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Autore: Tabychan    11/06/2022    0 recensioni
Ogni persona contiene dentro di sé una certa percentuale dei quattro elementi: terra, aria, fuoco e acqua. La maggior parte non se ne rende conto e non sa sfruttarli.
Ma cosa succederebbe se esistessero combinazioni di elementi più potenti di altre? Le vite delle persone che li ospitano finirebbero influenzate? O sconvolte?
L'istituto Kosmos di Ambervale si occupa di scoprire proprio questo.
E lo scopriranno, a loro spese, anche tre giovani allievi...
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La notte prima della partenza Dorcas dormì sonni agitati. Si rigirò più volte nel letto, svegliandosi spesso, e alla fine decise di alzarsi quando il sole era sorto da poco. Sapeva che un po’ era emozione, ma un altro po’ - un bel po’ - era paura. Avrebbe incontrato la persona con cui avrebbe condiviso il destino per il resto della sua vita. La sua testa era tutto un susseguirsi di ipotesi, finte certezze, contraddizioni, convinzioni, cambi di idea: avrebbe dovuto andarsene? No, lei era Dorcas Senecourt, sarebbe diventata la migliore maga di tutta Kosmos e forse del mondo intero. Ma condannare la sua vita sentimentale sarebbe servito a raggiungere quello scopo? “Condannare” era però una parola esagerata: non sapeva niente di questo ragazzo che avrebbe conosciuto, non c’era motivo di dare per scontato che non le sarebbe piaciuto. 

Fu insieme a questi e altri pensieri che scese a fare colazione: sebbene fosse molto presto e ai tavoli non ci fosse quasi nessuno, il profumo fragrante di dolci appena sfornati e bevande calde in preparazione già riempiva l’aria di tutta la mensa.

Dorcas prese latte, cereali e un succo d’arancia e si sedette, sola, ad un tavolo in un angolo. Mescolando i suoi chicchi di riso soffiato al cioccolato cominciò a guardarsi attorno, e a controllare chi faceva colazione così presto: nessuno studente, qualche soldato sparuto probabilmente in missione mattiniera… e, seduta da sola in un altro angolo della grande sala, Erica. Dorcas cercò di fissarla senza darlo a vedere ma, in realtà, da quella distanza non riusciva a osservare granché: indossava una tuta da allenamento e sembrava intenta a riprendere il fiato. Dorcas intuì che doveva essere appena tornata da una sessione di esercizi.

Nonostante le facesse indubbiamente paura, in quel momento non poté fare a meno di pensare che Erica fosse davvero fuori dal comune. Aveva una forza eccezionale e probabilmente anche un gran carisma, che purtroppo giaceva alla mercé di un enorme problema mentale. E a Rao e Sheraltan evidentemente andava bene così. L’ira la rendeva più forte, più violenta, più efficace… ma sempre meno umana.

 

Com’era tipico di lei, Dorcas era così immersa nei suoi pensieri che non si rese conto della donna che le si era seduta davanti qualche minuto prima e la fissava sorridente.

«Temo che ormai quei cereali siano diventati pastone per uccellini» sussurrò Joleicia. Dorcas sobbalzò e arrossì come un peperone, cosa che fece ridere ancora di più la dottoressa.

«Mi scusi dottoressa, non l’avevo vista. Stavo… ehm…»

«Ammirando uno splendido e pericolosissimo fiore tenuto dentro una teca di vetro, vero?»

L’espressione che aveva in mente Dorcas non era proprio così poetica, ma decise di annuire. Non era la prima volta che la dottoressa si lasciava andare a commenti… particolari.

«Ero solo incuriosita da lei, pensavo che avrei molto da imparare. Non è una persona con cui si può chiacchierare tranquillamente, ma credo sia un fantastico soldato.»

«È molto più di un soldato, Dorcas. E di sicuro questi non sono i pensieri normali che una studentessa come te si fa a quest’ora del mattino. Ho l’impressione però che la tua sveglia sarebbe dovuta suonare ben più tardi, o sbaglio?»

Dorcas fece un mezzo sorriso e annuì.

«Sono un po’ agitata per oggi, tutto qua. Sarà un giorno speciale per me e…»

Dorcas esitò, non sapendo se continuare a esprimere i suoi pensieri. Jol le venne in aiuto con uno dei suoi dolci, materni sorrisi.

«E non sai se sarai in grado di gestirlo. O sopportarlo.»

La giovane maga fissò il latte nella sua tazza e annuì.

«So che la giovane Rao si è molto affezionata a te, hai provato a parlarle dei tuoi dubbi?»

«No… Onestamente, non credo che il generale apprezzerebbe. Se il comandante ha deciso di combinare questo matrimonio, allora così sarà.»

Joleicia ridacchiò sotto i baffi, il che stampò un’espressione dubbiosa sul volto della ragazza.

«Hai mai incontrato il comandante Moses, Dorcas?»

«No, non di recente, almeno. Non lo vedo mai girare per l’istituto.»

«No, esatto, e ora ti spiego perché.»

Jol le fece cenno di avvicinarsi e cominciò a parlare sottovoce.

«So che non dovrei esprimermi così, ma il comandante è uno scapolone fissato con la magia, e la magia soltanto. È sicuramente un uomo dal cervello straordinario, ma decisamente poco affine alle questioni di cuore. Capisci perché ti sto dicendo questo?»

«Io… non ne sono sicura, dottoressa.»

Dorcas era perplessa a dir poco. 

«Perché a lui non interessa niente del tuo matrimonio, Dorcas. Il suo obiettivo è studiare i maghi del sacro. Non sto dicendo che sia semplice, ma se riuscirai a fornirgli un modo alternativo per poter proseguire con le sue ricerche, è molto probabile che non ti obbligherà a sposare nessuno.»

«E come potrei fare? Non sono sciocca: ho già capito che il suo obiettivo è quello di farci fare un figlio. Il matrimonio serve solo per le apparenze.»

«Il suo obiettivo è quello di studiare il figlio di due maghi del sacro. Come ti dicevo, trovare un’alternativa non sarà facile, ma se non sei convinta di ciò che ti ha obbligato a fare, parlagliene. Perché ora come ora sei il suo tesoro più prezioso, l’unica maga del sacro di Kosmos: non rischierà di perderti per fretta o impazienza. Prova almeno a prendere tempo o a trovare un compromesso.»

Dorcas sentì il suo cuore dividersi in due. Da un lato, la sua morale da soldato continuava a ripeterle di svolgere il suo dovere senza fare domande né porsi dubbi. Dall’altro, questa piccola speranza che la dottoressa Joleicia le stava donando cominciava a farsi sempre più spazio. Ma sapeva benissimo che avrebbe significato trattare con il comandante Sheraltan, l’uomo più misterioso e potente di tutto l’istituto. Joleicia la faceva facile…

«Lei è molto gentile, dottoressa. Mi piacerebbe dirle che le sue parole sono superflue, che so già qual è la mia strada, ma… Non è così.»

Alzò lo sguardo e fisso Joleicia negli occhi.

«Ora però so di avere una scelta. Grazie.»

Le sorrise, e Jol ricambiò con un occhiolino.

«A volte qui dentro non lasciano ai bambini il tempo di essere bambini. Spero un giorno di poter cambiare questa politica. Nel frattempo, mi limiterò ad aiutarvi in tutti i modi che posso.»

«Non c’è il rischio che il comandante si arrabbi con lei, dottoressa?»

«Far arrabbiare gli uomini è ciò che una donna della mia età sa fare meglio, piccola mia.  Non hanno ancora capito che più loro sono burberi, meno noi stiamo zitte.»

La dottoressa si alzò e le fece un cenno di saluto, per poi avviarsi verso la sua infermeria; Dorcas ricambiò e, terminata la sua colazione, con un respiro profondo e ritrovata determinazione si diresse verso l’ingresso dell’istituto ad aspettare i suoi accompagnatori.

 

Trovò Tia e Theo in giardino, già pronti e preparati. Theo teneva in mano una pietra viola e la stava studiando con avidissimo interesse. Dorcas corse loro incontro e li salutò.

«Non avete fatto colazione?» chiese lei «Non vi ho visti in mensa.»

«Volevamo,» rispose Tiamal «ma per strada abbiamo incrociato il capitano Steaves che ci ha dato la pietra di teletrasporto per Saoria. Theo l’ha afferrata come fosse una pepita d’oro e ha insistito per aspettarti e partire il prima possibile. Dice che faremo colazione con le specialità di Saoria. Ma secondo me non c’è alcuna specialità a Saoria. Spero almeno di trovare un baracchino di crêpes o qualcosa del genere.»

«Stai zitta, Tia. Questa è una cosa che semplicemente non puoi capire.»

Tia alzò gli occhi al cielo, poi guardò Dorcas con espressione da “te l’avevo detto” e scrollò le spalle.

«Rao non è venuta a salutarti? Avrei giurato fosse qui ad aspettarci con una delle sue creature.» 

«Non l’ho nemmeno vista stamattina, credo sia impegnata con i preparativi della festa. Questa cosa l’ha presa davvero molto.»

«Immagino che per lei sia un diversivo molto divertente. Theo, possiamo andare o organizziamo un matrimonio anche per te e il sasso?»

Theodore la guardò scocciato ma, suo malgrado, dovette ammettere che non aveva motivo di continuare a esaminare la pietra: non riusciva a capire in che modo fosse collegata al suo elemento. La sollevò allora davanti al viso delle ragazze.

«Pronte? Quando la romperò si aprirà un portale, dovremmo saltarci tutti dentro.»

Entrambe annuirono, Dorcas con un po’ più di indecisione. Tia le prese la mano e gliela strinse, sorridendole dolcemente.

«Quando vuoi.» disse poi al fratello.

Theo strinse la gemma nel pugno e tentò di romperla, ma la pietra era più dura di quanto si aspettasse. Dopo aver fallito un paio di tentativi di fronte agli occhi confusi delle due spettatrici, imbarazzato, si sentì in dovere di giustificarsi:

«Visto da Erica sembrava più facile, ok?»

Decise allora di gettare con violenza la pietra a terra. L’idea fu buona: questa si ruppe in mille pezzi e un grosso portale viola circondato da rune si spalancò nel punto dell’impatto. Dopo qualche istante di insicurezza, i ragazzi presero coraggio e vi corsero dentro.

 

Theo uscì per primo; e fu costretto a bloccarsi subito dopo aver messo piede nella città, perché le strade erano invase da una quantità incredibile di persone.

Tiamal e Dorcas gli sbatterono contro ma, prima ancora di potersi lamentare, si ritrovarono a osservare a bocca spalancata lo spettacolo che si poneva loro davanti.

 

La strada su cui erano arrivati era molto ampia, ma gremita di gente. Banchetti di cibo, souvenir, spezie e cianfrusaglie arricchivano i marciapiedi e molti di essi si facevano pubblicità con le foto o i nomi di questo o quel lottatore. 

«Ma quello non è un ricercato? C’era la sua taglia al governo.»

Disse Theo, indicando un grosso banchetto di spiedini alla piastra su cui troneggiava la foto di un giovane ragazzo dagli occhi languidi e la scritta “I preferiti dal Capitano della Dead End”.

«Siamo in una città pirata, Theo! Qui tutti saranno ricercati!»

Urlò Tia con un entusiasmo traboccante. Corse verso il lato della lunga strada, facendosi strada tra le persone, fino a raggiungerne il limite: davanti a loro si stagliava il mare, in tutta la sua immensità.

Tia si lanciò oltre il muro di sicurezza e inspirò a pieni polmoni l’aria ricca di salsedine.

«C’è una puzza incredibile!» rise di gran gusto «Guardate, si vede tutta la città!»

Theo si affacciò anche lui dal muretto, seguito poco dopo da Dorcas che, a fatica, era riuscita anche lei a non farsi travolgere dalle persone in movimento. Guardò in basso.

 

La città bassa era formata da tante, tantissime case: molte erano fatiscenti, altre sembravano più botteghe e negozi. Seguendo con lo sguardo la strada che si dipanava sotto ai loro occhi notò che arrivava fino al porto, dove decine e decine di navi di ogni forma e dimensione erano ormeggiate lungo i moli. Alcune erano grandi e imponenti, con alberi maestri che sembravano arrivare fino alla parte superiore della città, mentre altre erano poco più che pescherecci. Piccoli puntini in frenetica corsa correvano lungo le banchine, chi senza niente e chi trascinando casse o sacchi. Dorcas vide proprio in quel momento un’imbarcazione partire e unirsi alle altre che già stavano affollando il tratto di mare adiacente al porto, trafficato da navi quanto le strade lo erano da persone.

E, proprio mentre i tre ragazzi ammiravano incantati la città, un forte boato li fece girare di scatto: in cima alla strada, al termine di una piccola salita, si stagliava un enorme stadio.

Il rumore era stato scatenato dall’urlo all’unisono di migliaia di spettatori:

«La giovane Barmer è KO, signore e signori!»

Un presentatore urlava con tono entusiasta in un microfono dal volume esagerato.

«Dopo un combattimento in-cre-di-bi-le tra due leggende, abbiamo finalmente il vincitore del torneo di quest’anno! La Coppa del Mare va a-»

«EHI!»

Tiamal e Dorcas non sentirono il nome del vincitore perché dovettero voltarsi di scatto:

«Mi hanno rubato le spade!» urlava Theo disperato, continuando a controllare le fondine fissate sulla sua cintura: erano vuote. Non poteva crederci.

«Come ti hanno rubato le spade?» chiese Dorcas, stupita «Non le avevi addosso?»

«Certo che le avevo addosso, non giro certo con due lame in mano! Tia, cerca il ladro dall’alto!»

Tiamal annuì e si alzò in volo fin sopra la folla, cercando freneticamente con lo sguardo qualcuno che potesse assomigliare a un ladro.

«C’è troppa gente, non vedo niente… Ah, aspetta! L’ho trovata, è una ragazza! Ha girato l’angolo e le sta ammirando, quella furbetta!»

«Quella stronza, vorrai dire! In che direzione è?»

Tia indicò con la mano la strada in discesa e volò verso la ladra. Theo, inferocito, spintonò le persone con scarsa educazione e imprecando corse anche lui dietro alla sorella.

«Ehi ragazzi, aspettatemi! Dove avete detto che è?»

Dorcas, più bassa e soprattutto meno a suo agio di Theo nel strattonare persone sconosciute, perse ben presto di vista i suoi due amici. Era sicura di averli visti correre in una certa direzione, ma le persone sembravano sciamare verso quella opposta. Teste, spalle e busti cominciarono a coprirle la visuale e ben presto si rese conto di essere stata lasciata indietro, in mezzo alla folla di persone che celebravano la fine del torneo. Annaspando nel mare di gente, decise di lasciarsi trascinare sperando di raggiungere una zona meno confusionaria.

 

Mentre camminava - contro la sua volontà - sulla strada principale di Saoria, Dorcas si rese conto che questa percorreva tutta la città: lo stadio era stato costruito sul promontorio, la destinazione finale, mentre dal lato opposto proseguiva e scendeva fino al porto, affusolandosi come una serpentina.

Dopo qualche centinaia di metri finalmente lo sciame di persone cominciò a disperdersi: aveva raggiunto la base dello stadio. Un ampio porticato circondato da un ancor più ampio parco permetteva alla massa di gente di diluirsi: Dorcas ne approfittò per sfuggire al caos e raggiungere uno spiazzo tranquillo nel giardino adiacente.

Il parco dello stadio doveva aver visto giorni migliori, pieno com’era di spazzatura e sporcizia, ma era davvero molto grande. Non aveva particolari decorazioni, niente statue o fontane, ma diverse aiuole fiorite lo abbellivano con colori sgargianti e grandi spiazzi erbosi e soleggiati si alternavano a piante fitte e alte, che formavano come dei piccoli boschetti e creavano invece fresche zone d’ombra. Dorcas si guardò intorno: aveva assolutamente bisogno di riprendere fiato. Individuò una panchina libera al limitare di uno di questi boschetti e ci si gettò sopra.

 

La ragazza si lasciò cadere senza troppa grazia sulla panchina di legno, fresca e ombreggiata, e finalmente si concesse il lusso di prendere un respiro a pieni polmoni. Sapeva di trovarsi ancora in città, ma quella zona del parco era decisamente meno affollata della strada e le urla che l’avevano travolta poco prima erano ora ridotte a leggeri brusii.

Certo, non sapeva dove fossero Tia e Theo e tantomeno il suo misterioso promesso sposo, ma l’idea di attenderli in quel parco non le dispiaceva. Avrebbe potuto guardarsi un po’ intorno e dare un’occhiata ai partecipanti e ai vincitori del torneo, con tutta calma, e solo alla fine contattare i suoi amici per riunirsi a loro. 

Non aveva nessuna intenzione di velocizzare gli eventi della giornata.

Dorcas stava tranquillamente provando a immaginare quante persone lo stadio potesse contenere quando un ragazzo dal viso accaldato quanto lei si sedette sulla panchina a poca distanza da lei. I loro sguardi si incrociarono per caso e lui le rivolse un dolce sorriso, che lei ricambiò.

«Provare a camminare per strada subito dopo la finale è un delirio, vero?» chiese lui, indicando la massa scura che ancora si dimenava sotto lo stadio e lungo le strade. Timidamente, Dorcas annuì.

«Sei una combattente?» continuò lui, indicando la divisa della ragazza.

«No, solo in visita. Vengo da Kosmos, l’istituto per maghi di Ambervale. Mi piacerebbe partecipare al torneo però, magari l’anno prossimo.»

Negli occhi del ragazzo balenò un guizzo avido. Si avvicinò a lei, incuriosito, e cominciò a esaminare la sua divisa.

«Non ho mai sentito parlare di questo istituto, è famoso?»

«Certo!» replicò Dorcas, con orgoglio e un po’ di offesa «A Kosmos vengono addestrati i migliori maghi del mondo. Ma alla fine è un istituto militare, non qualcosa che fa scalpore o appare sulle riviste…»

«Perfetto.»

Fu un istante: Dorcas fece appena in tempo a vedere il suo interlocutore scattare fulmineo verso di lei con qualcosa in mano. Poi, il mondo si fece buio…

 

Dorcas era distesa sul freddo pavimento di una stanza buia. Non aveva idea di dove fosse, o di come fosse finita lì: sapeva solo che voleva andarsene il prima possibile. Provò ad alzarsi, ma il suo corpo pareva non rispondere. Non riusciva a muovere un muscolo. Le gambe erano incollate al suolo, la testa riversa su un lato. E ad un tratto lo sentì. 

Un solletico sulla guancia: qualcosa le stava camminando sul viso. Cercò di voltarsi per vedere cosa fosse, ma ogni suo sforzo di cambiare posizione era invano. Provo a scuotere la testa: niente. Aveva paura. E appena cominciò a realizzarlo, questa diventò reale. 

Davanti ai suoi occhi, le sottili dita di una scheletrica mano sinistra cominciarono a fuoriuscire dal pavimento grigio. Dorcas non ebbe più bisogno di voltarsi per capire cosa le stava camminando sulla testa: ora era chiaro. Si sforzò oltre ogni limite per non urlare, per cercare di ragionare e capire cosa stesse succedendo. Ma le mani erano sempre più vicine al suo viso. Le ossa della mano destra le avevano sfiorato gli occhi, il naso, e ora si stavano avvicinando alla bocca. Terrorizzata, Dorcas chiuse gli occhi e cercò di tenere a bada la sua paura. Doveva concentrarsi, doveva sentire la sua magia dentro di sé: solo così sarebbe riuscita a liberarsi. Serrò le palpebre, cercò di avvertire il flusso della magia nelle sue vene e… si svegliò.

 

Dorcas aprì gli occhi e scattò subito seduta, portandosi una mano alla guancia: una coccinella cadde sull’erba. Stordita, la ragazza tentò di capire dov’era seduta.

Si trovava nel parco dello stadio di Saoria, vicino alla panchina su cui poco prima - ammesso fosse passato poco tempo - stava parlando con il ragazzo sconosciuto. La testa le girava come se fosse stata presa a martellate e un fortissimo senso di nausea le invadeva lo stomaco. Con cautela, sollevò lo sguardo e cominciò a guardarsi attorno: solo allora si accorse di essere fissata.

In piedi a qualche metro da lei, il ragazzo della panchina cercava invano di liberarsi dalla presa di un’alta, prestante donna dalla pelle scura. Gli stava tenendo le braccia bloccate sulla schiena mentre lui si dimenava come un verme sull’amo sciorinando un lungo e variegato elenco di insulti, a cui la donna però non sembrava far molto caso. Ai loro piedi giaceva un fazzoletto. Quando si accorse che Dorcas era sveglia e stava osservando la scena, il ragazzo sbiancò. Dorcas fece due più due.

«Tu… Cosa volevi farmi?»

Il ragazzo non rispose a lei, ma riprese il suo frenetico tentativo di liberarsi. La donna, che osservava la scena in silenzio, rispose schiaffandogli bruscamente un palmo sulla nuca e facendogli cenno con la mano di rispondere. Riluttante, finalmente l’individuo si rivolse a Dorcas.

«Venderti, no?»

“Venderti, no?”, disse come se fosse la risposta più naturale del mondo. Dorcas rimase a bocca aperta. Era così sconvolta che non riuscì nemmeno a processare da subito ciò che era successo, e soprattutto ciò che aveva sentito. Lui voleva venderla. Perché era una ragazza? O perché era una maga? Probabilmente entrambe. Di nuovo, veniva considerata solo una merce di scambio.

Di nuovo, la sua volontà non era nemmeno stata presa in considerazione. 

Era passato il momento di stordimento; era passata la confusione. Ora c’era solo rabbia.

Una lama di luce saettò al gesto di Dorcas e colpì la gamba del giovane criminale: la donna, sorpresa, fece un balzo all’indietro mollando la presa e il ragazzo cadde a terra in un rivolo di sangue. Furiosa, Dorcas si avvicinò.

«Io non sono merce di scambio!», urlò.

Il ragazzo urlò a sua volta e tentò di fuggire a carponi, ma fu subito bloccato da due luminosi lacci bianchi: i suoi polsi furono avvolti dalla luce e così anche le sue caviglie. Lui fece per parlare, ma un’onda d’urto lo travolse come se avesse ricevuto un pugno in pieno volto; un altro laccio andò a tappargli la bocca, lasciandogli liberi solo gli occhi pieni di terrore.

«Come ci si sente a essere alla mercé di qualcun altro, eh?»

Un’altra onda d’urto colpì il ragazzo, che cominciò a sanguinare dal naso.

«E se ora fossi io a decidere di venderti?»

Ancora un’onda.

«Ne ho davvero abbastanza della gente come te. Mi fa schifo.»

Le onde si fermarono. Dorcas unì i palmi delle mani, ma non chiuse gli occhi: erano sbarrati e traboccanti di sentimenti repressi: rabbia, frustrazione, furia, impotenza. I capelli della ragazza brillarono chiari. Un cerchio formato da tante, luminose piccole rune cominciò ad apparire sul terreno sotto al ragazzo, come inciso da un pennino dalla punta infuocata. Il suo volto era un misto di lacrime e sangue: non poteva muoversi, non poteva parlare, e ogni secondo che passava vedeva apparire sempre più rune nel cerchio sotto di sé. Non sapeva cosa sarebbe successo una volta completato, ma poteva benissimo immaginarlo.

Mancavano solo pochi simboli, pochi attimi: il ragazzo chiuse gli occhi e… fu scaraventato via. La donna dalla pelle scura si era tuffata nel cerchio un attimo prima che questo cominciasse a brillare e, dopo aver afferrato il condannato, era rotolata via con lui.

 

Colta di sorpresa, Dorcas interruppe l’incantesimo e restò a fissare la scena con bocca spalancata. La donna stava cercando di spezzare le catene di luce a mani nude, ovviamente senza riuscirci.

Fu invasa da una sensazione di sconforto.

A che livello si era abbassata? Aveva cercato di uccidere una persona. Certo, era un malvivente; ma non stava a lei imporgli alcun giudizio. Con un gesto della mano sciolse le catene luminose che lo tenevano legato e, con la testa, gli fece un brusco cenno di andarsene. Questi non se lo fece ripetere due volte e corse via - quanto perlomeno gli permetteva di fare la sua gamba ferita. La donna lo guardò zoppicare via e, sospirando, si alzò e si diresse verso Dorcas.

“Cosa vuole ora questa?” pensò lei, stanca e scocciata “Ci manca solo ricevere la paternale da una sconosciuta.”

Ma, con sua grande sorpresa, la donna si inchinò. Non un inchino sommesso, o di devozione: sembrava più un semplice ringraziamento. Imbarazzata e sorpresa, Dorcas cominciò a balbettare.

«N-non c’è bi-bisogno di fare così, anzi: mi sono comportata in modo spregevole. Se non fosse stato per lei avrei commesso un’azione terribile. Sono io a dovermi scusare.»

E, così dicendo, si inchinò a sua volta. La donna allora sollevò la testa e le sorrise. Solo in quel momento Dorcas notò la persona particolare che aveva davanti.

Era piuttosto alta, anche se non quanto Erica, e dal fisico chiaramente allenato. La sua pelle era scura e gli occhi altrettanto, incorniciati da lunghe e folte ciglia nere. Di primo impatto Dorcas pensò non avesse capelli ma osservando meglio notò che sì, la maggior parte della sua testa era effettivamente rasata, ma da un punto della nuca partiva una lunga ciocca di capelli neri raccolti in una treccia. Sulla parte del cranio privo di capelli erano tatuati dei simboli neri, simili ai marchi tribali che Dorcas ogni tanto vedeva su attori e modelli particolarmente prestanti. Percorrevano la circonferenza della sua testa e le proseguivano sul volto, incorniciando il sopracciglio e l’occhio destro. Dato che non aveva ancora detto una parola, Dorcas sospettò che non potesse parlare.

Non si soffermò molto a riflettere su quello, però, perché la cosa che più di tutte catturò la sua attenzione era il suo sguardo: i suoi occhi lasciavano trasparire un’enorme fierezza, ma al tempo stesso anche calore e comprensione. La sua espressione rifletteva un animo perfettamente bilanciato e controllato, eppure non incuteva né paura né freddezza. D’altronde, pensò Dorcas, aveva reagito con molto autocontrollo ad ognuna delle cose appena successe. La ragazza capì che non aveva davanti una persona comune. E improvvisamente si sentì molto, molto piccola. Era completamente rossa in viso:

«M-mi dispiace di averla coinvolta, davvero. Non… Non so cosa mi sia preso, io…»

La donna la guardò con compassione e, improvvisamente ma delicatamente, la abbracciò. Dorcas fu travolta da un’ondata di forte profumo speziato: un odore che le ricordava il terreno, ma anche il sole al tramonto; quello che guardi quando non sai che strada intraprendere nella vita e che anticipa una serata tranquilla, ma malinconica. Senza nemmeno rendersene conto, cominciò a piangere.

 

La donna non la accarezzò né la strinse più forte: semplicemente, in silenzio, c’era. Dorcas si sentiva il petto invaso di emozioni che non credeva avrebbe mai provato, tanto meno con un’estranea, tanto meno tutte insieme. Non sapeva neppure il suo nome eppure, se avesse avuto una madre, era sicura che la sensazione che le avrebbe trasmesso sarebbe stata proprio quella. Si lasciò andare al pianto e sentiva che le sue lacrime si stavano portando via tutto ciò che la sua bocca non era riuscita a pronunciare in quei giorni, tutte le parole che non era riuscita a dire a Tia, o alla dottoressa Joleicia, o a Rao o a Sheraltan. Si diede della stupida: aveva appena rischiato di farsi rapire da uno schiavista e ora stava di nuovo dando confidenza a una perfetta sconosciuta. Eppure… sembrava tutto così naturale…

Dorcas non sapeva quanto tempo era durato quell’abbraccio, ma ad un certo punto notò che la donna si era voltata. D’istinto sollevò il viso, lo asciugò meglio che poté e si girò nella sua stessa direzione: una ragazza si stava sbracciando verso di loro, con un’enorme coppa in mano. 

 

«Ehi, Leona! Che fai? Ma c’è una ragazza lì?»

La donna chiamata Leona si staccò da Dorcas, per permettere a entrambe di guardarsi. Dorcas si soffiò velocemente il naso e rivolse un saluto alla ragazza che ormai le aveva raggiunte.

Aveva i capelli di un particolare rosa confetto raccolti in quello che doveva essere un chignon. Non era molto alta ma sulla schiena portava un enorme spadone che, a confronto con il fisico esile della sua proprietaria, appariva davvero sproporzionato; e aveva il corpo ricoperto di lividi, tagli e bruciature. I suoi abiti erano rovinati e un lungo cappotto grigio era stato indossato con la speranza, piuttosto vana, di coprirli. Tentando di non fissare in modo esagerato la grossa coppa dorata che lei teneva in mano, Dorcas le fece un cenno di saluto.

«Sono stata io a disturbarla, non… sono stata molto bene, e la signora è venuta ad aiutarmi.»

La ragazza posò a terra la coppa e fissò Dorcas con sguardo stupito; decisamente più stupito di quanto sarebbe sembrato normale.

«La… signora?» guardò Leona, che scrollò le spalle facendo cenno di non preoccuparsi. La ragazza tornò allora a rivolgersi a Dorcas e le porse la mano.

«Se a lei va bene, va bene anche a me. Chiamami Kohei, e lei è Leona. Come avrai capito non parla, ma si fa capire benissimo.»

«Io sono Dorcas, piacere mio. È - ehm, sei la vincitrice del torneo? Congratulazioni!»

«Primo posto! È la prima volta che vieni a Saoria e assisti al torneo, immagino.» 

«Non ho assistito neanche a questo in realtà, ma sì, è la prima volta. Mi p- ma stai sanguinando!»

Dorcas indicò una grossa chiazza scura sul fianco del cappotto della ragazza.

«Oh, no. Non di nuovo.»

Non riuscì nemmeno a sollevare il lembo della maglia per controllare la ferita: i suoi occhi diventarono vitrei e perse conoscenza. Leona scattò in avanti e la afferrò al volo, mentre Dorcas recuperava il trofeo; la spada cadde invece con un grande tonfo. Guardò la donna ma, nonostante la sua espressione fosse ora preoccupata, sembrava avere il controllo della situazione. 

 

Leona distese Kohei a terra e le abbassò le palpebre. Delicatamente, prima scostò il cappotto insanguinato e poi strappò la maglia, anch’essa ora tinta di rosso, nel punto della ferita. 

Non era un taglio normale: il fianco era trafitto in verticale da un lungo e profondo taglio dai bordi verdastri. La ferita non sembrava semplicemente sanguinare: era come se stesse corrodendo la pelle della ragazza e si allargava a velocità impressionante. La puzza di putrefazione che emanava era così forte che Dorcas dovette coprirsi il naso per avvicinarsi.

«È una ferita terribile! Sai cosa l’ha provocata?»

Leona annuì e si sedette a gambe incrociate davanti al corpo inerme di Kohei. Guardò Dorcas battendo la mano a terra: lei colse l’indicazione e si sedette al loro fianco. Leona le fece quindi segno di aspettare, appoggiò le mani sulle ginocchia e chiuse gli occhi.

Cosa successe poi, Dorcas non lo capì: la donna era seduta immobile così come era immobile la giovane Kohei. Sembravano entrambe addormentate, ma era ovvio che stava accadendo qualcosa che la giovane maga non poteva dedurre. Si limitò quindi ad aspettare, tenendo d’occhio un po’ il trofeo, un po’ la spada e un po’ le due donne. Dopo una quindicina di minuti dove sembrava nulla fosse cambiato, Dorcas notò che la puzza stava svanendo. Abbassò lo sguardo e vide la ferita non cicatrizzarsi, non smettere di sanguinare; semplicemente sparire. Le macchie di sangue erano ancora presenti, ma della ferita non vi era più alcuna traccia: la pelle era intatta e pulita. Dorcas si chinò per osservarla da vicino ma una mano le afferrò la spalla: Leona si era svegliata e le stava facendo cenno di allontanarsi. Dorcas obbedì e dopo qualche secondo anche Kohei aprì gli occhi. Si portò una mano alla testa e, lentamente e con l’aiuto sia di Dorcas che di Leona, si mise seduta.

«Quell’imbecille non si rende conto di quanto siano pericolosi i suoi giocattoli. I medici dell’organizzazione hanno dovuto chiudermi già due volte questo stupido taglio, spero che ora sia sistemato del tutto.»

Guardò verso Leona, che annuì.

«Bene… Grazie, Leona.»

«È una ferita che si continua ad aprire? È magica?»

«È maledetta. La mia avversaria in finale era una pazza sanguinaria che ha incantato tutte le sue spade in modo che feriscano in modi molto più dolorosi del normale. Se non avessi spezzato subito la lama che mi ha fatto questa sarei morta in meno di un minuto. Fortunatamente, una volta rotte, i poteri delle armi possedute si indeboliscono e sono riuscita a tenerla a bada per un po’. Il problema è che mi fa sanguinare un sacco.»

Kohei si portò le ginocchia al petto e si strinse la testa nelle mani.

«Ah, un giorno la farò impiccare e mi godrò lo spettacolo con birra e popcorn.»

«Posso fare qualcosa per a- ehi! Il trofeo!»

Le tre alzarono il viso tutte insieme: una coppia di uomini aveva afferrato il trofeo e stava fuggendo via. Leona fece subito per alzarsi e inseguirli, ma Kohei la fermò:

«Lascia stare, tanto non avrei potuto portarlo comunque.»

«Ma… è il tuo trofeo!» intervenne Dorcas.

«Ne ho a bizzeffe a casa. L’importante è che non mi rubino Ares.»

«Ares è la tua spada?»

«Sì, bella vero?» 

Kohei trascinò a sé il pesante spadone e lo mostrò alla ragazza: non era granché decorato, anzi, di aspetto era piuttosto semplice. L’impugnatura era massiccia, nera e rossa, e terminava in una grossa elsa ovale anch’essa rossa rubino. La lama era scura, quasi nera, e nel complesso aveva un aspetto piuttosto minaccioso.

«Molto,» annuì Dorcas «e sembra anche molto pesante. Non è poco pratica in battaglia?»

«Solo se non sai come usarla. Non è una spada che puoi sventolare a caso, su questo hai ragione. Ma un combattente serio non sventola le armi a caso a prescindere. È tutta una questione di tempismo: meno colpi, ma migliori. A me basta mandarne a segno uno per vincere.»

«Anche questa spada è incantata?»

«Nah, io non amo infilare la magia nelle mie armi. Ares è solo metallo e forza bruta. E visto che mi ha fatto vincere il primo premio direi che va benone anche così. Tu invece? Sei magrolina, quindi suppongo tu sia una maga.»

«Esatto, mi alleno all’istituto Kosmos. Lo conosci?»

«Ne ho sentito parlare, sì.»

«Ho notato che prima Leona è riuscita a far letteralmente sparire la tua ferita. È una maga anche lei? Non ho mai visto incantesimi di quel tipo.»

Kohei guardò Leona, e solo quando questa annuì continuò il discorso.

«Non è “magia”, solo una capacità molto particolare che si tramanda nella sua famiglia. È qualcosa di più antico e tradizionale, che affonda le radici nelle terre del sud da cui Leona proviene. Forse un giorno sarà lei stessa a parlartene.»

Dorcas sollevò le sopracciglia in un’espressione stupita.

«Può parlare allora?»

«Solo in certi luoghi.»

Kohei si alzò e scostò con le mani la polvere dal suo cappotto. Lo sollevò da un lembo ed esaminò la grande chiazza rossa, che copriva buona parte del fianco sinistro. Sbuffò, lo lasciò ricadere e si sciolse i capelli: una lunga, ondulata chioma rosa si calò sulla giacca grigia; il contrasto era decisamente colorato.

«Tornerete a casa ora?»

«Direi proprio di no, ho preso l’intera giornata di permesso e intendo godermela tutta. Andiamo a prendere un gelato?»

Leona annuì e unì pollice e indice della mano nel segno di “ottima idea”. Dorcas, imbarazzata, non sapeva se considerare l’invito esteso anche a lei.

«Ehm, anche io…?» Chiese titubante.

«Direi che sei quella che ne ha più bisogno.»

Kohei sistemò la spada in modo che venisse nascosta dal cappotto e inforcò un paio di grossi occhiali da sole.

«Ti chiedo solo di non pronunciare il mio nome a voce alta, o non riusciremo ad andare da nessuna parte. Leona, sei pronta?»

La donna rise, scattò sull’attenti e si portò una mano alla fronte.

«Ottimo. Abbiamo una ragazzina da far rilassare.»

 

Dorcas non ricordava quando era stato l’ultimo pomeriggio che aveva trascorso così tranquillamente. Leona e Kohei avevano un carattere molto diverso tra loro, ma erano entrambe un’ottima compagnia per la giovane maga: Kohei le spiegava i dettagli di ogni specialità culinaria che provarono - e ne provarono tante - e Leona sembrava la babysitter di entrambe. Dorcas non lo diede a vedere, ma notò che sbirciava molto spesso in direzione del fianco di Kohei; immaginò fosse preoccupata che la strana ferita tornasse alla luce.

«Guarda, stanno giocando a dadi!» disse ad un certo punto quest’ultima mentre attraversavano, gelato in mano, una stretta e alquanto lugubre stradina secondaria. «Andiamo anche noi? Facciamo una scommessa!»

Leona aggrottò le sopracciglia e rivolse alla ragazza uno sguardo di rimprovero.

«Oh, dai, non guardarmi così. Sarà una scommessa innocente.»

Dorcas guardò l’interno del locale che Kohei stava indicando: era una bettola. Una decina di uomini - che si potevano identificare prima col naso che con lo sguardo - erano seduti attorno a un tavolo circolare, sul quale facevano una colorata presenza bottiglie vuote e diverse macchie di cibo e vino. Leona si portò istintivamente più vicina a Dorcas. Kohei entrò invece molto tranquillamente.

 

«Buongiorno signori, ci prestate un paio di dadi in cambio di un giro offerto per tutti?»

L’intero gruppo di uomini si voltò di colpo nella sua direzione. Un paio avevano uno sguardo sospettoso, ma la maggior parte erano stupiti. Si guardarono tra di loro borbottando qualcosa. Dopo qualche secondo si fece allora avanti un uomo dal viso volpino e il naso molto piccolo, che porse a Kohei un paio di dadi rovinati.

«Volete venire al nostro tavolo?» chiese alla ragazza.

«La prossima volta magari, oggi ho un duello uno contro uno con la signorina.» 

Kohei prese i dadi e si diresse verso il bancone della taverna: lasciò una cospicua quantità di denaro all’oste e disse di offrire agli altri avventori tutto ciò che desideravano. L’uomo rimase sorpreso quanto gli altri, ma obbedì senza porre altre domande. Kohei trovò quindi un tavolino appartato e fece cenno alle due compagne di sedersi vicino a lei.

«Non ho ordinato per noi, non volevo mettere a rischio lo stomaco di nessuna. Allora, Dorcas, cosa vuoi scommettere?»

Dorcas era intenta a guardare con un misto di disgusto e curiosità le bevande arrivate all’altro tavolo; si ridestò all’improvviso quando fu chiamata in causa.

«Ehm, non saprei… Tu hai già qualche idea?»

«Sì, se vinco io voglio sapere perché prima piangevi.»

Dorcas avvampò.

«Mi sembra un po’ pretenziosa come scommessa…»

«Deve dare la motivazione per vincere, no?»

«Ma i dadi sono un gioco di sola fortuna.»

«Indifferente.» rispose Kohei, gesticolando con la mano «Puoi chiedermi qualsiasi cosa anche tu, sai.»

Dorcas rimase qualche secondo a riflettere, poi decise.

«Vorrei che mi aiutassi con la mia magia. Sarà una cosa veloce.»

«Io non so niente di niente di magia, ma se pensi che possa esserti utile perché no. Leona, che ne dici di fare tu da lanciatrice?»

Leona alzò le spalle e annuì. Prese i dadi e spostò uno sguardo interrogativo da Kohei a Dorcas.

«Io dico dispari. Ti va bene?» chiese Kohei a Dorcas. Lei annuì.

«Perfetto. Leona, vai pure.»

Leona agitò entrambi i dadi nei palmi delle mani, facendo attenzione a non mostrarli, e li gettò delicatamente sul tavolo: tre e quattro. Dorcas fece una smorfia di disappunto, ma sorrise.

«Sembra che il primo giro abbia vinto io.» le rispose Kohei «Facciamo al meglio di tre?»

«Oh, certo. Io sempre pari allora, grazie.»

«Hai sentito la bimba, Leona.»

Leona recuperò i dadi con fare annoiato e li agitò di nuovo; chiaramente il gioco non era dei più emozionanti per lei. Li lasciò cadere, e stavolta uscì una coppia di due. Dorcas rivolse alla lanciatrice un ampio sorriso.

«Uno pari!» disse «Pronta al finale?»

«Ti stai già lasciando trascinare?» le chiese divertita Kohei «Fai tu la tua scelta per prima allora.»

Dorcas si accorse che stava davvero prendendo a cuore una semplicissima partita a dadi; ma sentiva di essere giustificata dal premio che le era venuto in mente. Ovviamente non aveva senso riflettere troppo su qualcosa basato sulla pura fortuna, ma la ragazza provò lo stesso a fare qualche calcolo.

«Stavolta dispari.» decise quindi alla fine.

«Cambio di rotta, ottimo. Leona, perché stavolta non ne tiri uno alla volta? Creiamo un po’ di suspense.» 

Leona le lanciò uno sguardo che Dorcas tradusse come un “addirittura?”, ma sospirò e obbedì. Prese allora un dado solo, lo scosse in una mano e lo lasciò scivolare sul tavolo: sei. Afferrò anche il secondo. Il battito di Dorcas era accelerato; fissava con trepidazione la mano della donna, come se questo avrebbe fatto uscire il numero che desiderava.

E funzionò.

Il dado, caduto sul tavolo, rotolò qualche secondo e si fermò sul… tre.

Dorcas esultò mentre Kohei sbuffava e rideva al tempo stesso.

«Ok, ora ho davvero paura di cosa mi chiederai per essere così felice.» Andò a restituire i dadi alla compagnia che li aveva loro prestati e tutte e tre uscirono dalla taverna.

 

«Possiamo metterci su una panchina. Non voglio farvi perdere troppo tempo, ma potrebbe volerci un po’.»

«Cos’hai in mente?» chiese Kohei mentre si accomodavano su un’ombreggiata panchina di legno.

«Ecco, mi rendo conto che non sia molto carino da chiedere… Ma vorrei provare a curarti. Potresti farti una piccola ferita?»

Leona e Kohei la guardarono stupite, quest’ultima molto più dell’altra.

«Sai usare la magia curativa?»

«Ehm… no.» Dorcas era del suo tipico color peperone «Non l’ho mai usata finora, e nessuno mi ha mai insegnato a farlo. Ma mi sono resa conto che prima, quando ti ho vista ferita, qualcosa si è mosso dentro di me. Come un istinto. Sentivo di poter fare qualcosa. Non mi era mai capitato prima, quindi può essere che abbia sviluppato questa capacità di recente, per questo vorrei provare. Ma non credo riuscirei a concentrarmi se io stessa fossi ferita. Ovviamente basta un piccolo taglietto, qualcosa di minimo, così se non riuscissi a fare niente non ci sarebbero danni. Ti va…?»

Kohei sembrava la rappresentazione da dizionario della sorpresa. La fissava con gli occhi spalancati e la bocca aperta, e a fine spiegazione rimase senza parole per qualche secondo.

«Certo, assolutamente. Onestamente mi sembra una gran figata, e sicuramente è la miglior scommessa che io abbia mai perso. Ora sono davvero curiosa.»

Dorcas si sentì sollevata nel vedere la tranquillità con cui l’altra ragazza acconsentiva alla sua richiesta. Questo le diede coraggio: non era sicura di cosa sarebbe successo né tantomeno di come curare qualcuno, ma almeno sapeva che la sua cavia era più che consenziente.

«Grazie, davvero! Pensavo che potresti appoggiare il dito sul filo della tua spada e farti un piccolo taglio, senza andare in profondità.»

«Nah, tranquilla.» Kohei si afferrò il polso «Non serve che la sporchi.»

 Appena intuì cosa stava per fare, Leona sbiancò e si lanciò in avanti verso l’amica; ma era già troppo tardi.

 

Un fortissimo “crack” scoppiò nell’aria e la mano sinistra di Kohei cadde come morta. Nel giro di un istante l’espressione tranquilla ed emozionata di Dorcas si trasformò in una smorfia prima di sorpresa, e poi di puro spavento: urlò e si portò la mano alla bocca. Leona si colpì forte alla fronte con il palmo e, se avesse potuto imprecare, lo avrebbe fatto più che abbondantemente. Strinse i pugni e si trattenne dal colpire Kohei, il cui viso nel frattempo stava diventando di un curioso color verde fogna.

«Che cos’hai fatto?» chiese Dorcas terrorizzata «Non sono assolutamente in grado di curare una cosa del genere, ti sarai rotta le ossa!»

Gli occhi le diventarono lucidi e si riempirono di lacrime: la mano di Kohei giaceva penzoloni e il polso sembrava completamente spappolato.

«Te l’ho detto prima, no?» 

Dorcas alzò lo sguardo: Kohei la stava guardando dritta negli occhi.

«Serve la giusta motivazione per vincere. E io so come ottenere una vittoria.»

Nonostante il fiato affannoso e l’evidente dolore che la ferita le procurava, Dorcas non poté fare a meno di sentirsi a disagio di fronte alla determinazione della ragazza. Deglutì, e sentì lo stomaco scattarle in gola. Riusciva a stento a pensare e il suo cuore batteva così forte che il rumore le rimbombava nei timpani con la forza di un tamburo. Strinse le labbra e sfiorò appena le dita della mano di Kohei. Involontariamente, quest’ultima fece una smorfia di dolore e distolse lo sguardo.

Una mano si appoggiò allora sulla spalla di Dorcas: si voltò di scatto e vide Leona che, nonostante i lineamenti contriti dal nervoso, la guardava con i suoi grandi occhi rassicuranti. Le fece segno di prendere un profondo respiro e si passò una mano davanti al viso, chiudendo gli occhi. Dorcas, perplessa, guardò in basso: Leona sembrava molto affezionata a Kohei, l’avrebbe odiata se non ce l’avesse fatta?

Decise tuttavia di seguire il suo consiglio. Tentò di controllare il suo respiro, inspirò profondamente e tornò a rivolgersi a Kohei. Dispose le mani a coppa attorno al polso fratturato, e chiuse gli occhi.

 

Nel buio della sua mente imperversava una marea di sensazioni negative: paura, ansia, senso di colpa, incertezza, agitazione, insicurezza. Eppure… vi era anche qualcos’altro. Tentò di concentrarsi sui lati più periferici del suo pensiero, lontano da quella tempesta di emozioni, e la percepì.

Una brezza leggera, come un flusso, un sospiro emesso da un’entità sconosciuta. La maga non sapeva cosa fosse, ma sentì che doveva raggiungerla. Focalizzò il suo pensiero su quella sensazione, quella luce che si faceva sempre più intensa, sempre più forte. Quel vento dorato e luminoso aveva spazzato via le nubi, e Dorcas fece ciò che il suo istinto le suggeriva: lo spinse fuori. 

Avvertì una piacevole sensazione di calore e spalancò gli occhi.

 

Leona la stava fissando con un’espressione più di sollievo che di stupore, mentre a Kohei sembrava davvero che gli occhi le sarebbero presto schizzati fuori dalle orbite. Dorcas non aveva idea di cosa fosse successo. Si guardò intorno e vide… che la panchina su cui erano seduti era fiorita.

Scattò in piedi con un piccolo urlo e Kohei esplose in una grassissima risata condita da un fragoroso applauso: i suoi polsi erano perfetti. Entrambi.

«Oh-mio-Dio.» disse «Ragazza mia, tu sei una bomba pronta ad esplodere. Hai un potenziale che non immagini nemmeno lontanamente.»

Dorcas era così sconvolta che non riusciva a distogliere gli occhi dai piccoli e profumatissimi fiori bianchi che avevano riempito la superficie della panca. Anche Kohei li vide e rise ancora più forte.

«È fantastico, fottutamente fantastico! Ma com’è possibile che fino ad oggi tu nemmeno sapessi di poter fare una cosa così?»

Dorcas boccheggiò per qualche secondo e finalmente sembrò rendersi conto di cosa stava succedendo. Un pensiero improvviso le balenò in mente: il polso fratturato.

«Il tuo polso!» disse, rivolta alla ragazza «Come sta? È ancora rotto?»

«Sta così bene che quasi quasi mi rompo anche l’altro!»

Leona le lanciò un’occhiata di fuoco. Che Kohei ignorò.

«Ma cosa è successo…?» chiese Dorcas, ancora confusa.

«Hai creato tra le mani una piccola sfera, bianca e luminosa, e il mio polso era proprio in mezzo. Devo dire che la sensazione all’inizio è stata un po’ strana: sentivo un po’ di calore, poi è arrivato un formicolio, quasi come se il braccio mi fosse stato anestetizzato… e poi è esplosa.»

«Cosa?»

«La sfera bianca, è esplosa e una piccola onda di vento bianco ha colpito anche noi e la panchina. A me è sembrato di svegliarmi dopo un bellissimo sonno ristoratore: mi sono sentita euforica e piena di energia.»

Kohei guardò Leona e questa annuì, confermando che la sensazione provata da lei era la stessa.

«Nel giro di qualche secondo sulla panchina hanno cominciato a spuntare dei germogli, che poi sono fioriti. Come se qualcuno avesse mandato avanti il tempo velocemente. Beh, più o meno. Le panchine normalmente non sbocciano in ogni caso.»

«Io… non pensavo davvero di poter fare una cosa del genere. Non…»

Le ginocchia di Dorcas cedettero improvvisamente e lei perse conoscenza. Leona la afferrò al volo, si sedette sulla panchina e la fece coricare con la testa sulle sue ginocchia. Di nuovo, un caldo profumo di terra e spezie abbracciò i sensi di Dorcas, che pian piano riaprì gli occhi. Leona fece un cenno a Kohei con lo sguardo.

«Secondo Leona devi essere stanca per lo sforzo, e io concordo con lei. Se davvero era la prima volta che provavi una cosa del genere è normale ti senta affaticata ora. Hai un posto dove tornare e riposarti un po’?»

Dorcas si passò una mano sulla fronte.

«Sì… sono venuta qui con alcuni amici e compagni di accademia. Posso chiamarli e tornare a Kosmos con loro.»

«Mi sembra una buona idea. Possiamo anche raggiungerli noi, ti accompagneremo dovunque serva.»

Dopo tutto ciò che era successo, Dorcas cominciava davvero a sentirsi a disagio. Cercò le parole giuste per non sembrare offensiva e si rivolse a entrambe le donne.

«Vi ringrazio, davvero. Mi dispiace darvi tutto questo disturbo. Posso chiedere loro di raggiungermi qui, non è un problema.»

«Ti assicuro, Dorcas, che tutto il “disturbo”» e Kohei fece il segno delle virgolette con le dita «che ci stiamo prendendo verrà abbondantemente ripagato. Soprattutto se deciderai di continuare per la strada che ti si è aperta oggi.»

Dorcas non rispose, perché aveva bisogno di rifletterci meglio. Prese il telefono e compose il numero di Tia.

«Dorcas?? Dove s- state zitti, per favore! È Dorcas!»

«Ciao Tia. Ma sei con altri oltre a Theo? Avete recuperato le sue armi?»

«Sì, beh, ti spiegheremo. Abbiamo incontrato alcune persone. Dove sei? Sei da sola? Dove ci incontriamo?»

«Andiamo all’ingresso del primo molo» suggerì Kohei «è vicino, facile da trovare e largo abbastanza da permetterci di vederli anche da lontano.»

Dorcas annuì e riferì le indicazioni all’amica.

«Perfetto, al primo molo! Voi sapete dov’è il primo molo?» chiese Tia ad alcuni individui le cui voci Dorcas non riconobbe «Ok, lo sanno. Arriviamo!»

«Va bene, ci vediamo lì.»

Terminò la chiamata e, molto lentamente e sorretta da Leona, si rimise seduta.

«Tutto ok?» chiese Kohei.

«Sì, stavo solo pensando che oggi avete fatto davvero tanto per me, e ora me ne vado così…»

«E cosa dovremmo fare, sposarci?» Kohei rise, senza rendersi conto del pensiero che in quel momento, dimenticato da tutto il resto della giornata, era riemerso nella mente di Dorcas.

«Andiamo al molo, scommetto che oggi non sarà l’ultima volta che ci rivedremo.»

«Ti piace davvero scommettere? Contro di me hai perso, però.»

«La scommessa che volevo vincere l’ho vinta.» e Kohei si indicò il braccio. Finalmente, Dorcas si concesse un sorriso.

«Sì… Hai proprio ragione.»

«Sei una persona interessante e ti terrò d’occhio, Dorcas Senecourt. So dove trovarti.»

«Ma se io volessi trovare te?»

Kohei emise uno sbuffo che sembrava più una risata di scherno.

«Sai che in realtà si sente molto parlare di me? Forse non nel tuo ambiente, però.»

«Ammetto di non essere molto informata di ciò che succede al di fuori del mio istituto. Quali sono i vostri nomi completi, se posso chiedere?»

«Kohei Santucci e Leona Okar.»

Dorcas si sforzò di pensare se aveva già sentito quei nomi, ma non le venne in mente davvero nulla. Si vergognò della sua ignoranza e sperò non fossero davvero persone importanti che avrebbe dovuto riconoscere. Fece per parlare, ma Kohei scosse la testa prima ancora che potesse dire una parola.

«Non ci pensare troppo, non importa. Andiamo?»

Dorcas annuì e si alzò, sempre con l’aiuto di Leona. La ringraziò sinceramente e, con il sole ormai in direzione del tramonto, si avviarono verso la parte bassa della città.



 
   
 
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