Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: drisinil    19/11/2023    3 recensioni
Dietro ogni impresa bellica si nasconde un crimine senza tribunale, coperto di allori, messo in versi, piegato alla morale che più piace ai vincitori.
La storia del crimine la conoscono tutti, quella dei criminali, una volta svestiti dei loro eroismi, non interessa a nessuno.
Eppure è la storia di un criminale l'unica che posso raccontare, e posso raccontarla solo io.

***
Questa è una fanfiction canonverse nell'ambientazione del manga Attack On Titan, incentrata sulla storia di Levi Ackerman e sulla sua relazione con Erwin Smith. La timeline segue quella dell'opera canonica.
Contiene spoiler di tutte le stagioni, compreso il finale non ancora animato.
MI SCUSO FIN DA ORA PER LA LENTEZZA DEGLI AGGIORNAMENTI, LA CUI CADENZA NON SARA' REGOLARE PERCHE' LA STORIA E' IN CORSO DI STESURA E L'AUTRICE E' RINOMATAMENTE INAFFIDABILE.
***
Prendiamo
il sentiero paludoso
per arrivare alle nuvole.
(Matsuo Basho)
Genere: Angst, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Erwin Smith, Levi Ackerman
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
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2 - IL SAPORE DEL FANGO



La prima volta che Hange Zoe mi rivolse la parola fu per farmi una domanda sbagliata. Non era da lei. Farsi trascinare dall'entusiasmo al punto da sfrigolare come fosse in padella, invece, era proprio da lei.

Dove hai imparato a combattere così? mi chiese, con un sorriso trepidante che le spaccava in due la faccia e occhi che mandavano lampi di curiosità attraverso le lenti, cercando, dietro la migliore delle mie facce inespressive, il punto buono per iniziare a scavarmi dentro.

Si era seduta accanto a me e si sfregava le mani sui pantaloni, come faceva sempre quando si sforzava di trattenersi. L'energia che si accumulava dentro il suo corpo spigoloso minacciava di straripare ogni momento dagli argini di un contegno che aveva appreso a fatica e di cui era palese che non le importasse niente. In stato di sovreccitazione perenne e di (comico) eccesso di pressione le sfuggivano mugugni, sibili, piccoli tremori e gesti incontrollati.
Era proprio così quel giorno, una creatura fatta di linee spezzate e riflessi, incatenata da uno sforzo di auto contenimento non del tutto efficace.
Allora? Chi ti ha insegnato? Ancora, domanda sbagliata, quattrocchi di merda. Ce ne hai messo di tempo per iniziare a fare le domande giuste! E ancora più tempo, e alcol, e idee assurde, e fiducia ingiustificata per ottenere qualche risposta.

Avrei voglia di fare due chiacchiere con te, di lasciarti parlare a briglia sciolta, con il tuo sgherro ubriaco fradicio che singhiozza accasciato sul tavolo, incapace di occuparsi di se stesso eppure preoccupato per te, che avresti potuto bere una cantina e restare lucida e pazza come sempre.
E lui, che ci versa da bere, con le guance arrossate, la lingua sciolta, gli occhi appannati per le risate che non riesce a concedersi, perché domani manderemo ancora una volta altri a morire e forse moriremo con loro. Occhi blu, umidi di un temporale imminente, vagamente cerchiati dalla mancanza di sonno. Occhi bellissimi; sempre, sempre bellissimi.
E il liquore di merda distillato da te, con le mani sudice nelle bottiglie sudice, mi scivola in gola e scioglie tutto quello che incontra, compreso quel grumo d'ombra che intrappola le parole e i concetti e li fa risalire fino alla coscienza. In quel preciso momento, fra gli avverbi e gli aggettivi inutili, riesco a distinguere un paio verbi nitidi e spaventosi, voglio, amo, che per fortuna fino alla lingua non riescono ad arrivare.

Un cazzo di momento magnifico, quattrocchi di merda, per il quale non so se ti ho mai ringraziato.

Non bevo quasi mai, ultimamente, anche se la tentazione di annegarmi in un bicchiere ce l'ho spesso. Tutti si sforzano molto di "tenermi compagnia", ma non c'è niente da fare: sono sempre il branco di mocciosi di una volta. Tranne forse Falco, che rischia di diventare adulto sul serio, prima o poi.
In un mondo di domande sbagliate, Falco Grice è uno capace di fare quelle giuste.
E poi, per quanto sia alto meno di un metro e occasionalmente se la faccia addosso, anche il destinatario di questo spreco di carta e inchiostro fa le domande giuste. Parla troppo poco come sua madre, pensa in troppo fretta come suo padre e come lui si infila le dita nel naso quando crede che nessuno lo veda. Si scaccola come un Kirschstein, e poi con quelle manacce cerca anche di toccarmi, ma per tutto il resto, purtroppo per lui, è Ackerman fino al midollo.

Come fai? Eccola la domanda giusta, una voce infantile impastata di meraviglia, occhi sgranati che mi guardano maneggiare il mio coltello che no, non gli farò mai toccare.
Come.
Non dove, non chi. Come.

Le stesse persone che credono nel dove e nel chi sono convinte che combattere sia questione di tecnica. Di sequenze, di forza muscolare, di leve, di coordinazione, di cose che possono essere apprese in una scuola (dove?), trasmesse da un maestro (chi?).
C'è anche questo e ha la sua importanza; per convincersene basta aver visto mezza volta la Signora Arlert impegnata a insegnare le buone maniere ai detrattori della linea politica pacifista di suo marito. Dovrebbe sempre farsi precedere da lei, per lastricare di ginocchiate sui denti la luminosa strada della non belligeranza.
Nel combattimento esiste una tecnica, ovviamente, o più di una, così come esistono la pratica e il talento, ma la teoria scritta nei libri, l'attitudine personale, il più duro allenamento non sono che la grammatica e la sintassi di un linguaggio naturale, quello della violenza, che può essere appreso unicamente per imitazione e per esposizione.

Come si parla la lingua della violenza fa tutta la differenza del mondo. Chi impara un linguaggio per trasmissione, da un'istruzione a parole, chi si caccia in testa una lista di regole e le applica, chi continua a pensare e tradurre nella sua testa, parlerà sempre e soltanto da straniero. E perderà.

Come hai imparato a combattere?

Domanda giusta, risposta semplice: mangiando il pane di Kenny lo squartatore, guardandolo vivere e vivendo sotto il suo tetto, respirando violenza e imparando a sillabarla con la fonetica del dolore fisico, la migliore disciplina che esista. Divenni madrelingua. Ero, a quel tempo, abbastanza giovane, abbastanza flessibile, abbastanza bisognoso di comunicare, da incidere quel linguaggio dove abitano gli istinti profondi, le reazioni automatiche, le certezze assolute.
Con gli anni, le certezze le ho smarrite tutte, mi sono scrollato di dosso il peso delle speranze e di assoluto non conosco che la morte. E' rimasta la consapevolezza a doppio taglio della mia forza (o di quella che avevo) e della libertà di scegliere come impiegarla.
La verità è che non ho mai amato la violenza, - chissà mai perché la gente ride quando lo dico - detesto tanto subirla quanto infliggerla, ma rimane la mia lingua nativa e nessuna delle altre che nel tempo mi sono sforzato di apprendere è mai riuscita a insinuarsi così in fondo.

Kenny non perse tempo a illustrarmi le basi o chiarirmi le regole del gioco, usò con me l'unico linguaggio che conosceva, senza traduzioni né concessioni: adottarlo più in fretta possibile era la mia unica opzione. Aveva mani lunghe e nervose, che spuntavano fuori dai polsini della camicia e una lama sempre appollaiata fra le dita, mobile, imprevedibile, che s'inclinava da tutti i lati e sembrava dovesse infilzarmi ogni momento. Mi tenevo a distanza.

Se ne restò a osservarmi per un paio di settimane. Sentivo i suoi occhi addosso che mi seguivano e rispondevo cercando di rendermi invisibile, di sparire ai margini della coscienza, evanescente come un fantasma, fatto solo di scricchiolii dell'impiantito, fame e sussurri.
«Ti faranno a pezzi» pronosticò un giorno, seduto su un masso, intento a pulirsi le unghie con un coltellino che nelle sue mani sembrava minuscolo.
La sporcizia che cadeva per terra era ipnotica, non potevo guardare nient'altro.

«Parlo di te, nano. Questo posto ti mangerà e ti cagherà via prima che tu te ne accorga. E io non potrò farci niente.» Alzai lo sguardo, gli occhi erano nascosti sotto la tesa floscia del cappello. Fece ruotare quel coltello fra le dita e poi me lo porse, dalla parte del manico, lasciandolo oscillare, perché capissi che dovevo prenderlo.
«Non hai niente da dire? Eppure non sei stupido.»

Avevo da dire molte cose, ma nessuna che prendesse forma di parole. All'altezza del cuore, o un po' più giù, c'era come un nodo, un punto preciso dove si accumulava la paura e diventava solida. Le parole rimanevano schiacciate, si perdevano prima di diventare suono, si consumavano in cenere di pensieri inespressi che buttavo fuori con i respiri.
Afferrai il coltello, invece di parlare. Si accomodò da solo nel nido delle mie dita e poi ruotò se stesso, mosso da una volontà che non mi apparteneva, in una presa rovesciata facile, comoda, naturale. Il manico era troppo grande, ma la mia mano sapeva come stringerlo.
Quante altre cose c'erano che non sapevo di sapere?
Volevo chiederlo, ma ancora, le parole non uscivano. Mi aggrappai forte all'impugnatura e mi sembrò che quel contatto rendesse tutto un po' meno terribile, un po' meno spaventoso di prima.
Era quella la realtà: sotto la faccia corrucciata e i vestiti laceri, il nido dei capelli aggrovigliati e i pugni sempre stretti, tremavo di paura, rannicchiato dentro me stesso.

Kenny mi osservava, masticava tabacco e ogni tanto sputava.
«Sapresti cosa farci?» mi domandò, accennando con gli occhi alla lama.
Scrollai il capo. E poi azzardai un colpo, contro un nemico invisibile, che forse era l'uomo col cappello seduto sul masso, o quello che mi aveva messo al mondo con noncuranza, o chiunque altro in un posto così estraneo e così ostile.
Non ci tenevo a essere cagato via; anche se quello era un mondo di merda non volevo essere io, la merda.
Invece lo ero.

La prima volta che alzai quel coltello per difendermi, ne presi talmente tante che ho perso memoria dei dettagli, ma non dimenticherò mai la sensazione viscida e appiccicosa del fango sulle gambe nude, che risale oltre l'orlo delle labbra e delle scarpe, mentre una mano troppo forte mi trattiene in ginocchio spingendo forte sulla nuca e altre mani mi afferrano alle ascelle, le spalle ruotate all'indietro, quasi disarticolate da una leva crudele: sottomissione assoluta.

La voce che sentivo arrivava dall'alto e non dimenticherò neanche quella. Una voce senza volto, bianca, perfida, perentoria. Vedevo solo un paio di scarponi bassi, insolitamente puliti, piantati su una cassa, l'orlo di un paio di pantaloni scuri, calze rammendate con cura che coprivano gambe magre quasi quanto le mie.
«Mi hai sentito? Non rispondi? Eppure sei il bastardo dello scannatore. Non ti ha insegnato le buone maniere?»
Le buone maniere, proprio così Kenny chiamava il suo modo di condurre gli affari, quello che avrei dovuto imparare, l'addestramento che mi stava impartendo.
«Non sei un idiota, vero? No che non lo sei. Dicono in giro che sei un gran figlio di puttana, ma non un idiota. Quindi il concetto dovrebbe essere facile da capire: sei venuto a casa mia senza invito, nella mia strada, e ci hai portato la tua brutta faccia. E tutto il fango del posto merdoso da cui vieni. Il fango mi fa venire il voltastomaco. E mi fanno venire il voltastomaco anche i bastardi. Quindi ora tu il tuo fango lurido te lo rimangi tutto!»

Intendeva letteralmente, l'avevo capito subito. Non volevo farlo, non l'avrei fatto. Digrignai i denti e opposi un'inutile resistenza, mi tenevano in troppi ed erano troppo forti.
Sentivo i muscoli fremere sotto quel giogo, la pressione interna aumentare, una sensazione di distacco, come un interruttore nella testa che scattava a vuoto molte volte, un brivido lungo la schiena che diventava formicolio in tutto il corpo, una spinta irrefrenabile a oppormi fino a nuocere a me stesso. Sensazioni così violente e contrastanti da stremarmi e indebolirmi.

«Che c'è? Non ce la fai a ribellarti? Forse non hai capito bene contro chi ti sei messo: o fai subito come dico io, e te ne torni a casa con qualche osso rotto, oppure scopriamo quanto è affilato il tuo coltello, e allora non lo so se a casa ci torni... »

Una mano armata entrò nel mio campo visivo e sentì il bacio della mia stessa lama lungo tutto il braccio. Pulita e affilata, come mi piaceva tenerla.
Il dolore mi risvegliò. Dentro di me abitava una bestia che se ne nutriva, che ruggiva e si contorceva, gridando la sua fame, ma io non riuscivo a liberarla. L'ho compreso molti anni dopo che è l'impotenza la più atroce delle torture. Allora mi lasciai torturare e fui sconfitto da me stesso.

«Mangia!» intimò la voce, e una mano implacabile sulla nuca mi schiacciò con violenza la faccia per terra.

«Mangia!»
Persi la lucidità e il controllo. Mangiai.
Mangiai fango con la bocca e con il naso, finché entrambi si ostruirono. La melma aderiva viscida alla lingua e al palato: più ne inghiottivo più avevo la sensazione di essere inghiottito. Fango molle mi penetrava a tradimento fra le dita dei piedi e delle mani, nelle pieghe della pelle, negli occhi e nelle orecchie, nel buco quadrato che avevo fra i denti davanti.

Mangiai ancora, strozzando respiri stentati fra un boccone pastoso e l'altro, fra una risata di scherno e la successiva, sotto la pressione di un ginocchio piantato in mezzo alla schiena, le braccia ritorte, pronte a spezzarsi al minimo tentativo di forzare.

Mangiai finché io stesso, fuori e dentro, divenni fango: disgustoso, appiccicoso e lurido. Continuai a mangiare finché lo stomaco non si ribellò e l'atto stesso di ingoiare si trasformò in conato. Vomitai su di loro e su me stesso e poi un nero denso e uniforme calò sulla mia coscienza.
Ero ridotto a una merda, puzzavo di merda, davvero il mondo mi stava cagando via.

Gli eventi successivi sono finiti sul fondo del barile incrostato dei miei ricordi, ma è facile presumere che qualcuno andò a riferire allo scannatore che il suo moccioso era stato scaricato mezzo morto da qualche parte nel quartiere del mercato nero.

Quando ripresi conoscenza, Kenny mi diede il resto: il prezzo in violenza da pagare alla mia sprovvedutezza. Considerando la fama che aveva, non alzò spesso le mani su di me, ma quando accadeva non era tipo da risparmiarsi, lo muoveva la ferma convinzione che il dolore avrebbe inciso nella memoria l'impronta dei miei sbagli. Non aveva torto. Quel giorno, mi picchiò forte. Me la feci addosso, vomitai ancora e svenni di nuovo.
Mi svegliai con la bile che colava dal naso e due costole rotte che mi tiravano una pugnalata a ogni respiro.
Avevo il torace bendato, però, e le mie ferite erano state ripulite e ricucite. Ingollai non so quanta acqua, che comunque sapeva di merda.
Dormii e sognai mia madre.
Quando fui in grado di alzarmi e scoprii che giorno era, mi resi conto di due cose: ero un anno più vecchio e l'unico bene che possedessi me lo avevano rubato.

«Mi hanno preso il coltello» riferii a Kenny. Non mi aspettavo consolazione o comprensione, volevo solo essere chiaro, visto che me lo aveva dato lui.
Seduto di fronte alla stufa spenta, stava lubrificando con cura le giunzioni della lama a scatto da cui non si separava mai. Non smise di strofinare, non sollevò lo sguardo.
«Se uno si prende il fastidio di ridurti in quel modo, deve pur guadagnarci qualcosa, oltre il divertimento.»
«Erano in quattro.»
«E quindi?»

Alzai le spalle; l'idea di invocare o ricevere giustizia non mi aveva mai sfiorato. A stento conoscevo il significato della parola.
«Era mio. Lo rivoglio.»

Sorrise. Aveva un modo sghembo di sorridere, digrignando una chiostra di denti incredibilmente bianchi e regolari, imprigionati fra labbra troppo sottili. Quella risata arrivava agli occhi con un brillio pericoloso, l'espressione di chi confida unicamente nella propria forza e non è stato mai tradito.
«Vieni qui, nano. Siediti» mi ordinò, battendo la mano accanto a sé, sulla panca.
Obbedii, non era saggio opporsi. «Raccontami bene com'è andata.»

«Non mi ricordo» mentii. «Ho preso un sacco di botte.»
«Erano armati?»
«Erano più grossi di me.»
«Chiunque è più grosso di te. Rispondi: erano armati?»
«Non lo so... »
«Quindi il coltello lo hai tirato fuori tu per primo? Forse mi sbagliavo a pensare che non sei stupido!»
«Credevo che... »
«Credevi male! Se tiri fuori il coltello per primo stai rifiutando il corpo a corpo. Significa solo due cose: o sei una mezza cartuccia, oppure un bastardo con le palle quadrate che vuole chiudere in fretta la faccenda... servono le palle eh, solo bastardo non basta...» Si interruppe per ridere, Kenny trovava se stesso sempre molto divertente. «Quindi, nano: mezza cartuccia o bastardo cazzuto? Quale delle due?»
Per darmi un indizio, mi assestò una spallata; non molto forte, ma secca e improvvisa, che mi mandò gambe all'aria nella polvere prima che potessi anche solo pensare di schivarla.
«Hai detto che rivuoi il coltello. Riprenditelo!»

Alzai lo sguardo su di lui, sotto le costole doloranti sentivo un buco in mezzo al petto.
«Come faccio?»

Chiuse la lama del suo serramanico e la fece scattare un paio di volte, con una velocità che mi impressionò. «Picchia più forte di tutti. Corri più veloce. Pensa più in fretta. Adattati meglio. Colpisci per primo e colpisci duro.»
«Sì, ma come faccio?»
Si strinse nelle spalle. «Fallo e basta.»

Era tutto lì, per lui, un problema meramente linguistico di violenza applicata, sulla quale era ovvio che non ritenesse di dovermi offrire altro che ottimi esempi di eloquio.

Presi a seguirlo come un'ombra, muovendo cauto i piedi sulle sue impronte, osservandolo e imitandolo; senza neanche rendermene conto, succhiavo violenza dalle mammelle gonfie dei bassifondi e non ero mai sazio.
Mi resi conto che, in mancanza di una lama, avrei dovuto fare affidamento su altre armi: spirito di autoconservazione, unito a tutta l'intelligenza che potevo spremere dal mio cervello pigro e a una conoscenza approfondita del territorio, che mi mancava del tutto.
Osservavo la violenza intorno a me, ne ascoltavo i palpiti e i sussurri, la attraversavo seguendo le maree e le correnti delle merci di contrabbando, dei traffici di beni e di persone, della moralità deviata dalla lotta per la sopravvivenza, che rende inutile qualsiasi legge oltre quella del taglione.

Imparavo in fretta e facilmente, persino Kenny ne era sorpreso, anche se gli piaceva fingere il contrario.
Imparai la cedevolezza della carne sotto le nocche, la consistenza di una carotide stretta fra le dita, il punto di rottura delle ossa, robuste e fragili a seconda dello sforzo a cui vengono sottoposte. Imparai a reagire per puro impulso fisico, senza l'ingombro del pensiero. Imparai a tenere la giusta distanza, a difendermi nascondendo il viso in una gabbia di giunture appuntite, a usare qualsiasi cosa - qualsiasi - come arma o come diversivo. Imparai che la direzione buona per nascondersi è sempre in alto, che il corpo umano contiene più sangue di quello che uno si immagina, che c'è un limite esatto oltre il quale dolore fisico brucia la lingua anziché scioglierla.

Soprattutto, imparai a essere sleale, vigliacco, ingiusto.

Del resto, la Giustizia non parla la lingua dei bassifondi. La legge la parla benino, ma si degnava di comparire dalle nostre parti solo nelle forma distorte dell'inettitudine e della corruttibilità della gendarmeria, che convogliava su di sé un disprezzo feroce e collettivo pronto a sconfinare nell'odio, forse l'unico elemento di coesione degli abitanti del sottosuolo.

Io mi tenevo alla larga dai gendarmi, dai creditori di Kenny, da quelli che apprezzavano troppo i bambini, da chiunque mettesse in allarme il mio istinto in rapida crescita.

Superai la tentazione di rimanere rannicchiato a tremare nell'angolo di una stanza: non mi avrebbe restituito il mio coltello.
Non ero guidato da un chiaro, definito proposito di vendetta, non era quello che inseguivo e non avevo abbastanza esperienza di vita nemmeno per una precisa definizione del concetto; però pretendevo di riavere indietro ciò che mi apparteneva. Il sopruso del furto bruciava più dell'umiliazione, un po' come le stramaledette dita mancanti prudono di più di quelle ancora attaccate alla mano.
Anche se non me ne rendevo conto, ero privo di un obiettivo in quel momento della vita, e il coltello me ne offrì uno che assurse, seppure per un breve arco di tempo, al ruolo di scopo esistenziale.

Sull'identità dei ladri non avevo alcun indizio, se non che erano anche loro dei mocciosi, non più grandi di undici o dodici anni e quando avevo trovato il coraggio di tornare in quella strada, non si erano fatti vivi.
Iniziai a esplorare il mondo in cui vivevo, con l'intento di stanarli. Dapprima solo brevi ricognizioni, per memorizzare punti di riferimento e percorsi, potenziali nascondigli, scorciatoie buone per la fuga, che richiedessero l'agilità fuori dal comune che avevo scoperto di avere.

Kenny mi affidava commissioni che espandevano man mano il mio raggio di azione. Molto spesso finivano con fughe rocambolesche, quasi sempre con minacce di morte, qualche volta non riuscivo a evitare una rissa. Le prendevo ancora: pugni, calci, occasionalmente coltellate, ma iniziavo anche a darne, e il fatto di essere sistematicamente sottovalutato era un enorme punto a mio favore, che avevo imparato a sfruttare con spiazzante fantasia.

Talvolta, dopo quegli scontri, Kenny mi compariva a fianco, mentre mi trascinavo malconcio verso una locanda fumosa che in quel momento era casa nostra.
Hai fatto schifo, nano, diceva sempre. Era la sua battuta di esordio, sempre la stessa, ma la recitava con un sorrisetto ogni volta un po' più largo, nel quale mi piaceva immaginare un certo apprezzamento.
Un giorno disse: «Potevi batterli.»
Ero particolarmente dolorante, avevo beccato tre calci nei reni che mi avrebbero fatto pisciare aghi per settimane, non certo l'immagine di un potenziale vincitore. Kenny non era il tipo da sforzarsi a leggere tra le righe, perciò quel cambiamento di copione mi sorprese.
Tenni a bada lo stupore, tuttavia, sotto chiave oltre la solida barriera di terrore raggrumato all'altezza del diaframma.
Poiché non riuscivo a eliminare la paura, l'avevo indirizzata tutta lì, a fare da ostacolo alle correnti ascensionali delle emozioni, a sospingerle verso il basso, dentro le viscere, dove nessuno avrebbe potuto vederle e usarle contro di me.
Purtroppo, abitavano compresse in quello stesso spazio anche la pietà, che non mi potevo permettere, e la vergogna per me stesso, che ogni tanto bruciava dopo un colpo alle spalle, una finta sleale, l'intuizione sempre più potente dei punti esposti su cui infierire. Provavo frustrazione per la vergogna e disprezzo per la frustrazione; ripetevo a me stesso che ero uno stupido e colpivo più forte.

«Potevi batterli» ripetè Kenny, come se non avessi sentito.
«Lo so» mugugnai.
«E allora spiegami perché sei tu quello con il culo rotto.»
Lo guardai. Mi sorrise, con la sua chiostra di denti larghi e bianchissimi. Doveva saperlo. Doveva averlo sempre saputo. Doveva avermi mandato lì apposta.
Non riuscivo a capire se gli ero grato o volevo spaccargli il muso.
Mi trascinai qualche passo in avanti e la sua risata mi seguì.
Nel bel mezzo del combattimento avevo fatto il più banale degli errori: mi ero distratto. All'improvviso avevo sentito quella voce; una voce bianca, senza volto, che sapeva di fango e di sangue.

Appena il mio corpo guarì, andai a regolare i conti.
I legamenti del ginocchio che mi aveva bucato la schiena saltarono tutti, la rotula finì fratturata e scomposta, disarticolate le braccia che mi avevano trattenuto, spezzate tutte le dita. La voce apparteneva a una creatura notturna e selvatica, dotata di una singolare, feroce bellezza e nessuna paura; non ho mai saputo il suo nome: non me lo disse, non glielo chiesi. A lei non lasciai ossa rotte, solo un vistoso ricamo in faccia, a indelebile ricordo della nostra conoscenza infantile.
Per la prima volta avrei potuto uccidere e scelsi di non farlo.

Quella stessa sera, con il mio coltello, mi tagliai i capelli.
Mi ero rifiutato, fino a quel momento, per preservare il mistero custodito nelle estremità di quelle ciocche: i capelli che mia madre aveva accarezzato e baciato, che custodivano l'impronta delle sue dita calde e delle sue labbra fresche. Cadevano al suolo con un rumore sordo che sentivo solo io, l'eco dell'ultimo distacco, l'ultimo fascio di nervi doloranti da strappare via dal moncone di cuore che mi restava. A ogni ciuffo reciso, un frammento della mia infanzia se ne andava per sempre, lasciandomi più nudo e più leggero. Più simile a Kenny, più determinato a sopravvivere, più avido e spietato che mai.
Sei forte, sei gentile  sussurrava lontana la voce dolce di mia madre.
Ero forte.

   
 
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