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Autore: Nina Ninetta    15/08/2023    4 recensioni
Anita è una studentessa di 16 anni che vive un profondo disagio sociale e se ne sta fin troppo spesso per conto proprio. Completamente sola, all’inizio del terzo anno, si trasforma nella vittima perfetta di un gruppetto di bulli che la vessa con dispetti e insulti di ogni genere. Il peggiore fra tutti, secondo Anita, è Stefano: un ragazzo scaltro e intelligente che sa usare fin troppo bene le parole, cosa in cui anche lei è brava! Qualsiasi altra persona, al posto di Anita, si sarebbe lasciata avvilire da questa situazione, ma non lei, poiché non si sente affatto sola, c’è il suo migliore amico a darle man forte: ȾhunderWhite! Un ragazzo con cui chatta ormai da tempo e che ha conosciuto in rete, su un sito per giovani scrittori come lo sono loro! Sebbene vivano nella stessa città, Torino, non si sono mai incontrati di persona, fin quando ȾhunderWhite non sente il desiderio di vederla dal vivo...
Questa storia partecipava alla challenge “Gruppo di scrittura!” indetta da Severa Crouch sul forum “Writing Games - Ferisce più la penna” - aggiornamenti ogni 15 giorni.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Ȼapitolo Ȼinque
“Տospesi”


 
Il primo genitore a presentarsi a scuola la mattina seguente fu la signora Mazza, mamma di Giulia Mazza, pronta e agguerrita a dare battaglia alla professoressa di italiano per il compito che aveva assegnato per casa.
Al quinto genitore che si presentò infervorato dinnanzi al preside, e dopo un numero imprecisato di telefonate che avevano minacciato di denunciare l’istituto e la docente in questione, l’uomo richiamò Giovanna Dell’Arco urlandole e imprecandole contro.
La professoressa ascoltò in silenzio il rimprovero, provando a spiegare le motivazioni che l’avevano spinta a un tale atteggiamento, ma il direttore non volle sentire ragioni, semplicemente si atteneva ai fatti e i fatti dicevano che lei aveva assegnato una ricerca inaccettabile per dei ragazzi minorenni in un istituto di prestigio come quello.
«Il mio intento era far capire che un determinato comportamento può avere delle ripercussioni sull’intera società.»
«Lasci queste spiegazioni comuniste al di fuori del suo lavoro!»
«Signor preside, non credo che questo modo di fare possa aiutare i ragazzi a comprendere il male che stanno compiendo alle spalle di una sola alunna. E i genitori dovrebbero sapere che, molto probabilmente, ciò che hanno insegnato ai propri figli è sbagliato. Se io avessi un figlio e sapessi che tormenta una compagna, io lo-»
«Ma non ce l’ha!» Sbottò il preside, scusandosi un momento dopo per ciò che aveva appena detto. Sapeva che l’aveva ferita e non era sua intenzione farlo.
«Non deve scusarsi» disse Giovanna, irrigidendosi. «È un dato di fatto.»
«Sono costretto a sospenderla per una settimana» concluse l’uomo, togliendosi gli occhiali da vista e strofinandosi la fronte. Erano le undici del mattino ed era già stanchissimo.
«Posso andare?» Domandò la professoressa, senza alcuna inclinazione nella voce.
«Sì, sì può andare» il preside la guardò, realmente rammaricato. «Mi dispiace, Giovanna, so che l’ha fatto in buona fede, ma non possiamo salvare il mondo. Siamo dei semplici insegnanti.»
«Le auguro buona giornata, signore» così dicendo la professoressa lasciò la presidenza e si diresse nell’aula professori. Aveva voglia di piangere, di chiudersi da qualche parte e urlare. Ma per adesso doveva mantenere un atteggiamento dignitoso, a casa si sarebbe potuta anche ubriacare e fumare tutte le sigarette che voleva. Tanto tutti i suoi impegni erano stati cancellati in un colpo solo. Le venne in mente l’immagine di un’onda che travolge un castello di sabbia e la voglia di piangere le pizzicò la gola.
Per fortuna, la sala comune era vuota. A quell’ora i suoi colleghi o erano a fare lezione o imbottigliati nel traffico cittadino. Stava raccattando le sue cose, quando entrò Elia Morales.
«Com’è andata?» Le chiese, consapevole che l’inflessibile e professionalissima Giovanna Dell’Arco era stata convocata in presidenza con la massima urgenza. Lo sapeva tutto l’istituto a dire il vero.
«Sospesa» rispose lei, evitando di guardarlo in faccia.
«Mi dispiace.»
«Sì, stamattina sembrate tutti dispiaciuti per me» la docente di italiano mise un paio di registri nella sua borsa e il resto dei libri li tenne in braccio, pronta a lasciare la stanza.
«Giovanna, io voglio veramente aiutarti con i ragazzi» aggiunse Elia, provando a sfiorarle un polso per fermarla.
«Allora inventati qualcosa!» Così dicendo uscì.
 
*
 
“Ciao Storm!”
“Ciao Ⱦhunder!”
“Finalmente riusciamo a parlare! Sn stato impegnato cn la scuola. E tu? Tt ok il lavoro?”
“Tt ok, adesso sn più libera”
“Nn mi hai ancora detto in ke giorni sei libera ;-)”

 
Anita provò vergogna. Gli aveva mentito fin dal primo momento, da quando avevano iniziato a parlare. D’istinto, senza un motivo reale, gli aveva scritto che lei lavorava e che aveva vent’anni.
In realtà, il motivo per cui lo aveva fatto le era chiarissimo: aveva avuto paura. Quando Ⱦhunder le aveva scritto che frequentava la terza liceo, Anita aveva temuto che se gli avesse riferito che aveva la sua stessa età, lui avrebbe cominciato a indagare per capire quale scuola frequentasse e magari l’avrebbe anche individuata, presentandosi di punto in bianco davanti ai cancelli. E, semmai fosse accaduta una cosa del genere, con Stefano Parisi e Fabio Morini nei paraggi, non riusciva neanche a immaginare quello che sarebbe potuto succedere. Perciò, aveva preferito dirgli che era più grande e che già lavorava, ma non sempre, solo nei weekend. Il problema era che Ⱦhunder non si era arreso, aveva cominciato a chiederle dove lavorasse, sarebbe potuto passare a salutarla, avrebbero potuto prendere un caffè insieme, conoscersi di persona.
 
“Io nn bevo caffè” era stata la risposta di Anita.
“Un tè?”

 
Anita aveva riso, prima di scrivere:
 
“E sn più grande di te”
“E allora? Mica ci dobbiamo sposare! È solo per vederci e parlare dal vivo! Mandami una foto, almeno”
“Nn ne ho sul pc”


E, almeno questa, era la verità. Anita non aveva foto sue né sul computer né in generale. Per una persona che non si piace, come lei, figuriamoci se amava le fotografie. E foto di lui non gliene aveva mai chieste. Non le interessava sapere come fosse fisicamente, le bastava andare d’accordo, aver trovato un amico sincero con cui chiacchierare e condividere passioni.
Mentre chattava con ȾhunderWhite, l’occhio le cadde sulla ricerca che aveva svolto il pomeriggio precedente inerente alla storia del sesso orale. La professoressa d’italiano aveva detto che la voleva per quella mattina, e lei, da brava studentessa qual era, aveva eseguito il compito, provando una vergogna infinita mentre scriveva determinati termini, pregando che sua madre non entrasse nella camera in quel momento – né sua sorella, se è per questo – intanto che parlava con il suo amico. Anche in quel caso, le sarebbe piaciuto da morire confidarsi con lui su ciò che stava facendo, sicuramente avrebbero riso come due matti (conoscendolo, avrebbe scritto tante di quelle battute a doppio senso che l’imbarazzo per l’argomento sarebbe scomparso). Invece, era obbligata a rimanere in silenzio assoluto, questo perché non era stata sincera fin da subito con lui sulla sua età e su ciò che faceva nella vita.
E per quale motivo?
Aveva paura che Ⱦhunder vedendola sarebbe fuggito a gambe levate, e allora avrebbe significato che era un ragazzo superficiale. Eppure lei lo conosceva (giusto?), e non lo considerava un tipo frivolo, come lo erano i suoi compagni di classe, tanto per fare un esempio.
A tal proposito, pensò a Stefano Parisi. L’unico, oltre a lei, ad aver fatto la ricerca e ad averla anche sventolata con grande orgoglio davanti a tutta la classe. Quando quella mattina la Dell’Arco si era seduta alla cattedra, chiedendo che le consegnassero il compito assegnato loro per casa, gli alunni presenti erano rimasti ammutoliti. Solo Stefano si era alzato in piedi, con tanto di foglio protocollo e un sorriso a trentadue denti, affermando che aveva davvero imparato tanto da quella ricerca. Aveva poi lasciato il compito sulla cattedra e aggiunto che la scuola avrebbe dovuto soppesare l’idea di introdurre un paio d’ore a settimana di educazione sessuale. La professoressa lo aveva rimproverato con lo sguardo, ma non c’era stata rabbia nei suoi occhi, quindi lo aveva invitato a tornare al suo posto e di smetterla di fare il simpatico.
«Allora? Nessuno più?» Aveva chiesto poi. Anita stava per alzarsi, ma la porta della classe si era aperta e la docente era stata invitata dalla collega di storia dell’arte a raggiungere il preside. Per quella giornata l’avrebbe sostituita lei.
Barbara Barbie Scala l’aveva guardata tutto il giorno con l’aria afflitta, sembrava sempre sul punto di volerle dire qualcosa, per poi cambiare idea all’ultimo momento. Chissà, forse voleva solo scusarsi. L’odio che aveva provato nei suoi confronti il giorno prima era già scemato. In un certo senso credeva di capirla: era innamorata pazza di Stefano dal primo anno delle superiori, lo sapevano tutti, perfino lei che non aveva confidenza con nessuno. Avrebbe fatto qualsiasi cosa lui le avesse chiesto e, difatti, così era stato. Anita si era sempre chiesta perché quei due non stessero insieme. Lei era la classica bella ragazza, mezzo istituto le andava dietro. Lui… certo, tutto poteva dirsi di Stefano tranne che fosse brutto. Stronzo, manipolatore, ma brutto no. E neanche stupido. Forse gli piacevano le ragazze meno frivole, più diligenti, e Barbara sembrava uscita da un cartone animato!
Il trillo di Messenger la riportò con la testa a ciò che stava facendo, ossia parlare con Ⱦhunder.
 
“Storm, vado a cenare”
“Ok”
“Dopo ci sei?”

 
Ad Anita brillarono gli occhi e si sbrigò a scrivere di sì, c’era.
 
“Allora ci bekkiamo più tardi. Ho una scommessa da fare cn te”
“Una che? Io nn faccio scommesse con nessuno”
“La farai cn me, baby ;-)”

 
Furono le ultime parole scritte da Ⱦhunder, prima che mettesse il suo stato “in attesa”.
Anita arrossì lievemente e provò una morsa alla bocca dello stomaco: quando la chiamava baby avrebbe tanto voluto che lo facesse di persona, mentre erano seduti su una panchina, al cinema, o a passeggiare mano nella mano lungo il Po.
 

 
*
 
Giovanna Dell’Arco ingollò l’ennesimo sorso di liquore scadente comprato al discount sotto casa e aspirò profondamente dalla Winston Blue che stava fumando. Non le piaceva sentirsi così, lo detestava. Fragile e vulnerabile, come quella volta che aveva scoperto di essere stata tradita dal suo fidanzato. Quel pezzo di merda con cui aveva condiviso tredici anni della sua vita, che si era inginocchiato davanti alla Torre Eiffel chiedendole di sposarla e poi, una settimana dopo, l’aveva trovato a scoparsi un’altra. Nel loro letto. Nel loro appartamento. Il quale, ovviamente, non era lo stesso in cui abitava adesso.
Giovanna scrollò la sigaretta nel posacenere sul tavolino, accavallando le gambe snelle e fissando lo sguardo sulla città che si dipanava dinnanzi ai suoi occhi. Si era coperta le spalle con un vecchio scialle appartenuto a sua nonna. La sua adorata nonnina di cui portava il nome. Ormai non le faceva più caldo perché era consunto dal tempo e dai tanti lavaggi, ma le scaldava il cuore e lo spirito, come amava credere. Lì, sul piccolo terrazzino al sesto piano di uno stabile degli anni ’80, un tempo abitato soprattutto da operai e metalmeccanici proveniente dal sud del Paese, soffiava una leggera brezza proveniente dalle montagne a nord. Era piacevole, schiariva la mente, ma sarebbe dovuta rientrare se non voleva svegliarsi il mattino seguente con la gola in fiamme e il torcicollo. Non aveva più l’età per… sospirò, per tante cose.
Schiacciò la cicca nella ceneriera e si alzò, solo allora notò un giovane che sul marciapiede di fronte si guardava intorno con aria spaesata. Somigliava maledettamente al professore di spagnolo, ma perché Elia Morales sarebbe dovuto essere lì, con il fare di chi non sa neanche dove si trova e cosa stia facendo?
Giovanna si affacciò al balconcino, tenendosi alla ringhiera, chiamandolo più volte, fin quando lui non alzò il capo e sorrise sollevato.
«Giovanna, apri! Devo dirti una cosa.»
Il cuore della docente ebbe un sussulto: farlo entrare in casa sua? A quell’ora? Se lo avessero visti i vicini avrebbero parlato per anni del suo comportamento inappropriato. Già, inappropriato. Era curioso come il giorno prima avesse detto ai suoi alunni di fare una ricerca sui… (“chiamiamoli per ciò che sono”, pensò) pompini e adesso si preoccupava dei pregiudizi del vicinato.
«Non credo sia il caso, Elia.»
«Ma ho avuto un’idea per aiutare la Lentini» la verve del giovane insegnante parve sgonfiarsi all’improvviso quando vide la collega rientrare in casa e chiudere le ante del balcone, per poi riaccendersi d’un colpo sentendo il classico click metallico di un portone che viene aperto.
 

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