Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Greenleaf    11/03/2024    2 recensioni
Levi Ackerman, capitano imbattibile e uomo dalla lingua tagliente, ora ridotto su una sedia a rotelle. Sarebbe questa la sua grande vittoria? Forse è solo uno scherzo del destino, una penitenza da scontare. In fin dei conti lui ha sempre e solo sofferto. Nel suo cammino, ad un certo punto, si interpone una donna tutta pepe, che non riesce proprio a stare zitta in sua presenza. Sarà l'ennesimo castigo? Levi non la tollera, vorrebbe starle lontano e godersi il resto dei suoi giorni in completa solitudine.
Ma ovviamente, ogni cosa va per il verso sbagliato.
E chi l’avrebbe detto che, dopo la fine di una guerra, avrebbe dovuto affrontarne un’altra, completamente disarmato. Contro una donna. Non una donna qualunque, ovviamente, ma una con la lingua troppo lunga.
Genere: Hurt/Comfort, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Levi Ackerman, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 2
⋅ʚ♡ɞ⋅
 Levi
 
Lasciai la sedia a rotelle in un angolo e mi sostenni al pilastro di legno in mezzo alla tenda. La ferita, anche se ormai guarita da tempo, pulsava come quando l’avevo ricevuta, ma ciò non m’impedii di rimanere in piedi. Arrancai verso il pagliericcio, facendo scivolare il palmo sulle ruvide coperte di ginestra. Non volevo rimanere per sempre su quella ferraglia, costretto a muovermi come un relitto. No. Non riuscivo ad accettarlo, dovevo trovare un modo per rimettermi in sesto. Me l’ero promesso. Forse avrei avuto bisogno di tempo, ma ce l’avrei fatta, da solo, come sempre. Mi accomodai sul misero giaciglio e schiacciai i polpastrelli sulla cicatrice.
 
Dannazione!
 
Ero diventato l’ombra di me stesso. Un fantoccio ferito, con il cuore pieno d’amarezza e nessuno che mi potesse comprendere realmente. In realtà, poche volte avevo cercato un conforto in vita mia e, quando ne avevo avvertito il bisogno, puntualmente, avevo trovato Hanji a condividere le mie stesse paure. E le notti, a quei tempi, erano sembrate meno torbide. Adesso, non riuscivo a vedere oltre. Vedevo solo la carne lacerata e, dietro di me, un passato oscuro, da dimenticare.
 
Sentivo i pianti di gente che non conoscevo, ma non c’era nessuno della mia squadra che potesse godersi quella nuova vita che non faceva assolutamente per me. Per uno che aveva patito così tanto, era quasi impossibile adattarsi a una stentata idea di pace. Ma se fosse dipeso da me, se fossi riuscito a recuperare le forze, sarei tornato a Paradis per porgere l’estremo saluto ai miei ex compagni.
 
Mi liberai della camicia, rivelando i pettorali turgidi. L’aria fresca della sera coprii la mia pelle di brividi. Ansimai e, come accadeva quasi tutte le notti, rimasi con gli occhi aperti.
 

 
I raggi timidi del sole filtrarono attraverso il tessuto spesso della mia tenda. Avevo riposato per circa due ore. Andava bene così, nonostante le lamentele di Onyankopon. Non aveva capito un emerito cazzo su di me, quel ragazzo. Ero ormai da tempo abituato a tenere la guardia, e lo facevo anche adesso senza nessun intoppo. Perché, in quel campo, tante cose non quadravano. C’erano le brave persone e le solite teste di cazzo che gironzolavano liberamente, disinteressandosi dell’equilibrio precario in cui tutti noi vivevamo. Quindi, rimanendo vigile, avrei potuto dare una bella lezione a qualche farabutto, qualora fosse stato richiesto il mio intervento.
 
Mi alzai lasciando l’impronta del mio corpo sulle lenzuola. Le sistemai velocemente e, mi assicurai prima di mettere piede fuori, che quel posto fosse in ordine, pulito. Per quanto una tenda potesse realmente esserlo.
 
Scivolai sulla sedia a rotelle e, prima di andarmene, percepii in lontananza dei rumori ovattati ma persistenti. Erano abbastanza forti da riuscire a svegliare anche chi diversamente da me riposava. Uscii un po’ curioso. Il mondo giaceva nella staticità del primo mattino, il sole ancora troppo debole per illuminare il campo. Alcuni raggi irradiarono il terreno, creando contrasti di luci e ombre sulla strada deserta. Le tende erano serrate, avvolte da un alone di nebbia che mi impedii di vedere oltre. Anche se riuscii a inquadrare la piccola figura che si spostava con una torre di cassette in mezzo al sentiero.
 
 Era lei la causa di quel frastuono.
 
Irina.
 
E ne reggeva talmente tante, di casse, che non riuscii nemmeno a guardarla in faccia. Così fissai la sua vita sottile, fasciata da una camicia inamidata. Mi superò con le mani tese e i piedi che scivolavano lentamente sul terriccio. Lasciò le casse vicino a un albero e si girò di scatto, ripulendosi le mani sul grembiule bianco. Perle di sudore le inumidivano la fronte. Aveva i capelli castani, appiccicati alle guance e, gli occhi nocciola carichi di determinazione. Non sembrava così forzuta. Avrei scommesso l’occhio buono che la tizia non avesse mai faticato così tanto prima d’ora, considerando come si sollevava affannoso il suo petto. La camicetta bianca dentro la gonna tortora delineava bene le sue curve, quelle poche che c’erano, regalandole un aspetto ordinato ma comodo.
 
Si accorse di me. Schiuse le labbra e si premurò di nascondere il suo stupore dietro una maschera di disappunto. Strinse i pugni e, camminò verso un’altra torre di casse lasciate nel bel mezzo dello spiazzo, proprio sotto i pali della luce. Era a disagio, lo notavo dal modo in cui le tremavano le mani. Cercava di non darlo a vedere ma, non poté nasconderlo a lungo visto che per poco un recipiente le scivolò sulla testa. Si incamminò per raggiungere l’albero e, appena mi passò di fronte, i suoi occhi cercarono i miei.
 
“Non è meglio lasciare questo compito alla donna barbuta o ad Onyankopon?” Chiesi con voce atona.
 
“Credevo che non volessi parlare con me.”
 
“Mi trovo costretto, visto tutto il baccano che stai facendo.”
 
Si morse il labbro inferiore e mi scoccò un’occhiata in tralice. “Poco fa è arrivato un camion pieno di scorte. E siccome non ho nulla per preparare la colazione, ho deciso di portare alcune casse vicino all’albero in modo da prendere l’occorrente senza…”strinse i denti. Le dita erano rosse sotto il bordo di legno ruvido, minacciavano di cedere da un momento all’altro. Si piegò sulle ginocchia e, con un certo sforzo, le buttò a terra sollevando uno strato di polvere.
 
“Irina.” Da un vicolo stretto sbucò Onyankopon. Anche lui aveva la pelle coperta da linee di sudore e reggeva sulle spalle altre tre casse di pomodori. Non l’avevo mai visto con un’espressione così preoccupata per roba del genere, ma dal modo in cui guardava la ragazza, compresi che anche lui avesse intuito di trovarsi davanti a un elemento alquanto disturbante. Le andò incontro e, con un certa delicatezza, le strinse le spalle e le sorrise smielato. “Ascolta, abbiamo scaricato tutta la merce. Vai a cucinare, non puoi pensare anche a questo. Ti sentirai male.”
 
Non accolse bene la critica. Si accigliò, corrugando la fronte e stringendo le labbra. “Sto bene. Ce la faccio, se ci sono altre cose da portare qui, vado a prenderle.”
 
“C’è Yelena che mi sta aiutando, non serve, veramente.” Era in difficoltà. I suoi occhi cercarono i miei, ma se possibile mi accigliai di più. Non desideravo assolutamente mettermi in mezzo, specie se c’era quella donna che non sapeva stare un attimo ferma. E onestamente, non ero nemmeno dell’umore adatto per assistere a una scenata di quel tipo. Avevo altro a cui pensare. Per esempio, potevo rendere la mia presenza più utile e scappare via da quella città fatta di tende.
 
Un’ora dopo, la luce del sole scaldò la terra e si infranse sulle grosse pozzanghere che accerchiavano l’accampamento. Gli uomini si svegliarono e andarono in soccorso di Onyankopon, aiutandolo a sistemare le scorte che avevamo ricevuto. Le donne si affrettarono a stendere i panni, a dare una mano ai bisognosi. C’era gente che era messa peggio di me. Gente che non aveva gli arti, a cui mancava totalmente la vista e che era rimasta paralizzata in un letto. Nessuno era rimasto indifferente a tale dolore e chi poteva, aiutava.
 
I bambini, di tutti quei problemi, sembravano esenti, come se fossero protetti da un’armatura e non riuscissero a vedere oltre a un mondo fatto di giochi e favole. Si rincorrevano felici, gridavano, saltavano, ballavano e si chiamavano per nome. Io li fissavo in silenzio sotto l’ombra della mia tenda e, senza saperlo, loro mi diedero in qualche modo un buon motivo per affrontare il nuovo giorno. Da una parte ero stupito da come avessero reagito a un evento così catastrofico, dall’altra ne ero affascinato. Vederli sorridere mi faceva credere che, magari, l’umanità avrebbe potuto rialzarsi senza commettere certi errori, che la felicità esisteva anche se era sul volto di creature innocenti. Tutto ciò, per il mio spirito ormai frantumato, fu catartico.
 
Feci scorrere i palmi sulle ruote della sedia a rotelle, avanzai sulla stradina e raggiunsi Onyankopon. Si passò una mano in faccia e si voltò per guardarmi.
 
“I braccianti sono già partiti?”
 
“Il primo gruppo sì, ma c’è già gente che si sta preparando per andare a lavorare.”
 
La notizia mi soddisfò. Ignorai il disappunto nell’espressione di Onyankopon e lanciai un veloce sguardo alla tenda dove nascondevamo gli attrezzi. “Bene, digli di aspettarmi.”
 
“Aspettarti?” Si pulì in fretta le mani e mi corse dietro. Mi serrò il percorso, parandosi davanti a me. Si chinò in modo da guardarmi bene in faccia e si morse l’interno della guancia. “Cosa vuoi fare?”
 
“Vado con loro a lavorare.”
 
“Levi ti prego…”
 
“Non iniziare a blaterare,” indicai con il pollice la viuzza che conduceva al mio alloggio momentaneo. “Se credi che rimarrò rinchiuso in quella tenda a riposare, bè ti sbagli. E non starò nemmeno qui a dare le caramelle ai mocciosi. Ottima mossa la tua, ma non attacca più. Quindi, aiutami a trovare gli attrezzi o fatti da parte.” Sapevo che era contrario alla mia iniziativa e lui sapeva che non mi avrebbe schiodato dalla mia decisione. Non era stato poi così male passare del tempo con i ragazzini, ma se avessi continuato a stare fermo, mi sarebbe scoppiata la testa. Dovevo fare qualcosa. Ce la potevo fare. La forza fisica non mi aveva mai abbandonato e, una vecchia ferita, sicuramente non mi avrebbe rovinato la vita.
 
Sospirò e strinse i palmi sui pantaloni color burro.
 
“Levi, io non posso. Aspetta qualche altro giorno…”
 
“Sono anni che continui a chiedermi di aspettare.”
 
“E allora che sarà mai attendere un po’ di più? Non abbiamo un bravo dottore nel campo, lo sai, e le tue condizioni sono già preoccupanti. Siamo in ginocchio. Ci dobbiamo occupare di questa gente, ma tempo due settimane e arriveranno i ragazzi con un’equipe pronta a soccorrerci.” I ragazzi. Parlava di Armin e gli altri che erano a Hizuru.
 
Era proprio la fine del mondo. E potevo anche sforzarmi a comprendere i suoi sproloqui. L’unico dottore mezzo decente in zona, riusciva a darti qualcosa per un banale raffreddore, ma di certo non avrebbe potuto trattare una ferita seria come la mia, anche perché non c’erano gli strumenti adatti. Serrai le palpebre, sentii un soffio d’aria sulla fronte, segno che Onyankopon si era spostato.
 
Siccome ragionare con gli adulti era un’impresa snervante, affidai a un moccioso il compito di recuperare almeno una zappa e portarmela. Quando avevo detto di voler andare con i braccianti, ero stato serio. Ma non mi piaceva perdermi in inutile chiacchiere. Attesi che mi fosse dato il necessario, appartato vicino a un piccolo falò, ormai spento. Il bambino con il cappello rosso, corse con gli occhioni sgranati verso di me, a mani vuote. Non comprendevo. Sollevai un sopracciglio e incrociai le braccia appena posò le manine ai lati del cuscino della carrozzella.
 
“Io non posso darti nulla.”
 
“Quando ti ho parlato la prima volta non mi hai detto così.”
 
Si morse il labbro inferiore e lanciò un’occhiata intimorita dietro le sue spalle. Seguii la traiettoria del suo sguardo e, al di là del piccolo spiazzo che ci separava dalla tenda degli attrezzi, inquadrai la figura della donna pazza. Mani sui fianchi, sguardo deciso e postura da comandante. Anche lei mi fissò con aria di sfida prima di spezzare il contatto visivo e scomparire dentro una strada adiacente.
 
“Ti ha detto lei di non darmi gli attrezzi?”
 
Il bambino torturò le dita paffute e fissò il punto in cui la ragazza si era fermata qualche secondo fa. “Emh, no?”
 
Quanta pazienza mi serve. Riempii i polmoni d’aria avvertendo l’odore ormai conosciuto della terra pungermi le narici. “Che ti ha detto?”
 
“Lei…” Passò qualche momento prima che gli occhioni puri del ragazzetto incrociassero i miei. “Però non dirle che io te l’ho detto.”
 
“È fatta.”
 
Lo dovetti convincere dal modo in cui rilassò le spalle. “Bè, mi ha detto che non stai bene, che non devo darti retta perché sei un musone cocciuto con un brutto carattere e che rischieresti di peggiorare la tua situazione.”
 
Musone cocciuto con un brutto carattere.
 
Digrignai i denti, strofinandoli tra loro. Quella ragazza chi cazzo l’aveva messa sulla mia strada? Non mi scomposi, pur sentendomi infastidito da questo nuovo titolo. Fissai il mocciosetto con risolutezza e mi assicurai che non ci fosse nessuno intorno quando proposi: “Se vai e fai quello che ti ho detto, ti darò qualche caramella.”
 
“Sul serio?” Puntini luminosi baluginarono nelle sue iridi.
 
“Hai la mia parola”
 


 
 
Lo sfondo che si palesò davanti ai miei occhi era ricco di colori e di vita. Non sembrava reale. Assomigliava molto di più a uno di quei dipinti su tela che avevo potuto ammirare nel palazzo di Historia, a Paradis. Il cielo avvolgeva la terra in una distesa infinita di azzurro e, sembrava così limpido e lucente, da ricordarmi la seta. Le nuvole si spostavano adagio, mosse da una leggera brezza. La terra, seppur martoriata dalla marcia dei giganti, sembrava morbida, pronta a ospitare nuove piante, nuova vita. Alcuni alberi delimitavano la pianura. Erano verdi e rigogliosi, quasi severi a una prima occhiata. Mi piacque pensare che fossero riusciti a sopravvivere a quell’apocalisse perché forti e impenetrabili.
 
Gabi fece scivolare da un recipiente alcuni rastrelli arrugginiti. Si raccolse i capelli in una coda e mi indicò i tavoli che erano stati sistemati in vicinanza. Potevamo mangiare fuori, subito dopo aver piantato gli alberi, senza dover tornare all’accampamento che era distante qualche metro da dov’eravamo. Non fu certo facile spostarsi con quel dannato affare. Le ruote a volte si incastravano al terreno o addirittura ci affondavano dentro. Non mi diedi per vinto. Arrivato nel primo spiazzo coltivato, scivolai dal cuscino imbottito, caricando il peso sulla gamba sana.
 
Aiutato da una vanga scavai, per circa venti centimetri, tanto da scoprire uno strato umido in profondità. Falco mi passò un piccolo alberello e io lo ricoprii di terra. Le mani erano sporche e le unghie erano intrise di lerciume. Ma non mi interessai, pur promettendomi di finire la giornata dentro la tinozza. Muovermi, piantare alberi, non sentire alcun commento inopportuno, mi aiutò. Anzi, sembrò avere l’effetto di un balsamo sui miei nervi scoperti.
 
“Non sei abituato a tutto questo?” Gabi poco prima di partire mi raggiunse nella panca e mi affiancò. Posò il cappello di paglia sul tavolo e scrocchiò le dita con un sospirò affaticato.
 
“Affatto.”
 
“Però è bello stare fuori, anch’io non ero più abituata. Nei ghetti non potevamo fare un granché e, quando uscivamo, lo facevamo solo per prendere parte alle guerre.”
 
Involontariamente le mie palpebre si assottigliarono e rughe di rammarico mi incresparono la fronte. Per quanto fosse stata grave la situazione a Paradis, non avevamo mai accettato ragazzini di dodici anni nel gruppo di ricerca. Certo, le reclute avevano anche quindici anni, un età molto tenera. Ma pensare a Gabi con il fucile in mano e immaginarla più piccola, costretta a combattere in un campo minato, mi fece attorcigliare le viscere dal nervoso. “
È così che dovrete vivere adesso. La tua unica preoccupazione sarà annaffiare le piante e crescere con la testa a posto, senza dare problemi.”
 
Mi guardò con i suoi occhioni colmi di determinazione. Mi sentii quasi rilassato nello scorgere le foglioline tenere agitarsi sotto i raggi ambrati del tramonto; tirai un sospiro di sollievo. Perché oltre alle morti, oltre alla sofferenza, stava crescendo qualcosa di buono, in quel posto. I cuori che i miei compagni avevano offerto, erano serviti a donare un angolo di paradiso ai più giovani. E io, anche se impossibilitato a camminare, avrei vissuto per loro. Avrei guardato attraverso i loro occhi il mondo che stava fiorendo. E avrei piantato alberi per ogni soldato che si era spento con la speranza di un futuro migliore.
 
 
 
Una giornata così interessante non poteva non concludersi con una buona tazza di tè nero. Mi piaceva rimanere un po’ solo quando le stelle ricoprivano il firmamento. Ammirarle in silenzio mi ricordava attimi di pace e, leniva le ferite del cuore. Il fumo bianco si distese nel blu infinito. I canti di alcune donne si alzarono e mi raggiunsero, ma non mi diedero fastidio, anzi, mi rasserenarono. Strinsi i polpastrelli sul bordo della tazza e posai il gomito sul ginocchio.
 
“Hai un minuto?” Scorsi il profilo della donna che infranse il mio angolo di pace. Si chinò e spostò con la mano alcuni rami che le si erano infilati tra i capelli.
 
“Direi di no.”
 
“Bè, io penso sia necessario parlare,” ignorando il mio palese rifiuto ad averla intorno, la ragazza si parò davanti a me, si inginocchiò e mi guardò dritto in faccia, senza nessun imbarazzo. Le sue labbra erano serrate e i suoi occhioni riflettevano il verde delle foglie che si agitavano dietro di me. Sembrava così tenace, come se la terra avesse piantato radici in lei. “È evidente che ci sia un problema, ma non possiamo ignorarci. Le tue occhiate torve, giuro che mi stanno facendo perdere la ragione,”sospirò. “Ma se ne discutiamo come due persone adulte, sono convinta che risolveremo la cosa.”
 
“Credo invece che potremmo continuare a ignorarci. Non abbiamo nulla da risolvere, io e te.”
 
“E se invece ci sforzassimo?” Tese le labbra, palesemente infastidita dalla mia risposta che non le lasciò un appiglio. “Senti,” respirò profondamente, come a riprendere il controllo di sé stessa. “Ho un’idea: ricominciamo da capo. Mi presento, sono Irina.” Mi tese la mano.
 
La guardai e, con la stessa espressione annoiata di sempre, cercai i suoi occhi. “Non ha senso quello che stai facendo. Io conosco il tuo nome e tu conosci il mio, dunque, se a parte questa pagliacciata del cazzo non hai nulla di serio da dire, io andrei.” Le ruote della sedia a rotelle strisciarono indietro, lasciando la ragazza allibita. Irina si allungò e sbatté le palpebre, mentre io le voltavo le spalle per tornare nella mia tenda.
 
“Quindi essere gentili per te è una pagliacciata?” La sua voce conservava l’astio che per tutto il tempo aveva cercato di nascondere.
 
Mi bloccai vicino al tronco. Persino uno come me, che non era affatto ferrato in materia di donne, sapeva che non avrei potuto comportarmi da stronzo e che invece avrei dovuto trattarla da gentiluomo. Non potevo di certo sferrarle un calcio come avevo fatto in passato con Eren, o addirittura afferrarla dal colletto e metterla a tacere. Non lo faresti mai, Levi. Ma lei sembrava abile a intaccare la mia calma. Mi voltai per incontrare il suo sguardo. ”Avevi detto di volerti comportare da adulta. Quindi, non venirmi a rifilare queste scemenze sull’essere gentili,” e smettila di preoccuparti di me, è snervante. Ma non glielo dissi. Già detestavo Onyankopon per tutte le premure non richieste, figuriamoci dover sopportare anche quelle di una sconosciuta.
 
“Dimmi, ti senti più maturo tu a corrompere i bambini con le caramelle per avere una zappa? Mi sembra logico.” Incrociò con aria sicura le braccia sotto il seno e mi scoccò un’occhiata quasi orgogliosa.
 
Ma guarda tu questa…
 
“Se ti sei delegata balia dei mocciosi, ciò non implica che io non possa offrirgli dei dolciumi quando vengono a chiedermeli. Non ho corrotto un bel niente.”
 
“Ah no?” Alzò il suo nasino, quasi sfidandomi.
 
Strinsi le labbra e assottigliai le palpebre. “No.” La mia voce era secca.
 
“Bè, sai che Raul ha trovato l’intera cassa di dolci e ne ha mangiati così tanti da avere male al pancino?”
 
Schioccai la lingua, non riuscendo a trattenere uno sbuffo.”Vai a fare la predica a lui se è così. Con la tua voce squillante, scommetto che lo metteresti in riga. Sempre che non sia già sordo per via dei tuoi rimproveri.”
 
“Io non urlò.” Asserì alzando la voce. Le labbra strette e le mani sulla vita.
 
“No, certo, e non sei nemmeno pazza.”
 
“Io pazza?” Si indicò con gli occhi sgranati.
 
“Di certo non sono stato io sbattere le casse questa mattina, rischiando di svegliare tutto l’accampamento.”
 
Le sopracciglia schizzarono in alto. Strinse il labbro superiore tra i denti, mosse un passo in avanti e mi superò.
 
“Sembra un complimento detto da un brontolone come te. Guarda, la colpa è mia perché non dovevo pensare di venirti a parlare.” Mugugnò qualcosa e agitò le mani in aria. “Dimentica tutto e rimani dove sei, 
io me ne vado via .”
 
“Bene.”
 
“Bene.” E riuscendo ad avere l‘ultima parola, scomparve illuminata dalle lanterne.
 
 
 
Note:
 
Perdonate il ritardo, eccomi con un altro capitolo. Ahhh gli enemies-to-lovers, quanto sono esilaranti(spero)? Siccome è uno dei miei trope preferiti, spero tanto che sia riuscita a scrivere qualcosa di decente. Prometto che tornerò a pubblicare presto. Ho bisogno di tempo per finire a postare l’altra mia storia e rivedere i capitoli di questa, ma ce la farò.
 
Grazie ai lettori e, in particolare a chi ha commentato lo scorso capitolo<3<3<3
 
Un abbraccio!
   
 
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