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Autore: eclissidiluna    19/07/2022    1 recensioni
SPOILER SU TUTTA LA SERIE COMPLETA! FINALE ALTERNATIVO
Spiego le vele controvento, seguendo rotte diverse che si delineano all’orizzonte. Come sempre non so dove approderò. Ma so che ho bisogno di andare per mare.
Buona lettura!
Lo sapeva. Sapeva che sarebbe successo. Prima o poi. Un cacciatore è “vecchio” anche se, nel mondo “normale”, è poco più che maggiorenne. Quando si è riunito a Sam si percepiva già un “sopravvissuto”.
Ha trascorso gli ultimi quindici anni della sua vita, facendo “tira e molla” con l’aldilà, a chiedersi “Perché sono ancora vivo?!”. Ma la domanda “vera” avrebbe dovuto essere: “Per chi sono ancora vivo?”. Non è mai stato un “fan” di se stesso però… è sempre stato il primo “sostenitore” di Sammy. Ma ora Sam può “sostenere” quel posto vuoto…sull’Impala. E’ pronto.
E’ un buon momento per “distrarsi”. Ora che l’Universo è in mano a Jack può concederselo. Il Paradiso arriva nei modi più impensati. Un punteruolo che trafigge donandoti un Cielo che invade, trasformandoti in nuvola. informe, leggera, soffice.
Sarà tutto perfetto. Sarà pace. Sarà quiete. Sarà respiro profondo, libero, ritrovato.
O forse no.
Genere: Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dean Winchester, Sam Winchester
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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Un degente “modello”, di quelli che seguono ogni raccomandazione alla lettera, senza discutere. Si è fatto pungere quotidianamente per gli esami ematici, ha atteso pazientemente il responso della TAC e risposto diligentemente alle domande “trabocchetto” sulla propria attività onirica.  Ogni volta che entra il medico per il giro visite, un inserviente per portargli il pranzo o un’infermiera con bicchierino e pasticche, l’accoglie con un sorriso di circostanza, stampato in viso. Fa una battuta sul tempo meteorologico e ringrazia educatamente. E’ snervante. Quattro giorni “sotto esame”.
La testa gli pare attraversata da fuochi d’artificio, il che potrebbe essere quasi eccitante. Ha sempre amato gli spettacoli pirotecnici del 4 Luglio. Ma quelle cangianti spirali concentriche, accompagnate da “scoppiettii” che rimbalzano nel cervello, “compaiono” quando si alza dal letto troppo velocemente e, a dire il vero, non hanno nulla di attraente. Sam è convinto che non siano i postumi dell’incidente. Non solo. E’ la tensione per quell’ “orale” interminabile, degno di Stanford. Non deve guadagnarsi un 30 e lode ma una lettera di dimissioni.
 
E Sam, al quinto giorno, teme di essere…rimandato al prossimo appello.
 Marin non fa che confermare le sue supposizioni.
 
“Perché Marin?! Io sto bene!”
“Sam…l’ematoma non si è ancora riassorbito completamente e poi…la notte scorsa la mia collega ti ha sentito “litigare” con Lucifero…” motiva Marin, con espressione sconsolata, analoga a quella di Sam ma, nella sua, distingui anche rabbia e impotenza.
 
Sam le ha svelato un po’ del “suo mondo” e Marin gli ha raccontato un po’ del proprio. Il lavoro saltuario in una fattoria, ad accudire cavalli per pagarsi gli studi. La fobia del fuoco che non le permette di avvicinarsi neppure a un semplice barbecue. Suo fratello che ancora, ogni tanto, le si presenta in sogno ma non per spaventarla…per rassicurarla. Marin, al risveglio, si sente bene, pronta ad iniziare un nuovo giorno.
 
Anche per lui. Che non vedrà quell’alba. Né quel tramonto.
Al contrario, Lucifero non rassicura. Lucifero non fa che ricordare, a Sam, quanto possa essere terribile, lo spazio che intercorre tra tramonto e alba.
 
“Non era un delirio psicotico! Era uno dei miei soliti incubi! Ti ho parlato di cosa ho vissuto!”
 
Gliene ha parlato, durante uno di quei turni di notte che Marin, rinunciando alla pausa prevista dopo le due del mattino, ha trascorso in buona parte in quella stanza, con la complicità di Holly.
 
Holly è un’appassionata di musica Viking metal e, il suo gruppo preferito, terrà un concerto il mese prossimo, proprio il sabato che, da prospetto turni, “le toccherebbe”. Per Marin è stato un baratto fin troppo facile. Il silenzio di Holly l’è costato un week-end in più sul lavoro. Non le peserà. Del resto, Marin, non ama granché la mondanità. Ricorda noiosi giorni di riposo passati a rimpinzarsi di gelato, davanti alla TV, in cerca di qualche programma capace di non farla addormentare, alla fine del primo tempo. Ascoltare Sam, è molto più avvincente, è una "serie" che vorresti catalogare come fantasy ma che finisci con il definire horror.
 
Sam non è entrato “nei particolari” ma ha accennato alla Gabbia, ad alcune delle prove più difficili che ha dovuto sostenere, superate grazie a Dean, quel fratello maggiore sempre al suo fianco, Dean non lo ha mai abbandonato, fino a...quella notte. Quando gli è stato “sottratto”, in circostanze tanto agghiaccianti quanto beffarde.
 
Ora Marin può affermare, senza ombra di dubbio, che la mente di Sam è granitica. Chiunque sarebbe crollato. Ma Sam no.
Sam riesce ancora a parlarne. E lei gli crede.
Perché Marin sa che “il mondo di Sam”... esiste.
 
Marin avrebbe fatto la quarta notte consecutiva, elemosinando l’ennesimo cambio alle colleghe sposate o fidanzate con le quali, “giocandoti” un mattino, vai a “colpo sicuro”. Ma la caposala glielo ha impedito, sciorinandole una serie di norme contrattuali. Ieri, in “riposo obbligato”, non c’era a “coprire” quegli incubi, inevitabilmente segnalati in consegna come “Allucinazioni visive e uditive”.
 
“Sam…mi dispiace…”
Sam, senza commentare, apre l’armadio in cerca dei suoi vestiti.
“Cosa stai facendo?!” domanda retoricamente Marin, alzando la voce.
“Me ne vado. Ho già perso troppo tempo!”
 “Per favore, Sam…” implora lei, consapevole di quanto siano ancora precarie le sue condizioni.
“Marin, non posso più aspettare. Ti ringrazio… di tutto. Per esserti presa cura di me, per Miracle e anche per l’auto…a proposito…sai quando sarà pronta?”
 
Marin sospira. Già…quell’auto d’epoca tanto preziosa. Per Sam. L’ha “recuperata” dal demolitore a cui era stata “affidata” dalla polizia, intervenuta sul luogo dell'incidente. Il parabrezza in frantumi e la parte anteriore accartocciata. L’ha consegnata a Mark, il compagno di Holly, che gestisce un’officina insieme al padre.
 
Mark e Holly si sono conosciuti a un raduno di motociclisti. Uniti dagli stessi gusti musicali e il “culto” per la due ruote, hanno iniziato a frequentarsi senza troppe aspettative. Entrambi delusi da relazioni sbagliate, troppo “scottati” per credere che, la passione di una sera, potesse “durare” oltre le quattro settimane. Nel giro di sei mesi condividevano l’appartamento di lei e Mark, in ufficio, aveva la fotocopia dei turni di reparto. Uno stratagemma efficiente per organizzare le varie riparazioni, riuscendo ad essere più libero, durante i riposi di Holly.
 
Talvolta Marin prova una leggera invidia. Un “riposo in più”, per Holly, non vuol dire strafogarsi di gelato, immaginando di essere l'eroina di qualche film strappalacrime...Holly, ogni tanto, ha provato a trascinarla in un “uscita a quattro” ma Marin non ha trovato…il “motociclista” giusto.
 
Mark, appena ha visto le condizioni dell’Impala, è stato dubbioso sulla possibilità di recuperare i pezzi di ricambio ma, alla fine, si è messo all’opera…cedendo alle insistenze della sua ragazza che lo ha convinto ad accettare quel lavoro, impegnativo e dal risultato incerto. Holly ha un talento naturale nel percepire i sentimenti delle persone. Ha compreso che, per Marin, quel paziente, è “diverso” ma, agendo con discrezione, le ha risparmiato “l’interrogatorio”.
 
“Te la consegneranno a metà settimana. Ti costerà un occhio della testa…forse, visto che è un po’ “datata”, ti sarebbe convenuto lasciar perdere e rottamarla…” azzarda Marin.
Sam s’adombra, come se avesse detto un’eresia “Te l’ho già spiegato, l’Impala fa parte della famiglia. Se anche dovesse esserci ancora qualche ritocco, sfuggito al meccanico, ci metterà le mani Dean, quando tornerà. Lui e quell’ auto sono una cosa sola! E’ la sua Baby… tornerà come nuova, puoi starne certa!”
Marin annuisce, tralasciando di ribattere che continua a nutrire profondi dubbi su quel “ritorno”. Non sa se, quel ferrovecchio, potrà contare sulle abili mani di chi deve averla amata davvero molto, per definirla con quel suggestivo vezzeggiativo…  “Baby”.
 
“Allora…sembro abbastanza sano di mente?!” domanda Sam passandosi l’asciugamano sul viso, imperlato di sudore. E’ intenzionato ad affrontare il primario, prima di opzionare la fuga. Marin lo squadra con scetticismo. Lo vede “ondeggiare” e tenersi al lavabo, come se volesse evitare una probabile caduta.
 
“Hai le vertigini, vero?”
“No…no affatto…” risponde evasivo, Sam.
“Ok… pallido, sudaticcio e malfermo sulle gambe…direi che è meglio rimandare il tuo “debutto in società”…”
“Marin, devo andare! Stanotte sarò fuori di qui, con o senza il benestare del primario!”
“Distenditi solo un’ora e giuro che ti accompagnerò io stessa nello studio del dottor Carter.” contratta lei.
“Meno di un’ora…” afferma con decisione Sam, affondando la testa sul cuscino.
“Va bene, Sam…punterò il timer come quando cucino una crostata!”

Sam chiude gli occhi, deglutendo. E Marin sa che, “il tempo di cottura”, non sarà sufficiente per apparire “sano di mente”.
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Lo studio del dottor Carter è ordinato e essenziale. Sulla parete campeggiano un paio di aforismi di Freud e sulla scrivania, in mezzo a tre pile di documenti suddivise con criterio, scorgi immediatamente una serie di fotografie. Sono inserite in cornici in materiale naturale, fatte a mano, artigianalmente...  “raccontano” di una giovane moglie sorridente e quattro figli. Il più grande ha diciannove anni. Il più piccolo otto. In mezzo due gemelle quindicenni che, ogni mattina, trasformano il corridoio di casa in un ring di Wrestling, per accaparrarsi lo specchio del bagno.
 
E’ un medico altamente preparato e sensibile, il dottor Carter. Quando legge “disturbo ossessivo compulsivo” si appunta il nome del paziente. E “parte” da lì. Da un nome. Non da una diagnosi.
Marin ha ancora un po’ di soggezione di lui, benché in più occasioni, le abbia dimostrato di stimarla.
 
“Dottor Carter…” sussurra, intimidita, facendo capolino dalla porta.
“Oh Marin, entri, s’accomodi. Cosa posso fare per lei?”
 
E’ estremamente professionale, il dottor Carter. Non passa facilmente al “tu” se non con i suoi collaboratori più stretti, alcuni li conosce dai tempi dell’università e li ha voluti nella sua “squadra”.
“Ecco…io…io sono qui da circa un anno e…non gli ho mai chiesto nulla…”
“No…anzi…ha diverse giornate di ferie arretrate…”
 
E’ innegabilmente preciso, il dottor Carter, quando si tratta del personale…conosce a menadito diritti, doveri e vademecum di reparto.
Marin si stupisce che, un medico impegnato come lui, possa ricordarsi le ferie non fruite, dei propri operatori!
 
“Appunto…se io…se io le chiedessi una settimana…a partire da…da domani?”
“Così…su due piedi…sostituirla sarebbe difficile, Marin…” s’acciglia l’uomo.
 
E' un tipo fiscale, il dottor Carter. Quel mancato preavviso complicherà le cose. Ma Sam ha una situazione…ben più “complicata”…e lei non lo lascerà solo. Lotterà per ottenere ciò che, fino a pochi giorni fa, non si sarebbe mai sognata di chiedere.
“Senta, dottor Carter, si tratta di un paziente. Di Sam Winchester…”
 
E’ assolutamente rigido, il dottor Carter, quando si mischia lavoro e vita privata.
“Cosa può mai avere a che fare, un nostro ospite, con le sue ferie?!” e Marin avverte un malcelato rimprovero, da parte del suo superiore. E’ una di quelle regole incontrovertibili. Gli ospiti sono fragili, in difficoltà, basta un gesto più gentile del solito per confonderli e peggiorare le loro condizioni. Carter raccomanda al personale di mantenere la “giusta distanza”.
 
“Io…io lo conosco. Era…era un amico di mio fratello.”
Carter sembra rilassarsi. Una conoscenza pregressa al ricovero appare più comprensibile ma deve comunque essere gestita con le dovute cautele “Continuo a non capire, Marin…so che suo fratello è mancato da anni…”
“Sam mi ha aiutato a…a superare il dolore. A voltare pagina.”
 
Non è “tutta la verità” ma è “la verità” che un uomo di scienze può accettare. Joshua è passato “oltre” e lei ha potuto continuare a vivere.
Grazie a Sam.
 
 “Lo sa che, la morte di mio fratello, il crollo che ho avuto dopo… è uno dei motivi per cui ho scelto la psichiatria…” aggiunge, con voce tremula.
“Lo so, lo ricordo bene. Avevo trovato umanamente significativo il riportare, nel curriculum, le motivazioni che l’hanno condotta a questo particolare settore della medicina” e Carter pare rivivere l’emozione provata, nel valutare il percorso di studi, le esperienze lavorative e di “vita”, di quella giovane candidata.
“Sam…lui ha perso recentemente suo fratello…”
“Non mi ha detto nulla! Sarebbe stato un particolare rilevante per definire meglio il quadro clinico …” la riprende Carter, in modo perentorio.
“Mi dispiace aver taciuto dottor Carter…ma lui si rifiuta di parlarne. Erano molto legati.” si giustifica Marin.
“Uhm…questo spiegherebbe le allucinazioni, l’incidente…potrebbe essere un disturbo post-traumatico da stress”
“E’ certamente così…e scusi se mi permetto di avanzare ipotesi diagnostiche…”
 
E’ innegabilmente “democratico”, il dottor Carter. Ogni operatore che ha a che fare con il reparto, dallo specializzando al medico con carriera ventennale, dall’infermiera all’inserviente, può contribuire al benessere dei ricoverati.
“No…non deve scusarsi. Non si bada al protocollo o alla gerarchia professionale quando si può giovare al paziente. Ogni informazione, ogni intuizione è un tassello prezioso! Noi componiamo puzzle, mosaici…mettiamo ordine nella mente di chi ci viene affidato…è la nostra “missione”, Marin.”
Marin ammira il dottor Carter quando, infervorandosi, definisce il loro lavoro “missione”. Forse questo è il momento giusto per avanzare la richiesta. Quella più difficile da… “far passare”.
 
“Dottor Carter…la prego…lo dimetta. Restare qui non lo aiuterà a rielaborare il lutto…”
“Ma c’è pur sempre il trauma cranico…” ribatte lui, coscienziosamente.
“Per questo ho bisogno di quelle ferie arretrate…”
Carter la osserva meditabondo. “Ho capito. Vuole restare con lui…per monitorare la situazione…”
Marin annuisce, grata della perspicacia del suo responsabile.
 
E’ perspicace ma prudente, il dottor Carter.
“Marin…capisco cosa la spinge. Ha un debito di riconoscenza verso Sam…ma sappiamo entrambi che, in questi casi, la persona può avere reazioni molto pesanti e imprevedibili. Non conosco il legame che vi unisce. Non so se eravate intimi…ma sono trascorsi anni, da allora. Probabilmente vi siete persi di vista. Il “Sam di oggi” potrebbe essere molto diverso da quello che l’ha confortata. Dimostra di avere conclamati disturbi del sonno, presenta vaneggiamenti che non sembrano migliorare con la terapia ed è innegabile la sua vulnerabilità psichica. La dinamica dell’incidente è piuttosto chiara. Non c’è nemmeno un segno di frenata…probabilmente è un tentativo di suicidio. Se la frustrazione, la rabbia per la morte del fratello, venisse rivolta non solo verso se stesso…potrebbe diventare molto pericoloso restargli accanto…”
 
“Sam non dormiva da giorni! Era devastato per quella tragica scomparsa inattesa. Ha solo bisogno di tempo per riprendersi. Fuori di qui, tornando a casa propria, con il suo cane, riuscirà a superarla. E poi…glielo posso garantire, Sam non farebbe male a una mosca! Non ho mai conosciuto persona più disposta ad aiutare il prossimo! Può solo nuocere a se stesso…perciò ho bisogno di quelle ferie!” e Carter è colpito dall’enfasi con cui Marin “difende” e tesse le lodi di Sam.
Ma Carter sa che, essere eccessivamente fiduciosi nel prossimo, può portare a conseguenze irreparabili.
 
“Marin… lei era assunta da poche settimane…ha visto cosa è successo alla collega Susan…”
Marin deglutisce. “E’…è una situazione totalmente diversa…”
“Perché lo conosce? Non mi pare sufficiente, Marin. Albert partecipava due volte alla settimana al gruppo di psicoterapia. Da almeno cinque anni. Tutti noi, compresa Susan, lo consideravamo “non pericoloso”. Era scritto nero su bianco, nel suo fascicolo. E’ stato confermato anche dai medici che lo avevano in cura, dal primo insorgere dei sintomi. Credevamo che la patologia fosse stabile, addirittura in regressione. Invece…”
 
Il dottor Carter abbassa lo sguardo. Il tono di voce si fa terribilmente greve.
 
Albert aveva cominciato a dare segni di squilibrio al secondo anno di college e, in rapida escalation sintomatologica, a manifestare deliri persecutori che sfociavano frequentemente in reazioni aggressive e autolesioniste.
Susan aveva meno di trent’anni. Come Albert. Carter aveva notato la spontanea inclinazione verso quel paziente. Forse per età e affinità intellettuale, Susan era decisa a comprendere a pieno il disagio del giovane che, entrato in confidenza, le raccontava del rapporto burrascoso con il padre, rimasto vedovo troppo presto.
Sembrava in un “buon momento”. Ci s’illude di tenere a bada gli spettri…quelli che se ne infischiano dei cerchi di sale.
 
Susan, talvolta, s’intratteneva con lui, alla fine della seduta. Parlavano di poesia e di letteratura citando brani e opere della Dickinson, Neruda, Oscar Wilde…Carter l’aveva messa in guardia ma Susan non presagiva alcuna minaccia, in quelle conversazioni. E, in fondo, i fatti le davano ragione. Mai uno scatto d’ira. Mai un gesto insolito. Mai una parola fuori posto. La terapia farmacologica e il supporto psicologico stavano funzionando al di là di ogni aspettativa.
Era un buon momento.
 
Albert era arrivato per primo, quel giorno, in sala riunioni. Susan stava sistemando le sedie, in cerchio. Si era offerto di aiutarla. Era gentile, Albert. Disponibile con il personale, attento e premuroso con gli altri membri del gruppo.
Era un buon momento.
 
Ma, quando meno te lo aspetti, lo scenario muta. Non è più una savana incantata, dove prede e predatori hanno imparato a coesistere in piena armonia. L’infingarda zampata del leone afferra la leggiadra gazzella.
La voleva. La desiderava. Lei, con quel poco di fiato aggrovigliato in gola, ingabbiato da quelle mani che, fino a poco prima, apparivano così delicate e cortesi, aveva tentato di tranquillizzarlo, chiamandolo per nome… come Carter le aveva insegnato. Un nome…oltre la diagnosi.
 
Era convinta di poterlo riportare indietro. Invece Albert è andato avanti. Non c’è stato soffio per null’altro, neppure per un sottile grido.
Se n’è andata con quel nome sulle labbra, che si son tinte di lavanda.

Un pavimento di laminato verde acqua e, in mezzo a quell’incompleto cerchio di poltroncine écru, una tenera antilope addormentata. Per sempre.
 
“Marin…non posso permettere che la cosa si ripeta. Non posso consentirle di andare, da sola, a casa di un paziente che, in un agitato dormiveglia, impreca contro il demonio!”
Marin tenta di trovare una spiegazione “plausibile”. E’ sempre stata piuttosto “creativa”, nell'inventare bugie o “edulcorare” la realtà. Forse, quella tendenza caratteriale, c’entra con la sua smodata predisposizione per i dolci.
 
“Sam appartiene a una famiglia molto religiosa…sta semplicemente attribuendo la morte del fratello al Male che…che si è abbattuto su di loro…lo so che potrebbe sfociare in un disturbo ossessivo compulsivo di tipo mistico ma… io posso aiutarlo a razionalizzare, ne sono sicura …”
 
Carter la scruta, incerto sul da farsi. “Non è mia abitudine interferire nella vita privata del personale…e tantomeno in quella dei pazienti. Ho visitato giusto ieri, Sam. E concordo con lei…allo stato attuale nulla mi fa ipotizzare un quadro clinico grave, irreversibile. Inoltre non abbiamo una documentazione che attesti un esordio di malattia, precedente all’evento traumatico…tuttavia...anche per le sue condizioni fisiche…”
“Dottor Carter…le prometto che, se Sam dovesse manifestare ulteriori sintomi, o se lo vedessi diventare più nervoso, confuso…l’avviserò immediatamente…”
“Potrebbe non aver il tempo di avvisarmi, Marin…”
“Si fidi di me…Sam non mi farà del male…”
Carter comprende che non riuscirà a farla desistere. Allora tanto vale provare a darle la concreta possibilità di… avvisarlo.

“Vedo che è davvero determinata…in tal caso…” Carter, annota qualcosa su un post-it e glielo porge con fare complice “Questo è il mio numero di cellulare, privato. Per qualsiasi cosa Marin, a qualsiasi ora…me lo promette?”
“Ma sua moglie non sarà gelosa?!” sottolinea Marin, mentre i suoi occhi azzurri indugiano sulla terza fotografia, quella con la cornice in caucciù.
Carter sorride “Se fosse stata gelosa dei doppi turni in ospedale o delle chiamate in piena notte, mi avrebbe lasciato dopo un anno di matrimonio!”
Marin, guardandolo con riconoscenza, ripone il bigliettino nella tasca della divisa.
“Grazie dottor Carter…grazie davvero…”
“Stia attenta e non solo a Sam…anche ai colleghi. Dovendo riorganizzarsi alla svelta per coprire i suoi turni, non credo saranno comprensivi! Al rientro si aspetti musi lunghi e qualche tiro mancino!” stempera il primario, per allentare la tensione.
“Può dir loro che sarò in servizio a Natale e Capodanno, per ripagarli del disagio di questi giorni! Le festività sono sempre un buon “baratto”!” sentenzia Marin con l’espressione di chi “la sa lunga” sul meccanismo dei turni “meno ambiti”.
“Per definire i turni di Dicembre… ne riparleremo. Ora ha ben altro a cui pensare. Vada da Sam e le comunichi la buona notizia.” conclude Carter con tono paterno.
Marin esce dallo studio a passo svelto, quasi per scongiurare la possibilità di un suo ripensamento.
 
Il dottor Carter si augura che, quella ragazza coraggiosa, tra le sue infermiere migliori, potrà “contrattare” con i colleghi, scambiando quella settimana di “pausa non programmata” con la vigilia di Natale in reparto.

Le indagini hanno sollevato l’ospedale da ogni responsabilità. Persino i genitori di Susan, al suo funerale, hanno sottolineato quanto la figlia, consapevole dei possibili rischi, amasse profondamente il proprio lavoro. E’ stata una tragica fatalità. Nessuno poteva prevederlo. I test effettuati su Albert rilevavano una buona risposta al percorso riabilitativo e un’elevata capacità di autocontrollo.
 
Un errore di valutazione commesso da più specialisti diventa una “condanna equamente distribuita”, tradotta in “assoluzione”. Per tutti.
Ma Carter non potrà mai sentirsi “assolto”.
 
Non sopporterebbe “Un’altra Susan”.
Anche i primari di psichiatria possono temere di impazzire…di dolore.
 
Come Sam.
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“Ti dimettono”
Sam sgrana gli occhi mettendosi faticosamente seduto sul letto “Come…come hai fatto?!”
“Semplice…avevo una settimana di ferie arretrate” ridacchia, lei.
“Tu…tu…vuoi dirmi che…” e l’espressione allegra, di poco prima, muta in seccato cipiglio.
“Queste sono le condizioni Sam, prendere o lasciare. Il primario firmerà le tue dimissioni e le mie ferie. In contemporanea. Ti ha affidato a me. Ora…sta a te decidere.” stabilisce Marin, ferma sulle proprie posizioni.
“Va bene…accetto” si arrende Sam.
“Come pensavo. Tra un’ora aspettami all’uscita, il tempo di passare nel mio appartamento e prepararmi un borsone con qualche cambio, per la settimana e…a proposito…hai una stanza degli ospiti?”
“In verità, ho parecchie stanze disponibili…ma credo che, come ho lasciato casa…non ti piacerà…”
“Eri denutrito e disidratato…dubito che troverò cartoni di pizza e lattine disseminate sul pavimento!”
“No…troverai decisamente di peggio…” ammette Sam, passandosi una mano sul viso, ricordando gli escrementi di Miracle.
“Ok…ok…vorrà dire che daremo una sistemata ma non farci l’abitudine eh?! Infermiera a domicilio mi sta bene ma scordati che ti faccia da colf!” borbotta lei.
“Grazie, Marin…”
 
Marin guarda quegli occhi umidi e stanchi. Non può essere pericoloso. Non Sam.
Il dottor Carter non verrà svegliato nel cuore della notte.
 
Non ci sarà “Un’altra Susan”.
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“Oh…accidenti Sam! Intendevi questo?!” e Marin si tappa il naso, avanzando con riluttanza.
“Carino qui…certo, ci fosse qualche finestra, non sarebbe male…” constata, guardandosi intorno.
L’odore penetrante di urina e feci, al chiuso del bunker, ha generato una sorte di invisibile “nube tossica”.
“Lascia…ci penso io…” si affretta a rispondere Sam, mortificato.
“No…lo faremo insieme, procurami sacchi dell’immondizia, stracci e detersivi. Te l’ho già detto, non sono schizzinosa!”. Sam obbedisce, sperando che Miracle, in quei giorni di totale “abbandono a se stesso”, abbia avuto almeno l’“accortezza” di prediligere gli angoli più… “in vista”.
 
Marin, mentre ripulisce piastrelle e battiscopa, canticchia, suscitando l’affascinato stupore di Sam.
“Come fai?!”
“Be’…passo il panno avanti, indietro e…” risponde lei, perplessa.
“No…intendevo…come fai a canticchiare in una situazione così assurda?! Tra cacca e pipì di cane e in compagnia di uno che pare uscito da un film di Hitchcock?!”
Marin esplode in una fragorosa risata “Oh be’…quando sei abituata a pulire quella di esuberanti stalloni, questo e niente! E poi tu…non sei tanto male come Norman Bates! “Parli” con Lucifero…ok…ma ricordo una paziente che, ogni notte, convinta di essere Jodie Foster, colloquiava amabilmente con Hannibal Lecter e credimi…erano dialoghi piuttosto inquietanti! Le tue chiacchierate con Satana, a confronto, sembrano il tè della domenica pomeriggio!”
 
Sam scoppia a ridere “svelando” quelle fossette appena accennate, che lo fanno apparire più giovane. E’ la prima volta che riesce davvero a ridere da quando Dean…
per un attimo si meraviglia di esserne ancora capace.
 
Riordinando le carte, sparpagliate tra secchio e strofinacci, Sam raccoglie la preziosa pergamena “salvata in extremis” dalla scia color paglierino di Miracle. La traduzione è completamente sbiadita, irrecuperabile però l’originale è spiegazzato ma integro. Sam può ricominciare da capo. E ricomincerà… da capo. Qualche frase la rammenta. Sarà meno arduo ricostruire i passaggi del rituale.
 
Un Dean non Dean. L’unica soluzione possibile. Miracle dovrà rassegnarsi. Come lui.
 
Come Dean stesso.
 
“E questo reperto degno del Museo di Storia Naturale di New York, cosa sarebbe?”
“Questo…questo è il biglietto di ritorno per Dean…” esclama Sam, fissando l’incartapecorito papiro.
 
Marin, sforzandosi di mantenere un’espressione il più possibile neutra, riprende a strofinare energicamente il parquet.
 
---
 
“Wow…hai un frigo decisamente vuoto!”
“Era Dean quello che si occupava della spesa. Lui era una buona forchetta…”
“Al contrario di te…”
“Al contrario di me…” conferma Sam, non staccando gli occhi dalle pagine che ha ripreso a riempire, con calligrafia svelta ma comunque leggibile.
“Bene…allora credo che andrò a comprare qualcosa…cheeseburger, birra e il dessert, ovviamente. Che ne dici?”
Sam tace, non distogliendosi dal proprio lavoro.
“Perfetto…lo prenderò per un sì…” sospira Marin, facendo spallucce e salendo le scale. Una volta giunta davanti alla porta d’uscita lo scruta, con crescente apprensione. Dall’alto è una scena piuttosto sconcertante.

La fronte madida, i lunghi capelli che avrebbero bisogno di uno shampoo, la mano che, febbrilmente, continua a scrivere. Gli ricorda vagamente Russell Crowe in “A Beautiful Mind”. Al posto dei numeri...parole.
 
Marin stringe tra le mani il riferimento del dottor Carter. Una sequenza di numeri. Forse dovrà comporla. Per avere la meglio sulla... “sequenza” di parole.
 
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“Ora basta… vieni…a mangiare…Sam”
Nessuna risposta.
“Sam!”
Nessuna risposta.
“Dannazione, Sam!” e Marin gli si avvicina afferrandogli il polso della mano ormai indolenzita. Sam ha un sussulto come se si riprendesse da uno stato di trans.
“Scusa…scusami…”
Marin alza gli occhi al cielo “Scuse accettate ma ora smettila di giocare a Indiana Jones e sforzati di mangiare qualcosa…”
 
Sam in meno di cinque minuti termina la sua cena, alternando sproporzionati bocconi di panino a sorsate di birra, per favorire la masticazione. Pensa che Dean riderebbe di tanta voracità. Solitamente èera lui ad addentare i cibi con un’ingordigia sconosciuta a Sam.
 
“Ti va una fettina di torta?”
“No...no sono a posto…grazie…” risponde educatamente Sam, inghiottendo l’ultima foglia di lattuga con cui sta per strozzarsi.
“Certo…sei…a posto…” ironizza Marin, vedendolo nuovamente chino sulle carte, ma Sam è troppo preso per cogliere il tono di scherno.
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Marin, dopo aver riassettato la cucina, tira giù una lista della spesa, nell'intento di "far scorta” per la settimana. Nella dispensa, elencando i vari acquisti da fare, trova un foglietto con su scritto “sandwich, cereali, latte, crostata”…non è la calligrafia di Sam. Ormai, quella, la riconoscerebbe ovunque.

Avverte un groppo in gola, ripiegando il bigliettino con cura, per non “profanarlo”. Se Dean non dovesse “tornare”, se Sam si sbagliasse…Marin sa quanto potrebbe essere importante, quella…lista.

Per Sam.
 
Poi, dopo aver inviato un paio di SMS a Holly, avvisa con un vocale Paul. Domani andranno a prendere Miracle. Marin spera che, quella fedele palla di pelo, riesca a distrarre Sam. Forse Miracle riuscirà a catturare la sua attenzione…lei ormai ci ha rinunciato.
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“Dove posso sistemarmi per la notte?”
“Dove vuoi…”
“Ok… chiaro…domanda stupida. Non scomodarti a farmi fare il giro della casa e se, domani mattina, non dovessi presentarmi per la colazione, cercami in qualche botola o passaggio segreto…”
“Eh? Cos’hai detto? Puoi ripetere, per favore? Non stavo ascoltando…”
Marin scuote la testa, rassegnata. “Niente Sam…non fare caso a me… mi arrangerò…”.
...
 
Marin si aggira con circospezione nei corridoi del bunker. Le porte sono semi-aperte. Entra in una stanza a caso. E, per una manciata di secondi, trattiene il respiro. E’ la sua stanza. Lo capisce dalle ciotole in ferro, ai piedi del letto. Miracle…era il cane di Dean.

Il copriletto sistemato di fretta, gettato svogliatamente sul lenzuolo. Un tocco "personale", con quelle armi appese alla parete quasi fossero trofei. I vestiti sparsi qua e là e qualche bottiglia di birra su comodino e tavolino. E' una camera "cristallizzata",  che "attende" il suo proprietario.
Come se dovesse rientrare, da un momento all’altro, da una passeggiata con Miracle.
 
Marin si siede sul letto, chiude gli occhi e, accarezzando la coperta, può sentire l’odore di Dean. E il dolore di Sam… e il suo per Joshua. Due dolori che si compenetrano, si riconoscono, si uniscono.
 Marin distingue quella stilettata. Il cuore che si spacca a metà. Lei sa cosa vuol dire sentirsi spezzata. Una fitta che ti serra le mandibole e non risparmia neppure una molecola di te.
Marin, d’istinto, intreccia le mani e inginocchiandosi ai piedi di quel letto disfatto, con i gomiti appoggiati sul plaid color salmone…inizia a pregare.
 
Prega perché Dean possa riparare Baby, trovando da ridire sulla mancanza di precisione di Mark.
Prega perché Dean torni a riempire di croccantini le ciotole di Miracle, “rivendicando” il suo ruolo di “capobranco”.
Prega perché Sam  “smetta di scrivere” e Dean possa “continuare a scrivere”…la lista della spesa.

Marin prega per Sam ed è un po’ come pregasse per sé stessa.
---
 
Sono le quattro del mattino quando Marin, che si è sistemata nella stanza che ospitò Mary, si sveglia di soprassalto, per il trambusto proveniente dal salone. Si alza e, senza perdere tempo a indossare le pantofole, percorre il corridoio di corsa, a piedi nudi. Arriva nella sala trafelata, intravedendo l’ombra di Sam a terra. Gli si avvicina e, per deformazione professionale, tasta immediatamente il polso. I battiti sono accelerati e Sam sembra riaversi da uno stato d'incoscienza. Ha gli occhi gonfi, pesti.
“Sam! Cos’è successo?!”
“Mi…mi dispiace averti svegliata…sono…sono inciampato come uno sciocco…” e Sam, rialzandosi grazie al suo aiuto, s’appoggia al tavolo, sommerso di appunti.
Marin lo guarda con disapprovazione “Sam, non sei inciampato…dimmi cosa è successo veramente o giuro che ti carico di peso in auto e torniamo in reparto! Arriverai giusto in tempo per la colazione: sciape gallette in annacquato caffelatte!”
Sam deglutisce, massaggiandosi le tempie, trattenendo un conato. E’ bianco come un cencio e suda freddo. Marin, aiutandolo a sedersi, riformula la domanda “Sam…sei svenuto, vero?” e Marin non fa nulla per nascondere quanto consideri superflua la risposta.
“Non è niente…solo…solo un po’ di emicrania…” tergiversa Sam, ansante.

Marin lo accompagna al divano e Sam la segue come un cieco in un ambiente totalmente ignoto, privo di riferimenti. La luce delle lampade è abbagliante. Quasi quanto i… “fuochi d’artificio” nella sua testa.
“Sam…smettila con questa dannata formula! Lo so quanto sia importante per te ma non credo che un giorno in più possa cambiare le cose, per Dean!”.

Per Dean forse no ma per Sam sì. Dean potrà anche “riposare” ma Sam vuole svegliarsi.

La caccia era finita, "i cattivi" vinti e lui pensava che, dopo aver riportato in salvo i bambini, sarebbero tornati al bunker. Dean avrebbe stappato un paio di birre, lanciandogliene una, così, per gioco, per controllare i suoi riflessi. Lui, di rimando, avrebbe preso in giro il maggiore ricordandogli che in realtà, il “vecchietto” di casa, non era certo lui. Poi, vedendolo navigare online, in cerca di un’altra sagra di torte, si sarebbe divertito nel cogliere l’espressione d’estasi dipinta sul volto di Dean, “rapito” dalle immagini di prelibate ghiottonerie.

No…

nessuna risata, nessuna birra presa al volo, nessuna immagine a tutto schermo di zuccherosi e morbidi dischi di panna. E’ stato incubo. Continua ad esserlo.
Anche un giorno in meno nella notte può contare molto. Non per Dean che forse è già passato oltre, ignaro dei suoi perigliosi progetti…

per Sam.

“No...no…solo un paio di frasi…ancora…”.
“Sam…devi riposare e farti una doccia…o finirai con il puzzare più del pavimento che abbiamo ripulito!” e Marin pare non voler scendere a patti.
Sam abbozza un sorriso esausto. Forse Marin ha ragione, forse, può ancora sopportare un giorno nell’angoscia, se questo può tenerlo lontano da chi, non conoscendolo come lei, decreterebbe la sua condanna, Schizofrenia…una diagnosi inappellabile, da annotare in cartella, con il beneplacito di Lucifero che, per l’occasione, indosserebbe camice bianco e finti occhiali “di scena”.

“Ok…ok, ricevuto…riposo e doccia…grazie Marin…”
“Finiscila di chiedermi scusa o di ringraziarmi. Non mi pento di essere qui, ho deciso io di esserci…ma tu devi prenderti una pausa o sarà tutto inutile, Sam. Ti prego, ascoltami o dovrò davvero farti ricoverare…” Marin usa un tono persuasivo, pacato. Con il pollice gli sfiora delicatamente l’arcata sopraciliare sinistra e Sam avverte la nausea diminuire. I ferri aguzzi che trapanano le meningi smettono di roteare e lo stomaco non pare più così in subbuglio. Per Sam quel tocco lieve è affinità, è sintonia, è armonia.

“No…niente ospedale, per favore…prometto che ti…ti ascolterò…ti ascol…” e Sam, si crogiola in quella carezza che è… quiete.

Sam si addormenta. E stavolta Marin sa che la “voce” sarà messa all’angolo. Non disturberà quel meritato sonno. Anche la voce…riposerà.
---
“Dean…mi dispiace che Sonny non abbia potuto vederti…gli avrebbe fatto piacere. Gli dirò che sei passato…”
“Grazie…avrebbe…avrebbe fatto piacere anche a me salutarlo.” ammette Dean, schietto.
“Potrebbe essere una buona ragione per tornare …” propone Robin, con voce speranzosa.
“Giusto…sarà…sarà per la prossima volta” e la voce di Dean s’inclina. Sa bene che non ci sarà una “prossima volta”.
Poi rivolgendosi a Timmy gli raccomanda “Prenditi cura di tua madre e, anche se continuerai a dare la caccia a quella Baba Yaga…stai attento e tieniti lontano dai guai, intesi?!”
“Farò del mio meglio signo…volevo dire…farò del mio meglio Dean!”

Timmy, che di coraggio ne ha da vendere, cerca quel coraggio. Quando sei di fronte al tuo eroe, pare che le parole restino impigliate tra cuore e gola. E non conta nulla essere arrivato primo alla gara di sillabazione!
Ma non sa quando e se lo rivedrà. Dean deve andarsene sapendo cosa rappresenta per lui. In parte glielo ha già detto ma Timmy è certo che, con quel paragone, comprenderà davvero. Potrebbe aiutarlo con i “cattivi”, sostenerlo nei momenti difficili, dandogli la forza e la prudenza necessarie per…tornare.

“Dean…tu…tu resterai sempre il mio “Dean-spaccamostri”…” esordisce Timmy e, dietro le spessi lenti, scorgi un luccichio particolare.
Dean lo tira a sé, trasformando quella stretta di mano “da uomo”, in un abbraccio che vorrebbe poter prolungare. All’infinito. Ma, come direbbe Delia…il tempo di Dean…è finito.
Quando Dean sta per incamminarsi Robin lo richiama “Dean…aspetta!”. Gli si accosta, baciandolo sulla guancia, aggiungendo “In primavera qui c’è la settimana Country…si alternano diversi musicisti locali che suonano a livello amatoriale…mi esibisco anch’io!” precisa con un pizzico di orgoglio. “Se…se ti ritrovassi da queste parti, in quel periodo…be’ potresti pagare il “tuo debito” Dean!”.
Dean deglutisce. “Sarebbe…sarebbe bello, Robin…ma…”

Vorrebbe essere sincero, dirle che, in primavera, lui sarà polvere, spera di essere polvere. Ma non se la sente di deluderla. Una bugia “bianca”. Come quelle che Delia non sa raccontare ma che, per sua stessa ammissione, vorrebbe esser capace di dire. E allora, lui che è sempre stato il “re delle frottole”, perché non può far credere a Robin che quel ballo “negato”, rimasto “in sospeso” nella loro adolescenza, prima o poi, ci sarà?
“Ma…che ne diresti di un lento?” e Dean sfodera il suo sorriso da affascinante mascalzone. Gli riesce ancora.

Anche da “semi-zombie” gli riesce ancora…

“Direi che sarebbe perfetto, Dean…” e Robin sorride, sorniona.
---
“Sai che ci sono brani country squisitamente romantici e lenti, Dean?” lo stuzzica Delia.
“Puoi almeno risparmiarmi la tua ironia, Delia?! O anche questo è chiedere troppo?!”
“Fammi divertire ancora un po’…siamo alla fine del viaggio, Dean”
Dean corruga la fronte, speranzoso “Vuol dire che…che finirà?! Che passerò il Velo?!”
“Te l’ho già detto…sceglierai Dean…ma non sarai il solo a scegliere…”
“Ma io ho già…” e la voce su “scelto!”, inspiegabilmente, cala di un tono.
“Bene…allora un’ultima tappa e poi…anima e corpo si uniranno, Dean. E a quanto pare, sai già chi prevarrà.”

Dean, annuisce, senza spavalderia alcuna, immobile. Ormai avvezzo a quella modalità di “teletrasporto”, resta in attesa di uno schiocco di dita che non tarda ad arrivare.
---
Una casa. Un’altra. E’ una villetta su due piani, con un giardino ben curato, gli infissi in stile inglese, il tetto in tegole scure e un patio dove, tra le rose bianche, trovano posto un dondolo e due sedie in vimini.

“Chi…chi devo incontrare, questa volta?” domanda Dean, curioso, fissando il portoncino blu.
“La regola è sempre la stessa, Dean” e Delia, con l’affusolato indice, gli mostra il campanello.
Dean, indispettito ma senza obiettare, preme il pulsante.

La porta si apre e Dean scorge una donna anziana. Non ci vuole molto perché la “metta a fuoco”, facendola riemergere dalla memoria.

Quando si ha poco più di vent’anni chi ne ha poco più di cinquanta pare… “decrepito”. Oggi può essere decisamente più “obbiettivo”. Non gli sembra più così vecchia…gli anni sono passati…anche per lui. Si cambia prospettiva. Decisamente.

“ Sei proprio tu?!” e la donna, uscendo, l’abbraccia. Un abbraccio vigoroso, sincero, inaspettatamente accogliente.
A quanto pare anche lei si ricorda di lui e Dean si domanda perché non gli abbia sbattuto la porta in faccia. Perché non gli abbia inveito contro, schiaffeggiandolo, augurandogli la morte, non sapendo che, qualcuno, ha già provveduto a “far giustizia”.

Sono passati quasi quindici anni. Forse ha fatto pace con quel dolore. Ma si può davvero “fare pace” con l’ingiusta perdita di un figlio?! E quando ti ritrovi faccia a faccia con chi, seppur in modo indiretto, te lo ha portato via…come puoi resistere alla tentazione di infierire su di lui?

“Dean, caro, entra! E’ il Signore che ti manda!”
Dean vorrebbe rispondere che non è Jack l’artefice di quella visita insolita ma…non ne vale la pena. Sarebbe un’inutile precisazione da “addetti ai lavori”.

Dean avanza, con cautela, seguendo la donna che si muove  appoggiandosi a un bastone. Un corridoio bianco che sa di Paradiso. Dean la riconosce, in quei rettangoli che si alternano, spezzando il candore della parete. I capelli biondi, le occhiaie scure, il sorriso fiero di chi deve aver lottato. Fino all’ultimo.

Layla.

Nelle ultime immagini appare profondamente invecchiata. Irriconoscibile. I capelli corti, radi, scavata ma il sorriso…è intatto. Il sorriso di chi crede…fino all’ultimo.
“Signora Rourke, mi…mi dispiace tanto per Layla…”
La signora Rourke si volta. Quelle “scuse tardive” non mutano l’espressione del viso che si mantiene ostinatamente sereno e allegro “E perché dovresti dispiacerti Dean?! Tu sei stato il suo angelo. Lei ha sempre creduto che tu…fossi un angelo…e ora, l’averti qui…me lo conferma. La mia Layla ci aveva visto giusto!”
Dean è sbalordito da quell’affermazione. Adesso è tutto chiaro.

Delia l’ha condotto in quella casa, colpita da una tragedia che il tempo non può lenire, per mostrargli che un lutto simile può farti perdere la ragione. Sam potrebbe impazzire e trovarsi a vaneggiare, come la madre di Layla che ancora non si è rassegnata alla terribile perdita. Ma, per quanto il legame con Sam sia forte, suo fratello ha tutta la vita davanti. Può sposarsi, avere dei figli…non resterà imprigionato in quel…fienile. Andrà avanti.  Sarà marito. Sarà padre. Sarà ciò che Dean non potrà essere.

“Signora Rourke…non capisco cosa intenda…io…sono Dean Winchester, si ricorda di me? Ci siamo incontrati dal reverendo Roy…Roy La Grange il…il guaritore…” e Dean deglutisce nel definire “guaritore” quel pover’uomo che, convinto di fare del bene, in realtà, “barattava” una vita con un’altra.
“Ma certo che mi ricordo Dean! Ed è lì che Layla ha compreso che tu eri il suo angelo!” insiste l’anziana signora, per nulla smarrita.
“Continuo…continuo a non capire…”
La signora Rourke si sofferma davanti a una di quelle foto, sfiorando il viso della figlia. “Al ritorno a casa era felice, fiduciosa, distesa…mentre io ero…ero distrutta dalla consapevolezza di ciò che mi sarebbe toccato. L’avrei vista morire. Piano piano.”
“Signora Rourke…io…” e Dean, sempre più abbattuto, vorrebbe trovare parole di conforto, di consolazione. Ma ogni frase gli sembra inopportuna.
“Dean…dimmi…hai pregato per lei, vero?”
Dean è spiazzato da quella domanda, tuttavia sa cosa rispondere.
“Io…io…be’…sì…ho pregato per lei…”

Non è un caritatevole ed empatico tentativo di non contraddire la donna.
Dean ha pregato per Layla.

Dean ha passato molto tempo a sentirsi responsabile di quella “mancata guarigione”. Era stato “scelto” da Roy, in qualche modo “rubando” quel posto che, di diritto, sarebbe toccato a lei. E dopo…se solo avessero aspettato a smascherare la moglie del pastore…oggi la signora Rourke non accarezzerebbe quelle foto con aria trasognata e adorante. E’ vero, un’altra vita sarebbe andata perduta e, probabilmente, Layla avrebbe portato per sempre il peso di quel rimorso. Ma, del resto, perché avrebbero dovuto rivelarglielo? Dean era stato guarito. Qualcun altro era morto “al posto suo”. Non avrebbe potuto essere così anche per Layla?

Invece…a lei è toccato un “miracolo interrotto”. Da Dean.

Chi era lui per decidere “chi poteva vivere”?! Come disse la signora Rourke, allora “Cos’hai tu più di mia figlia per meritarti di vivere?!

Nulla. Dean, oggi, saprebbe come rispondere. No…non meritava di vivere, non aveva nulla di speciale, se non un destino segnato tra Inferno, Purgatorio e un Paradiso dominato da dittatori egocentrici, che giocavano a bowling con una Terra vulnerabile, sempre in bilico tra un burrone e l’altro.

Era semplicemente un “cacciatore di mostri”… costretto spesso ad essere “più mostro” delle stesse creature che cacciava.
Layla avrebbe potuto essere molto più di questo. Molto più di lui.

Dean ha pregato, perché quei mesi fossero un’esaltante “somma” di luce e non frustrante “conto alla rovescia”, in attesa del buio.
Ha persino creduto che potesse guarire…povero sciocco! Si dichiara senza fede e poi…confida nell’impossibile!

“Ma…non è servito a molto…” afferma avvilito.
Le labbra della signora Rourke si distendono “Oh Dean…le tue preghiere sono arrivate al Cielo! Lei ha vissuto intensamente, completamente!”
“Era…lei era così giovane…per quanto possa aver affrontato tutto con la volontà di non farsi abbattere, in sei mesi…in appena sei mesi…” e Dean si maledice per essersi abbandonato a quella riflessione ad alta voce.
“Sei anni, Dean…Layla ha vissuto per sei meravigliosi, straordinari, incredibili anni…” lo corregge, commossa, la donna.
Dean sobbalza, confuso.
“Ma come…com’è possibile?! Avevano detto che il tumore era inoperabile…”
“Infatti lo era Dean, ma ti ripeto, Layla aveva una tale energia, una tale carica. Continuava a ripetermi che le vie del Signore sono infinite e che avrebbe vissuto ogni giorno con gratitudine, rendendolo unico e speciale.” E la donna si siede sul divano, riprendendo fiato.  Poi, con gli occhi pieni, prosegue nel suo racconto.

“Quando mi parlò di quel corso di cucina trovai l’idea grottescamente ridicola! Mai avrebbe provato il piacere di cucinare per un marito, per un figlio! Ma lei si iscrisse ugualmente, nonostante i miei rimbrotti. Matthew era uno dei partecipanti. Lo chef tirò a sorte, per stabilire le coppie che avrebbero dovuto collaborare, per quella prima lezione. Prepararono un dolce. Insieme. Una mousse…si sono innamorati…a prima vista. Nessuno avrebbe mai accettato di operarla. Troppo rischioso. Ma lui, giovane e già affermato neurochirurgo, mettendo a repentaglio la propria carriera, impugnò il bisturi con il piglio del guerriero valoroso, pur sapendo che il Male non si sarebbe fermato. Una tregua. Una battaglia vinta. Questo sarebbe stato. La guerra aveva un esito già scritto. Matthew sapeva che l’avrebbe persa. Lo sapevano entrambi. Ma quel “tempo”, quella “tregua”, Dean…è stata luce e inestimabile pace!” e la signora Rourke si alza dal divano e, prendendo una cornice dal mobile del salotto, gli mostra una foto, una bambina bionda, con gli occhi color nocciola.
“Lei è Faith.  Aveva quattro anni appena quando…eppure ha ricordi nitidi di sua madre. Non sembra vero quanto un figlio, a quell’età, possa rammentare in modo così preciso chi l’ha lasciato troppo presto!”

Dean deglutisce. Quattro anni di Mary. Quattro anni di Layla. Sì…può confermarlo, può comprendere che Faith ricordi perfettamente il profumo, la voce, le carezze di sua madre.
“Io…io sono così…così felice che lei abbia…abbia potuto vivere abbastanza da…”
“Ha sempre pensato che fosse merito tuo.”
“Cosa?! Merito mio?! No…io non c’entro assolutamente nulla con tutto questo…” disconferma Dean, sbigottito, agitando nervosamente le mani e scuotendo il capo.
 
“Hai pregato Dean…”
“Certo ma…”
“Quando qualcuno prega per te, non importa se credente o ateo…quell’amore “arriva”, Dean…lei era convinta di questo. Non so quanto abbia contato la casualità, quanto ciò che abbiamo vissuto sia stato “miracolo” o fortunata coincidenza ma so che Layla, fino all’ultimo istante, ha pregato per me, per la sua famiglia e…per te…Dean.”

Dean avverte un buco in pieno petto. E non è certo che sia quella ferita che “non si vede”. Un cuore che, a questo punto, non dovrebbe più battere, scalpita come cavallo indomito.

Lui ha pregato per Layla.
Layla ha pregato per lui.

“Io…io posso…posso sedermi un attimo?”  e quella richiesta è poco più che un sussurro. “Certo…certo Dean…” e Dean si lascia andare sulla poltrona in tessuto floreale. Ora non gli pare più tutto “bianco Paradiso”. Dean si sofferma sul rivestimento variopinto del divano, sul vaso di orchidee, al centro del tavolino in mogano, su quella parete carta da zucchero dove trova posto una lavagnetta su cui, la signora Rourke, annota l’agenda settimanale di Faith… “dentista”, “lezione di danza”, “festa di compleanno di Wendy: comprare regalo!”

“Vuoi un bicchiere d’acqua?” propone la donna, vedendo Dean visibilmente scosso.
“No…no…sto bene…”

In quel momento la porta d’ingresso si spalanca. La ragazzina entra con passo pesante, posando pigramente zaino e libri sul pavimento. “Uff…che fatica! Oggi l’interrogazione di storia è stata interminabile! La professoressa Anderson continuava a farmi domande! E meno male che ieri papà mi ha aiutato a ripassare! Cosa c’è per merenda, nonna? Sto morendo di fame!”
“Pane e burro di arachidi? Può andare?”
“Ti adoro!” e in quell’istante Faith si accorge dell’ospite. “Oh…buongiorno…” saluta garbatamente.
La signora Rourke scruta per un istante Dean, poi osserva la nipote. Potrebbe tacere. Potrebbe inventarsi un nome. Potrebbe presentarlo come un piazzista di prodotti per il giardinaggio…ma perché rinunciare alla possibilità di “materializzare” il protagonista della “favola della buona notte”, raccontata da Layla?

“Cara…lui …lui è Dean…”
Dean guarda smarrito entrambe ma non fa in tempo ad avere una reazione qualunque che la ragazzina gli corre incontro, buttandogli le braccia al collo, come se fosse uno zio che non vede da un paio di settimane e alla quale è legatissima.

“Davvero?! Tu sei “l’angelo della mamma”, sei davvero tu?!”
Dean non sa cosa rispondere. “Io…io ero un amico della mamma…” biascica.
“Ok…ok va bene, lo posso capire. Gli angeli viaggiano in incognito e non si possono svelare al primo venuto! Amico…certo! Amico è perfetto!” ribatte lei, senza scomporsi.

Quando Faith si dirige in cucina, pronta a divorare il suo panino, la signora Rourke prende la parola. “Layla ha voluto raccontarle la “loro” storia, partendo da te. Dal vostro incontro, da quel giovane che, forse inconsapevolmente, le ha fatto ritrovare la fede. Ha pensato che per Faith sarebbe stato di conforto credere in una sorta di “angelo di famiglia” che, in qualche modo, ha permesso a sua madre di metterla al mondo. Ho agito d’istinto. So che può apparire azzardato, la stramberia di una vecchia, presentarti come Dean, sapendo “cosa” quel nome rappresenti per la bambina. Ma in fondo, per Layla, per noi…sei stato questo Dean…un angelo, “indossato” da un uomo!”

Dean sospira. Pensa a quanto sia straordinaria l’intera situazione. Pur non sapendo praticamente nulla del “loro mondo”, Layla ci è andata inspiegabilmente “vicino”.

Jimmy Novak era un uomo. Un uomo devoto che si è fatto tramite. Per Castiel.
E Castiel…era un angelo…che si è fatto “umano”, attraverso l’amore che ha provato per lui e per Sam.

L’amore di una preghiera.
L’amore di un sacrificio.
L’amore che genera amore…anche se non lo sai. Anche se “non credi”.

Le preghiere di un ateo possono volare alto. Molto più di quanto immaginiamo.
---
Quando si congeda dalla signora Rourke lei lo abbraccia con la stessa intensità di quando lo ha accolto.
“Abbi cura di te, Dean.”
Dean fa un cenno con il capo, abbozzando un mezzo sorriso. Scende i gradini di casa e la ragazzina lo raggiunge di corsa.
“Ehi, Dean…volevi andar via senza salutarmi?!”
E quella frase lo colpisce nel profondo, ricordandogli quella sua pessima abitudine. Andar via…senza salutare.
“No…certo che no…” e Dean si china per rendere più facile quel saluto. Faith gli sussurra all’orecchio “Il tuo segreto è ben custodito. Non lo dirò a nessuno che sei un angelo ma adesso ti svelo il mio segreto: ogni notte, prima di dormire, prego per te, Dean. La mamma mi ha detto che qualcuno avrebbe dovuto continuare a farlo, al posto suo.”
“Grazie…grazie, Faith …”

Dean lancia ancora una rapida occhiata a nonna e nipote. Due figure che si sostengono, l’un l’altra, immerse in una nuvola di rose.
S’incammina senza meta, avvertendo i loro sguardi affettuosi sulle sue spalle ricurve. Rallenta, per godersi a pieno quella tenera attenzione, fin quando, in lontananza, non ode chiudersi il portoncino blu.

Procede a passo lento, in attesa che Delia sbuchi fuori da una siepe, per condurlo alla…fine.

Poi si ferma, riflettendo.

Lui che è stato torturatore di anime sottoposto di Alastair, Demone al soldo di Crowley e custodia di un Arcangelo sterminatore… per Faith è un angelo.
Un potente, benevolo, serafico angelo.

Faith prega per lui.
Ogni notte.

Una lacrima scivola lungo la guancia piacevolmente rosea, tiepida.

Viva.

 
 
   
 
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