori, nell’intrico dei rami e dei cespugli bassi che addobbavano il limitare del sentiero.
«Dimmi dove stiamo andando! Non voglio venire! Non voglio venire con te!» Sua madre lasciò la presa del suo braccio e – per la prima volta, in dodici brevissimi e ubbidienti anni – le colpì il viso con uno schiaffo secco e sonoro, che rimbombò nel silenzio che avvolgeva la foresta e ne immergeva l’ombra con il suo sapore denso.
Izar rimase immobile per qualche istante: un gusto caldo e ferroso le si spanse sulla lingua, il labbro spaccato da quella violenza tanto inconsueta. Gli occhi di sua madre si allargarono appena, di sorpresa, come se si fosse trovata anche lei colta in fallo da quel gesto. Le prese il viso tra le mani, le pupille fisse sulla carne rotta e sanguinante. Izar non trovò la forza di muoversi; rimase lì – impaurita, come non era mai stata, della donna che aveva di fronte.
«Ascoltami, Izar» Sussurrò, avvicinandosi al suo viso, sillabe dal tono colpevole, con i pollici ruvidi di fatica che le solleticavano gli zigomi sporgenti della fame. «Non ti chiedo di capire, non ti chiedo di essere d’accordo. Ti chiedo di fidarti di me. Devo portarti via, c’è molto altro per te, lontano da qua» Izar schiuse le labbra per replicare ma sua madre la azzittì con uno sguardo eloquente.
«Capirai tutto, te lo prometto. Adesso vieni con me»
Incastrò le pupille nelle sue, a sondarne probabilmente gli intenti di resa. Quelle della figlia si allargarono appena, mentre annuiva: non si sa se di paura o a causa della luce che andava via via perdendosi, sotto l’intreccio stretto dei rami che oscuravano sempre più il cielo.
«Va bene, scusami» Mormorò soltanto, mentre il sapore di sangue tra le sue labbra scemava e lasciava il posto a quello solito di polvere e umidità.
«E smettila di scusarti, quando non ce n’è motivo»
 
*
 
Camminavano da minuti lunghi e sdrucciolevoli, così come lo era il terreno, intricato di radici ricoperte di muschio e fanghiglia. I sandali leggeri, adatti alla secchezza del villaggio, erano ormai intrisi di umidità e i piedi cuocevano dove la stoffa, diventata morbida, sfregava la pelle. Izar respirava quell’aria pesante a pieni polmoni, assaggiando e curiosando quella mescolanza di odori per lei del tutto inediti – che credeva impossibili, lì a Nerva. Non aveva mai visto una foresta così fitta e rigogliosa: non conosceva il verde così intenso delle foglie, i colori così accesi da sembrarle iridescenti. Si chiedeva se avesse vissuto, fino a quel momento, un’esistenza appannata, se – fuori da quella foresta – l’Isola fosse avvolta da un manto polveroso e inscalfibile, non dalla pioggia, non dalle mani. Si rese conto, con un moto di vergogna e uno più piccolo di sconcerto, che non sapeva nulla. Non di Pentidad, non della sua piccola Isola. Era abituata ad essere la più acculturata, nel villaggio; suo padre le aveva insegnato fin da piccola a leggere e scrivere, le aveva raccontato degli Dei, delle scienze erboristiche e curative. L’aveva allevata non come una donna, non come le sue amiche o gli altri compagni, non come Gabre. Per questo lui l’aveva sempre guardata come se, dentro di sé, una fiamma viva vi fosse sempre stata, anche prima dell’incidente della sera precedente. Gli avevo letto, riflessa negli occhi, la luce che lei stessa irradiava, e spesso se ne era compiaciuta. Ma adesso lui non c’era e non c’era nemmeno luce: quella che sentiva dentro di sé faceva paura e non osava andarla a cercare, andare a controllare se ancora fosse in grado di provare così tanto. Era stanca, affamata, debole e avrebbe voluto soltanto fermarsi, riposare.
«Manca molto?»
Aveva rinunciato a chiedere la destinazione finale ma adesso che le gambe si erano fatte molli, i piedi dolenti e lo stomaco gorgogliava il suo fastidio e la sua vuotezza, non riusciva più a resistere – a denti e labbra strette. Lei e sua madre non si erano più scambiate nessuna parola, dopo quelle che avevano seguito quello schiaffo; il labbro le doleva ancora, ogni tanto ne accarezzava l’apertura con la punta della lingua, facendo pizzicare quel male morbido, quasi avvolgente, quotidiano. Gli sembrava la tenesse ancorata a quella realtà conosciuta, le cui certezze si andavano via via sfaldando.
«No… da quell’albero, soltanto qualche migliaio di piedi.»
La donna si muoveva tra le fronde dei rami, tra le radici che emergevano a sorpresa dal terreno, con una familiarità e una destrezza che Izar non le avrebbe mai attribuito. Non sapeva come conosceva quella foresta, né il luogo dove stavano andando; non riusciva ad immaginare dove avesse imparato a cogliere gli intagli nelle cortecce che a lei sembravano identiche ed interpretarli come direzioni. Non si ricordava un giorno qualsiasi in cui fosse stata da sola, al villaggio, senza di lei. Non ricordava un solo momento in cui avesse abbandonato i suoi confini, in cui avesse potuto scoprire quei luoghi. Forse era stato prima della sua nascita, quando non era una madre e le era concesso il lusso di imparare, di fantasticare.
Ogni tanto si fermava a saggiare coi polpastrelli qualche pianta, a raccoglierne gocce di brina con le mani ed annusarne l’odore dalle pieghe delle impronte digitali. Soppesava i bivi, come a ricercare nella memoria le indicazioni corrette e poi la sospingeva con piccoli colpi tra le scapole, ad invitarla a procedere. Non era mai stata una donna di molte parole, aveva preferito sempre le carezze fra i capelli quando li intrappolava in quella cascata di treccine che adesso le invadevano le spalle, ma il silenzio di quella mattina – i suoi trascorsi, le sue prospettive – pesavano sulla gola di Izar come un cappio. Un circolo di vizioso di silenzio che ne porta altro, che impedisce di parlare, che secca domande e risposte.
 
Un rumore di rami rotti, di una corsa scomposta, inciampante fra le radici e i rovi strappati, fece voltare di scatto entrambe, verso la loro destra. La foresta era così fitta e scura che era difficile scorgere ciò che vi era anche a distanza di pochi metri. Sua madre allungò un braccio a coprirle il corpo e le snocciolò qualche parola, così sottile da sembrare un sibilo.
«Non muoverti, stai dietro di me.»
Per un istante, Izar la maledisse per aver gettato la lama lontano. Si stupì e inorridì allo stesso tempo di quel pensiero, ma la paura la attanagliava così stretta alle caviglie che si sentì esposta ed impotente, in quei pochi cenci che la vestivano. Si rannicchiò dietro il corpo di sua madre – pochi centimetri più alta e larga di lei, sui fianchi di chi ha generato un figlio – ma ugualmente esile. Eppure, si sentiva protetta come dietro un grande masso o una solidissima parete. Trasudava, in qualche modo, potenza e autorità, la capacità poliedrica di dare e togliere protezione.
Attesero, nascoste dietro un tronco più grande, che qualsiasi cosa si stesse avvicinando comparisse; erano suoni scomposti e aumentati dall’eco che si spandeva in quel silenzio densissimo. Izar era un fascio di nervi, ogni suo muscolo ed ogni sua sinapsi viveva di una tensione granitica, che la rendeva ritta ed immobile. Potevano averle scoperte – potevano aver scoperto il corpo del conducente, poteva essere suo padre che aveva mandato qualcuno a cercarle, poteva essere lui.
Tremò e aggrappò il palmo contro la veste di sua madre, strattonandola di un’ansia che l’aveva resa di nuovo una bambina, in un gesto identico a quando afferrava la sua gonna per chiederle aiuto o conforto. Adesso era poco più grande: la stessa identica bambina, solo dalle gambe più lunghe e il seno meno acerbo, iniziata agli Dei ma, comunque, ignara di cosa volesse dire conoscere il mondo.
Le fronde più vicine iniziarono a vibrare convulsamente; sotto la sua stretta, Izar sentiva sua madre rigida allo stesso modo, pronta a scattare – fuggire o attaccare, la stessa dicotomica scelta di sempre, di fronte al terrore. Passarono interminabili frazioni di secondo, attimi in cui si sentiva il cuore battere contro i timpani, voler scapparle dalla gabbia toracica, evadere: il sangue le fiottava impazzito, nelle vene. Non riusciva ad elaborare nemmeno le conseguenze che avrebbero potuto attenderle: la scoperta, la morte, il dolore. Non riusciva a capacitarsi di come, solo qualche ora prima, era intirizzita di fronte alla paura di una scelta, di un rituale qualsiasi. E adesso bramava di tornare indietro, di cancellare tutto, di non sentire quel suono di rami. Voleva il rumore della festa, i tamburelli, i rimproveri di suo padre. Voleva la normalità.
Uno scossone mosse le frasche poco lontane da loro e, con un ultimo rumore confuso e allarmato, da queste emerse quello che mai si sarebbero aspettate: una ragazzina, dagli abiti laceri, impigliati di foglie e spine, strappò le ultime fronde e, districandosi alla bell’e meglio tra le radici informi, continuò a correre in loro direzione. Aveva gli occhi più grandi che Izar avesse mai visto: erano spalancati di terrore e contornati da occhiaie violacee; le iridi spiccavano per un azzurro quasi innaturale, quello dei fiori che Izar, per la prima volta, aveva scorto in quella boscaglia. Correva ed inciampava, lanciando più volte occhiate all’indietro, come se temesse che qualcosa la stesse inseguendo, come se fosse una preda – non solo di spaventi, ma di mostri veri e propri. Aveva i capelli di un biondo cenere spento, sporchi e adesi al viso lacerato in più punti da graffi superficiali dovuti, probabilmente, alle fronde più basse. I connotati erano del tutto estranei a quelli degli altri abitanti dell’Isola: aveva tratti affilati e spigolosi, di un pallore quasi spettrale – quello di chi non è abituato a vedere il sole – e indossava una lunga tunica chiara, molto simile a quelle utilizzate per le Iniziazioni.
Izar e sua madre, che avevano trattenuto il respiro all’unisono, nel vederla si sciolsero in un sospiro di sorpresa e sollievo. La ragazzina alzò lo sguardo su di loro: gli occhi di lei e quelli di Izar si scontrarono a metà strada e mescolarono terrori dalle tinte identiche ed opposte. Sentì la pancia contorcersi, come se la fiamma che adesso le covava all’interno si fosse risvegliata, identica a quella che la sera precedente l’aveva invasa, un attimo prima che la lampada cadesse ai piedi di Santiago. Fece un piccolo passo indietro, strattonando sua madre, quasi volesse invitarla a fare lo stesso, a fuggire da quella sensazione che si stava dipanando lungo i suoi nervi elettrizzati. La ragazzina le restituì uno sguardo identico: spalancò ancora di più quegli occhi già grandi come il plenilunio e, accennando qualche passo a ritroso – le mani in avanti in posizione di difesa – prese a scappare in direzione opposta a quella dove loro si trovavano, sfrangiando i rami con movimenti bruschi e scomposti delle braccia. Vedendola allontanare, Izar notò le ciocche dei suoi capelli, tagliate in modo scomposto, irregolari e asimmetriche, come se li avesse tagliati da sola, in tutta fretta, con un coltello qualsiasi.
Mille pensieri si mescolarono su quella figura esile già scomparsa alla loro vista, mentre il cuore non accennava ad acquietarsi e il blu di quelle iridi infinite le invadeva lo spazio fra le tempie, come un mare in cui si sentiva di annaspare ma in cui avrebbe voluto nuotare ancora. Scosse la testa, impaurita da come quel breve incagliarsi d’iridi le avesse squassato così tanto dentro, e si accorse di stare ancora tirando sua madre per la veste, con una forza tale da arrivare quasi a lacerarla, a sfaldare la stoffa. Lei abbassò il braccio che le aveva posizionato davanti, a mo’ di scudo, e si voltò ad osservarla. Izar lesse nei suoi occhi una sorpresa identica ma taciuta, in favore dell’obiettivo più grande. Le strinse di nuovo il polso contro l’avambraccio, senza accennare nulla sulla sconosciuta che aveva brevemente incocciato il loro cammino, e la trascinò verso una fila di cespugli dalle bacche di un’arancione innaturale, quasi cangiante.
«Andiamo, cerchiamo di arrivare prima che cali il sole. Riesci a camminare ancora?»
Avrebbe voluto rispondere di no, che era esausta, che i piedi le bollivano di vesciche e dolore; invece, annuì debolmente e si lasciò trascinare – la mente totalmente dirottata altrove.
 
*
 
Quando gli alberi iniziarono a diradarsi e a rivelare più copiosi raggi di sole, le pupille di Izar erano così abituate alla penombra che si fessurizzarono appena. Era esausta. Le palpebre accolsero quella novità con entusiasmo, elettrizzate all’idea di chiudersi, di riposare, di non doversi alzare per un’altra giornata infernale come quella che era appena trascorsa – e non ancora terminata. Davanti a loro, fra i radi tronchi, si intravedeva una piccola radura che dava sul mare, un molo malconcio e un grande edificio dall’aria fatiscente, di fattura più complessa di quelli del villaggio. L’aria era insolitamente quieta, profumata di sale, avvolta in un silenzio che pareva artificiale. Non vi era l’ombra di nessun essere umano: oltre la strana ragazzina incrociata nel bosco, tutt’intorno sembrava dimenticato e disabitato. Alle loro spalle, il silenzio del bosco era interrotto solo dal verso gracchiante di qualche pappagallo, da sfarfugli d’ali e corse di topi. Nient’altro. Solo i loro respiri sommessi e i battiti dei loro cuori risuonavano nello spazio aperto, come persi nel vento, dimenticati a loro volta, inutili.
Il sole stava ormai per tuffarsi dietro la pozza calma del mare; un venticello leggero carezzava le vesti lacere e malconce, strappate dai rovi e sporcate di terra e qualche goccia di sangue. Solo il lembo inferiore dei cenci di sua madre era ancora intriso di un sangue ormai rappreso, che aveva disegnato un alone sinistro. La ragazzina la fissò per un istante e un’ansia senza nome né corpo la invase di nuovo, insieme ad una colpa più totalizzante: l’aveva rimosso. Era così esausta da aver dimenticato che, molte ore prima, sua madre aveva trapassato la gola di un uomo per salvarle la vita, per portarla lontano. Un nuovo conato le prese la bocca dello stomaco e traballò appena sulle gambe. Sua madre se ne accorse e l’aggrappò per un braccio, sostenendola alla bell’e meglio.
«Resisti, dobbiamo arrivare solo fino a lì. Pochi passi soltanto.» Con un brevissimo cenno del mento, le indicò l’edificio che occupava una parte defilata della radura, la cui ombra nel tramonto si stagliava lunga, allargando il suo perimetro a quasi tutto lo spiazzo. L’aria era tinta di sfumature rossastre ed accoglienti ma Izar non riusciva a fare a meno di essere spazzata da venti di emozioni confuse ed assorbenti, incapaci di tenerla in piedi ancora per molto. Aveva le labbra secche per la sete e lo stomaco ormai assopito, non più in grado nemmeno di chiedere ciò che da ore ormai gli era negato.
Si trascinò sulle gambe molli e le ginocchia deboli, il viso ormai affilato di stanchezza. L’edificio era di una muratura grezza, consunta dal tempo e dalle intemperie. Il portone esterno, di un legno spesso e robusto, era scheggiato in più punti da vari tipi di ferita. Molte, sembravano punte di coltelli conficcate, di frecce o di qualche altra arma dall’estremità affilata. Le sinapsi erano troppo anestetizzate per fare qualsiasi congettura aggiuntiva. Si voltò soltanto verso sua madre, gli occhi allargati di nuovo di paura.
«Cos’è questo posto?»
Sua madre, prima di rispondere, battè due forti colpi di pugno sul legno e qualcosa, di là, scattò quasi all’istante.
«Stanotte dormiremo qua, in attesa di partire»
«Partire per dove?»
«Domattina te lo dirò, promesso»
La porta si aprì prima che ad Izar fosse concesso di replicare; un uomo robusto, dalla barba corta e disomogenea, le fissò dall’alto. Era vestito di un’armatura leggera, un arco appoggiato mollemente alle gambe e uno sguardo che spaziava dal truce all’annoiato, in una mescolanza a tratti piuttosto stridente. Fissò gli occhi sulla madre di Izar e allungò la mano, senza ulteriori convenevoli.
«Una per la notte, due per il viaggio.»
Sua madre estrasse dalle larghe tasche della veste, il sacchettino che aveva rubato alla cinta dell’uomo che aveva ucciso. Questo tintinnò debolmente mentre scioglieva l’intreccio del nodo; vi infilò dentro indice e pollice, per snocciolare sulla mano della guardia una serie di oggetti in metallo, tondeggianti e lucenti. Suo padre le aveva detto che si chiamavano pesilas e servivano come merce di scambio, nelle altre Isole del regno. Lì, a Nerva, ogni scambio avveniva di merce con merce, baratti di prodotti alimentari, vestiti, utensili. Non vi erano pesilas – non capiva il senso di scambiare farina o accoglienza o qualsiasi altra cosa con un pezzo di metallo, buono forse a funzionare da zeppa per i tavoli traballanti. Osservava, quindi, rapita quel suo accumulare metallo su metallo, stupita che sua madre ne conoscesse l’utilità e l’utilizzo e che a quell’uomo bastasse soltanto quello per ospitarle.
Si appoggiò debolmente allo stipite, troppo stanca per rimanere ancora in piedi e formulare anche quei pensieri confusi e curiosi – una curiosità non assopita nemmeno dal gorgoglio sinistro del suo stomaco e dai piedi cotti e costellati di vesciche. L’uomo le scoccò un’occhiata infastidita, che poi si trasferì alla madre.
«C’è del pane secco dentro, cercate di rimanere vive. Non ho voglia di gettare corpi in mare, mi fa male la schiena»
Izar spalancò gli occhi di paura mentre sua madre li assottigliò di un fastidio sinistro e poco promettente.
«Sia mai che vi diamo questo incomodo, Signore.» L’ultima parola risuonò fin troppo ironica ma anche l’uomo sembrava non aver voglia di discutere ulteriormente, quindi si scansò pigramente di lato per farle passare, tirando un calcio a qualcosa per permettere alla porta di aprirsi a sufficienza. Un mugolio di dolore si alzò dalla cosa che aveva colpito e Izar si accorse che, sparpagliati sul pavimento, seduti o sdraiati, decine di uomini, donne e bambini – dall’aspetto cencioso quanto il loro – stavano rannicchiati, svegli o dormienti, in una penombra silenziosa e annichilita.
«Mettetevi dove trovate posto. Solo due regole: state zitte e non rompete le palle. La partenza è per l’alba, un’ora prima c’è la preparazione»
Sua madre annuì, Izar non stava ascoltando. Aveva lo sguardo perso fra quelle decine di corpi ammucchiati uno sopra l’altro, che esalavano un odore di sporco, sudore ed umidità, che le affollava le narici in modo nauseabondo. Non era riuscita a mettere in fila più di due passi: ogni movimento la portava ad impattare contro la schiena di qualcuno e contro i suoi improperi e le sue maledizioni strette e strizzate tra i denti. Lo sguardò le scivolò su una madre che allattava al seno il figlio, le ginocchia così strette al petto dal poco spazio che quasi non vi era posto per il neonato. Aveva lo sguardo affranto dalla vergogna di mostrare a tutte quelle paia d’occhi quella scena così intima e un terrore cieco negli occhi – forse quello che il fagottino potesse iniziare a strillare e piangere.
«Donna!»
La guardia chiamò sua madre, mimandole bruscamente di avvicinarsi, mentre lo sguardo osservava le pesilas che gli aveva depositato in mano.
«Qua vedo solo quattro monete» Le mise sotto il naso il palmo della mano e lei lo scansò in modo aspro, infastidita da quel gesto tanto invadente.
«Uno per la notte, due per il viaggio, no?»
«Sì, ma due a testa. Due per te e due per la ragazzina. Stai cercando di fare la furba o non sai nemmeno contare?» Non sarebbe stata la prima volta; molti, sull’Isola degli Stracci, non sapevano far di conto e non avevano idea di come si usassero le monete. Aveva guadagnato molto di più, quella guardia, imbrogliando sulla reale quantità di monete dovute, costringendo quei poveracci a lasciargliene più del necessario.
Sua madre annuì infastidita e abbassò la voce, così che – anche in quel particolare silenzio costretto – Izar non potesse sentirla.
«Io resto solo per la notte, domani partirà soltanto mia figlia»
 
(continua…)
 
 
 
   
 
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