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Autore: theGan    23/12/2022    3 recensioni
Genzo Wakabayashi non aveva pianificato di farsi mordere da uno zombie questa mattina.
La AU con meno calciatori e più Apocalisse Zombie che nessuno aveva chiesto.
Genere: Angst, Avventura, Hurt/Comfort | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Shonen-ai | Personaggi: Genzo Wakabayashi/Benji, Hermann Kaltz, Karl Heinz Schneider, Kojiro Hyuga/Mark, Taro Misaki/Tom
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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* narrazione non lineare (salti temporali).

* angst (è pur sempre un’Apocalisse Zombie).

 


 

- 2 Il cane.

 

 

L’origine del virus è oggetto di dibattito nelle aree “sicure” dove le quarantene hanno funzionato. Tutti concordano che il suo epicentro siano stati gli Stati Uniti una decina di anni fa.

Alcuni ritengono si sia trattato di un’arma biologica andata fuori controllo. Altri sostengono di avere le prove sia tutto partito da un vaccino per l’influenza studiato dall’Università del Colorado. Quelli più divertenti dicono che l’area 51 sia stata aperta e che il virus venga direttamente dallo spazio profondo.

Poi ci sono le sette o, peggio ancora, quelli disposti a giurare che l’epidemia non esista e che il tutto sia una montatura di televisione e governo. Forse sono gli stessi che forzano le quarantene e causano la diffusione incontrollata di varianti pericolose.

A quindici anni Genzo Wakabayashi ha una salute di ferro e gli unici zombie a preoccuparlo sono quelli di libri e film. Però è contrariato. DANNATAMENTE contrariato: lui a New York non ci voleva andare. Shuuichi, il maggiore dei suoi fratelli, si sposa con un’americana e tutta la famiglia Wakabayashi è coinvolta in una lunga gita fuori porta.

Il virus già esiste.

Dicono sia una forma rabica particolarmente aggressiva caratterizzata da febbri altissime e spasmi violenti. Si diffonde al contatto della saliva infetta con il sangue, interessa solo i roditori, ma casi sospetti in altri animali di piccola e media taglia iniziano a conoscere, timidamente, la luce della ribalta. Nessuno parla di un possibile salto dall’animale all’uomo. Strutture contenitive, approntate per l’emergenza, si assicurano che ciò non accada. Il governo americano sosterrà di non aver saputo della loro esistenza.

La segretezza ha in germe la miccia che fa saltare la polveriera.

Ad una settimana dall’arrivo della famiglia Wakabayashi al completo, un focolaio altamente controllato scoppia a New York. Una massiccia disinfestazione ne argina le conseguenze.

Nessuno degli operatori ecologici, degli infermieri, della manovalanza pagata ad ore per ripulire le strade sa che il problema si estende oltre ai semplici ratti. Il genio esce e non lo rimetti in bottiglia.

A ventidue anni Genzo tocca la carne bianca del braccio sollevata nel fantasma di un morso e si domanda come sarebbe stata la sua vita se i suoi genitori fossero stati un po’ meno intransigenti, se, come avevano fatto milioni di altre volte, lo avessero lasciato a casa. Ma a quindici l’unico chiodo fisso è il fastidio: il matrimonio dura da nove ore.   

Non era stato tutto da buttare e a Genzo piace avere una scusa per vestirsi formale. Shuuichi aveva provato a convincerlo che i papillon fossero superiori alle cravatte e il futuro sposo aveva mostrato notevoli riflessi schivando il successivo calcio. Shuuichi aveva riso, accettato la sconfitta e si era vendicato scompigliandoli i capelli. Genzo lo vede sì e no sei volte l’anno, non c’è bisogno di tutta questa famigliarità. Però era stato piacevole. Almeno fino a quando una delle tipe ingaggiate dai suoi non aveva sospirato, preso il gel e proceduto a incollargli i capelli al cranio. Genzo si sente ridicolo. È probabilmente ridicolo.

La cerimonia si era tenuta all’aperto ed era stata interminabile. Ad un certo punto la sposa era proprio sparita e si era iniziato a temere una riproposta del disastro di qualche anno fa. A trattenere Skylar non era stata una tresca col sacerdote, ma un semplice tacco rotto. Noia. Terminato il corredo delle congratulazioni e dei genitori che piangono era iniziato il teatro delle foto nuziali. Altre due ore e Genzo pensa che la faccenda possa dirsi archiviata. E invece no.

C’è il pranzo (alle sedici è ancora pranzo?), un susseguirsi infinito di portate millesimali di una robaccia moderna e immangiabile. Eiji promette:

- Coraggio, ci rifacciamo con la torta.

Non si rifanno di niente. L’ex fidanzata, ora moglie di suo fratello è una di quelle starlet salutiste contrarie alla felicità a tavola. La torta è una roba scura che sa di cracker, i fiori di pasta di zucchero lasciano il posto a sedano e carote. Genzo non pensa di essere l’unico commensale del circo ad alzarsi da tavola più vuoto di quando si era seduto.

Ora, Genzo non si considera un mostro di socialità, ma è bravo a gestire le persone. Quando la compagnia è buona ci potrebbe sguazzare per sempre. Gli ospiti che infestano il salone da ballo del Twin Lakes Golf&Country Club sono un circuito di idioti dispersi in capannelli di misura variabile come macchie d’olio sull’acqua. Estranei provvisti di un figlio, un cugino, di un amico di un conoscente che concorre al senato, che dirige questa o quell’altra grande azienda. Pesci rossi convinti che il cannibalismo li renda squali.

Fa un caldo insopportabile.

Genzo è il più giovane degli eredi Wakabayashi e nessuno si interessa a lui tranne sua madre e Anna, la damigella della sposa che ha messo gli occhi su Eiji (o sui suoi soldi) e non lo molla un secondo. Tra poco scoppia. Sua madre lo agguanta per un braccio, identifica i livelli di stress e decide per un compromesso:

- Ho sentito che i giardini del Country Club sono magnifici durante l’estate. Accompagnami.

I tentativi di Anna di seguirli vengono stroncati sul nascere da due occhiate gemelle di puro disprezzo che respingono anche il resto degli idioti quando provano ad intercettarli sulla strada per l’uscita. Un campo di forze naturale. Non aveva mai capito perché la signorina Asano sostenesse che dei tre figli, fosse Genzo quello a ricordarle la madre.

- Guardi che sono alto per la mia età e ho ancora un sacco di tempo per crescere.

Eiji e Shuuichi viaggiano sul metro e novanta come padre, mentre Shoko Wakabayashi col suo metro e cinquanta è un carro armato in formato più tascabile.

Sua madre, una volta usciti dalla giungla dei festeggiamenti, respira a fondo l’aria libera e sorride. È bella in un modo un po’ contorto. A Genzo non dispiace assomigliarle.

I giardini del Country Club non sono magnifici, l’erba liscia e uniforme dei campi da golf si srotola in un tappeto artificiale che brucia gli occhi. Si dirigono verso la passeggiata che taglia in orizzontale lo spiazzo dove un gazebo si veste di nastri di porpora. Tra un’aiuola e l’altra si stiracchiano piante grasse che non ha mai visto a Nankatsu. 

- È mesembriantemo. – Spiega sua madre. – I suoi fiori sono sgargianti, ma non profumano.

Si inginocchiano e provano ad annusare, è vero. C’è una luce furba negli occhi di sua madre e per un attimo la distanza incancrenita da anni di assenza diventa sottile quanto carta velina.

- Non sapevo ti interessassero queste cose.

- Tesoro, quando ho deciso di sposare tuo padre, ho determinato di sapere TUTTO.

Gli fa l’occhiolino e a Genzo viene quasi da ridere. Sanno tutti che è stato papà a farle per anni una corte sfegatata, lei era pure già sposata.

È strano, il tempo passato in famiglia ha per Genzo lo stesso gusto di questi campi da golf: artificiale. Forse gli anni hanno aperto crepe e sentieri nella torba o forse l’amore c’è sempre stato, ma inodore come questi fiori.

- In realtà ho detto una bugia. – Dice mamma. – Il mesembriantemo profuma, ma solo quando cala il sole. È una fortuna che la festa di Shuuichi duri oltre mezzanotte.

Uccidetelo qui. Subito. ORA.

Mamma ride. Genzo non sa se stesse scherzando, ma è certo che non sopravvivrà a questa giornata.

In un certo senso è così.

Aiuta mamma ad alzarsi e proseguono, non rimane molto da vedere, ma nessuno di loro vuole tornare dentro. Forse se le promette di considerare SERIAMENTE la proposta genitoriale di uno stage in azienda durante le vacanze invernali, lo lasciano tornare in albergo prima. Certamente qui nessuno ha quel gran bisogno di lui.

Poi vede il cane.

È seduto all’ombra di un platano, il naso premuto contro il terreno e gli occhi nascosti da lunghe orecchie marroni. È così immobile da sembrare morto. Ha un nugolo di mosche attorno al naso, probabilmente attirate dalla carcassa sventrata che gli sta vicino: un opossum o un procione.

O un ratto.

Genzo adora i cani, così abbandona sua madre alle aiuole di piante aromatiche e va a controllare.

- Ciao bello.

L’animale socchiude un occhio e lo fissa pigramente.

Genzo ha un trucco, quando approccia un cane per la prima volta si comporta come se lo conoscesse da sempre. Non è una garanzia, ma è convinto aiuti ad evitare che ti morda. Se il cane poi si bendispone ci scappa una coccola.

Genzo non punta a tanto, certo sarebbe un bonus, ma adesso è più interessato alla sua medaglietta. Forse il suo padrone lavora qui o è uno degli invitati. In ogni caso va contattato con urgenza: qualunque cosa abbia mangiato dopo essercisi azzuffato insieme ha fatto danni: questo cane non sta bene. Devono portarlo dal veterinario.

Genzo sfiora il pelo scuro e il cane, un incrocio tra un labrador e una taglia più piccola, uggiola e rabbrividisce.  

- Tranquillo. – Dice Genzo e non muove la mano, aspetta il via libera. – Sei tra amici.

Così da vicino può studiarne meglio il muso, sì, ci sta decisamente anche un po’ di cocker spaniel qui.

Gli occhi del cane sono arrossati, le pupille dilatate e un pus denso, vischioso, nero-bluastro macchia il graffio che corre a metà del naso. Quella che da lontano sembrava una chiazza di pelo più scuro è sangue. Genzo la sfiora con gentilezza, ma non sente tagli. Deve provenire dalla bestiola mezza divorata.

Poveretta, non deve essere stato piacevole avere un tête-à-tête con quei denti. La carcassa puzza da maledetti.

- Ci hai proprio dato dentro, eh bello?

Con lentezza misurata estrae un fazzoletto di tasca e lo fa annusare al cane. Permesso ottenuto, Genzo tampona il taglio sul naso.

È davvero un animale intelligente, a pulizia terminata il cane spinge la mano col muso in una disperata ricerca di coccole. Genzo sorride ed esegue. Il cane è praticamente burro nelle sue dita per quando sua madre li raggiunge.

Scuote la testa, ma gli fa l’occhiolino quando gli si accovaccia accanto.

- John ha di che essere geloso, vedo. – Commenta divertita. – Ho avvisato in reception che c’è un cane smarrito. Manderanno qualcuno tra poco.

È un peccato, proprio ora che aveva trovato qualcuno di interessante con cui fare conversazione.

Meglio così: il cane è caldo e il suo ventre troppo gonfio. Forse gli è rimasto un osso incastrato. Mamma sorride e allunga una mano per accarezzarlo.

È questione di un attimo.

Il corpo del cane diventa un elastico, Genzo l’ha già visto succedere. Ha una cicatrice sul polpaccio a ricordarglielo.

Genzo ama i cani. Non ce l’ha d’istinto di lanciarglisi contro, schiacciarlo di peso, premere il suo muso contro il terreno.

Genzo ama i cani, ma ama anche sua madre e il suo pensiero è levarla dalla linea di tiro.

Le mascelle scattano. Si chiudono attorno al braccio.

Genzo non urla.

- Tranquillo…  - Dice e la voce scappa tra la stretta dei denti. - Tranquillo…

Porca puttana.

Aveva dimenticato quanto facesse male.

Sua madre sta urlando, si divincola, cerca di sgusciare da sotto. Genzo ha altre preoccupazioni al momento.

Il cane si confonde e la paura gli fa stringere la presa. Scuote il muso a destra, a sinistra, lacera. Strappa. La testa di Genzo si riempie di cotone.

- Tranquillo, tranquillo…

Ripete.

I secondi si sfocano, si confondono in un’eternità lunga un quarto d’ora. Genzo ha freddo e caldo. Assieme. È lucido e spaventato. Attimi. Il buio lascia spazio ad immagini di assoluta chiarezza, come gli occhi del cane, la faccia di sua madre o le mani di Shuuichi con la fede in oro bianco a stringergli le dita.

Un battito ed è sdraiato su un tavolo. Dov’è finito il cane? Attorno voci rimbombano contro pareti di plastica. Dov’è il telecomando? Genzo vuole abbassare il volume.

- Tranquillo, tranquillo…

La voce è maschile, nasale ed un sacco buffa. Potrebbe essere la sua, si tocca il collo e brucia e brucia. Galleggia su una crema densa. I suoni puzzano ed è questo l’odore del mesembriantemo? Un’accozzaglia di vocali biascicate. Ah, ah. È una parola buffa: biascicare. La luce gli entra negli occhi e brucia e brucia.

Fa freddo.

Un formicolio, uova di ragno che si schiudono e risalgano dalle gambe alle dita. La realtà è un filtro ed è come osservarsi attraverso un proiettore molto, molto lontano.

***

Non perde conoscenza.

***

In terapia dicono che l’ottantanove percento dei guariti non abbia alcun ricordo del lasso di tempo in cui l’infezione è diventata contagiosa. Aggressiva.

O sono molto fortunati o mentono. Genzo ricorda tutto.

Ogni terrificante, disgustoso dettaglio

***

Tatsuo Mikami lo costringe a sedere su una sedia scomoda. La plastica aderisce alla pelle mentre Genzo suda e si sente ripetere che quello che è successo non è stato colpa sua.

Lo dicono anche Eiji e papà, quando riescono a guardarlo in faccia.

- Hai cercato di proteggermi, Genzo. – Tenta mamma, gli stringe la mano, ignora la ciocca che disordinata le penzola attaccata al naso. La ricrescita le appesantisce i capelli di grigio. – Non volevi fare male a tuo fratello.

Shuuichi quel giorno era uscito a fumare, un vizio che nascondeva alla sposa. Aveva sentito mamma urlare, saltato lo steccato basso che separa la linea delle aiole e si era rovinato lo smoking buttandosi a pesce sul letto del prato. Era stato il primo ad intervenire. Aveva staccato il cane e portato Genzo di peso al coperto. Al sicuro.

Le mezzelune sulle braccia di Shuuichi sono larghe e strette. Memorie di morsi diversi.

Nessuno può stabilire con certezza chi sia stato ad infettarlo.

Il virus ha un periodo di incubazione variabile, ma il lasso in cui un infetto passa da essere generalmente innocuo a una marionetta febbricitante di violenza va dai quattordici giorni ai sessanta minuti dall’apparizione dei primi sintomi. Poi ci sono le eccezioni.

A Genzo erano bastati cinque minuti.

Undici persone erano morte.

C’era stata una ragazza vestita di rosa (Charlie Bennet, ventidue anni, studentessa di psicologia alla Columbia) che aveva cercato di aiutarlo. Ricorda di averle staccato il naso.

C’era stato un uomo con un cravattino fuori moda (Murano Kaede, sessantasei anni, manager della sede delle industrie Wakabayashi della prefettura di Kyoto) che aveva balbettato “g…giovanotto”. Genzo gli ha strappato un orecchio.

Ventisette persone erano rimaste infettate.

Nove sono guarite. Tra queste non c’è Shuuichi. Per quando Genzo si stabilisce a Billstedt, suo fratello ha cambiato quindici ospedali. Da otto mesi lo tengono sedato ventiquattrore su ventiquattro. Dicono che il coma farmacologico rallenti l’azione distruttiva del virus sugli organi interni, ma è solo per tenersi le sponsorizzazioni dei clienti facoltosi. Una corda delicata con cui impiccarsi.

- La speranza è un veleno.

Dice Schneider quattro mesi prima dell’inizio della quarantena della città.

Siedono nella sala d’aspetto del reparto pediatrico chiusi da pareti bianche con palloncini disegnati con l’aerografo. L’anno prossimo trasferiscono Maria Schneider nell’altra ala, quella riservata alle lunghe degenze dei pazienti adulti. Ci sono un sacco di scartoffie da compilare, consensi da firmare e un dialogo con test con la psicologa che assiste le famiglie che è obbligatorio e quasi impossibile da prenotare.

Genzo stringe la mano di Schneider e non è d’accordo. Negli ultimi mesi qualcosa dentro è come cambiato: qualcuno deve difendere le candele in un mondo che brucia.

Conosce Schneider da dodici settimane.

In Germania Genzo scopre che il suo patentino da “operatore socio sanitario per operazioni di contenimento” ad otto fusi, un continente ed un profilo sbagliato di distanza ha smesso di essere valido e si è rassegnato a seguire il corso per quelli che qui chiamano “Eindämmungsmittel” e che prevede oltre a quattro esami pratici anche sette incontri tipo terapia di gruppo.

Schneider è stato bocciato. La referente gli ha appioppato un giudizio piuttosto esplicito sullo stato della sua salute mentale. Schneider non se l’è presa, ha chiesto cosa abbiano scritto su di lui, Genzo gli ha allungato l’attestato e sono scoppiati entrambi a ridere.

- Questa di te non ha capito un cazzo.

Genzo suggerisce di imparare a mentire.

A lui l’ha insegnato in un cesso Taro Misaki.

***

A ventidue anni Genzo è un mastro della sottile arte del fingere, ma a diciassette per mettersi le scarpe ha bisogno dell’approvazione di Tatsuo Mikami.

Così era stato proprio il suo terapista a convincere i suoi genitori a permettergli di conseguire il patentino da “Shōdoku-zai” e cioè da operatore sanitario straordinario durante la gestione dell’emergenza, qualcosa a cavallo tra l’infermiere e il vigile del fuoco. In Giappone questi pazzi certificati si occupano di portare il pranzo alla gente bloccata in casa, di misurare i parametri vitali dei pazienti nelle sette settimane seguenti la dimissione dall’ospedale e, soprattutto, di prelevare gli infetti quando i sintomi li rendono violenti.  In Germania, Genzo, per questo ha dovuto conseguire in coda un’altra certificazione.

- Vostro figlio ha bisogno di sentirsi utile.

Quattro settimane di tira e molla dopo, Genzo era scoppiato: tra un anno sarebbe diventato maggiorenne e la loro opinione “non avrebbe più contato un cazzo”. Mamma aveva minacciato di tagliargli i fondi, di farlo interdire, ma poi aveva ceduto.

- Solo… stai attento.

Inclusi vaccini sperimentali, Genzo risponderà facendosi infettare in trentasette modi diversi.

***

A diciotto anni, dopo più minacce che pianti Genzo si trasferisce a Tokyo. Segue i corsi di economia al mattino per fare la sua parte del GRANDE COMPROMESSO che fa tanto contenti i genitori e al pomeriggio infesta la cantina del terzo stabile dell’università insieme ad un’altra mezza dozzina di studenti per conseguire il patentino promesso.

Dopo due settimane, seduto al suo posto nei banchi davanti, Genzo trova un ragazzino nuovo. Si presenta come Taro Misaki ed è un po’ troppo congeniale per litigarci assieme così finiscono per diventare amici. Ed è piazzare un cerotto su una ferita aperta, dimenticare che c’è.

Misaki vive con la madre, non ne vuole parlare, prima di trasferirsi a Tokyo stava ad Hokkaido e ha viaggiato un po’ ovunque come Parigi, Brema e Kyoto.

Un giorno a Misaki cade la penna, quando si abbassa per raccoglierla il maglione si impiglia e scopre una cicatrice sul braccio. Misaki incrocia i suoi occhi, sorride e sparisce per una mezza eternità al bagno. Genzo lo segue, si piazza di fronte al cubicolo ed aspetta in perfetto silenzio. A un certo punto Misaki si convince di essere solo, apre la porta e Genzo ce lo trascina dentro di gomito. Anche la sua cicatrice è sul braccio.

Certe sette in America ed Europa sostengono che sopravvivere all’infezione sia un segno di predestinazione divina. Altrettante predicano che ammalarsi sia una colpa. In Giappone, la cui soglia di contagio è più bassa che nel resto dell’Asia, la cicatrice di un morso porta in sé implicazioni fastidiose: che tu abbia perso il controllo, che abbia fatto del male a qualcuno. Che tu sia un potenziale assassino a piede libero.

Tutto vero nel suo caso, ma non è giusto che si vada a rompere i coglioni a gente come Misaki che si è auto-ricoverato a quindici minuti dall’avvenuto contagio e il decorso dell’infezione se l’è passato legato ad un letto e sedato.

Misaki è intelligente, ci arriva senza tante manfrine che il giro in giostra di Genzo sia stato un po’ meno pulito, non attribuisce giustificazioni o colpe e permette alla routine dell’amicizia di consolidarsi in qualcosa di più vero di quello che era prima.

Si siedono vicini durante le letture, si danno appuntamento in biblioteca per le ricerche, fotocopiano e scambiano gli appunti perché Misaki è bravissimo con le mappe concettuali e Genzo una macchina da guerra che non si perde una parola dei prof.

- Perché i puntini di sospensione qui?

- Ha fatto una pausa.

Misaki ride, Genzo fa una faccia e si fa offrire una tazza di the non dal distributore, ma la roba buona che campasse cent’anni non capirà dove Misaki se la va’ a procurare.

***

La quiete di giorni quasi normali viene interrotta da Jun Misugi quando sale in cattedra a sputare sentenze un po’ all’improvviso.

Genzo ha conosciuto Jun due anni prima, bloccati in un cerchio di sedie con i nomi incollati in una targhetta sul petto a raccontare una versione edulcorata della “loro storia” e poi davanti a una macchinetta a tirare giù uno snack rimasto bloccato.

Jun, il proprietario della merendina, si era messo di lato ad abbaiare educati suggerimenti, Genzo, che si era lasciato coinvolgere, ne aveva fatta una questione personale arrivando ad inclinare l’aggeggio a novanta gradi. Il tutto abbigliati in quelle stupide gonnelle da ospedale.

A fine emergenza si erano promessi di chiamarsi per nome.

- Gli infetti non sono responsabili delle loro azioni. – Dice Jun Misugi, studente prodigio ed assistente del professore Manaba, a ventisette mesi da quell’incontro. – Sono malati ed è nostro esplicito dovere prestare loro soccorso.

Il sangue di Genzo è ghiaccio nelle vene. Jun ha fatto i compiti. Alle sue spalle il proiettore esibisce calcoli, statistiche, dimostra come i vaccini di ultima generazione siano stati resi possibili dallo studio delle mutazioni del virus nelle persone guarite. Ribadisce la differenza tra portatori ed infetti, denuncia l’uso del termine “zombie” come “una riduzione pericolosa”. Parla dello stigma e di come sia inammissibile che nei tribunali di mezzo mondo la difesa “pensavo fosse un infetto” è considerata un’attenuante accettabile nei casi di omicidio.

Misaki annuisce, alza una mano e chiede se saranno disponibili le slide.

Genzo ha voglia di andarsene, di sbattere la porta, di prendere la testa di Jun e premerla contro un tavolo. Mikami non avrebbe dovuto costringerlo a partecipare a quelle sessioni di terapia di gruppo. Misugi SA. Stava tre sedie distante mentre Genzo veniva costretto a ricordare come ci si senta ad uccidere, ad avere pezzetti di carne umana tra denti e dita. Ascoltava mentre un tizio con quattro lauree ed un sorriso anonimo assicurava che si era inventato tutto.

- Ricostruzioni. Una risposta tipica a questo genere di trauma.

Genzo ricorda che sapore abbia il sangue e di averlo trovato delizioso.

E per i dottori questo significa che Genzo Wakabayashi è matto come un cavallo. Non dovrebbe stare qui.

È il suo turno di scappare e farsi inseguire in bagno. Misaki non lo trascina in un cubicolo, più intelligentemente attacca un foglio con scritto “fuori servizio” alla porta e dà un giro di chiave.

- È stato mio padre a passarmelo. – Dice Misaki scivolando e sedendoglisi accanto alla faccia delle norme igienico sanitarie. – Da quando siamo guariti non riesce più a guardarmi in faccia. Dice di ricordarsi del mio sapore.

Il sorriso di Misaki è fatto di gomma. Genzo impara ad imitarlo.

A fine corso le loro strade si separano. Taro Misaki si trasferisce a Saitama. Si scambiano lettere e poi più niente. Si conoscevano troppo bene. Forse è meglio così.

Genzo rimane a Tokyo per due anni e mezzo. L’esplosione di tredici nuovi focolai rimette il Giappone in pari col resto del mondo e, come operatore certificato, lo tiene parecchio impegnato. Aderisce a un programma sperimentale, partecipa ad azioni di contenimento nelle zone rosse. Si becca Jun come diretto supervisore.

Un giorno Genzo si risveglia in ospedale con braccia legate al lettino, una flebo al braccio e un discreto cerchio alla testa. Procedura standard quando vieni infettato durante un’evacuazione. Tra qualche minuto l’infermiera di turno arriverà a ficcargli una torcia in un occhio, a chiedergli domande assurde, slegarlo e costringerlo a compilare una quantità infinita di moduli.

Tutto nella norma. Oppure no, c’è Jun Misugi appollaiato sulla sedia accanto al letto.  È molto rigido e non lo guarda in faccia quando dice:

- Avresti finito per farti ammazzare.

E poi gli spiega quello che ha fatto.

Misugi deve ringraziare il suo cuore malato altrimenti Genzo anche da legato avrebbe trovato il modo di spaccargli la faccia.

Genzo Wakabayashi non ha manie suicide, non importa cos’abbia scritto sul suo profilo quel bastardo traditore. I trentadue ceppi girati in tempo record sono il risultato di un cocktail di sfiga e della sua innata capacità di trovarsi al posto sbagliato al momento sbagliato. Misaki l’avrebbe capito.

Vuole solo rendersi utile.

Così fa le valigie, telefona a Mikami ed abbandona il Giappone.

Un mese dopo approda a Billstedt, Germania.

 


 

Note al capitolo 2:

 

L’angst pre natalizio…

BUONE FESTE a tutti!

 

Credo di aver riscritto questo capitolo almeno una quindicina di volte, basti pensare che la prima stesura è di giugno *glom*. Una sofferenza.

 

Sperando di fare cosa gradita vi lascio il link della mia galleria nuova DA su Captain Tsubasa. Un po’ vuota per ora, ma disegnando la riempio (soprattutto di stupidate, ma tant’è) LINK

 

*Il nome dei fratelli Wakabayashi diversamente ad “Animali e forniture elettriche” è quello giusto del manga (nel frattempo sono riuscita a recuperare i capitoli dello speciale in cui compaiono per nome, accidenti alle pagine wikipedia che non li menzionano).

 

>>> 3. La  cantina.

Al rifugio arriva un ospite inatteso.

  
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