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Autore: Gloom    31/07/2010    2 recensioni
Polverano è un tristissimo paesino, dimenticato tra le montagne abruzzesi, ed è anche la nuova casa di Angela: quindicenne abbattuta che vi si è traferita per seguire sua madre.
Polverano è anche la casa di Corrado e Raffaele: due gemelli, amici per la pelle, che saranno i primi ad accogliere Angela.
I tre diventeranno inseparabili... abbastanza per aiutare Angela a far pace con il suo passato, con suo padre e con un paio di conti in sospeso.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa è la prima storia che pubblico... anzi, in realtà è proprio la prima storia che ho scritto, un paio di anni fa. Non ricordo come mi sia venuto in mente di scriverla, ma è la prima che è giuta alla fine.
Polverano, la città dove è ambinetato il tutto, non esiste.
L'ho inventato io, e forse è stata l'unica cosa intelligente che ho fatto: se avessi messo i miei personaggi a vivere nella mia vera città, molto probabilmente non avrei mai finito né questa storia né tutte le altre che sono seguite. Senza che sto qui a rompere per spiegare il perché, era solo per avvertire che Polverano non esiste.
 Come tutto il resto, d'altra parte: Angela, Corrado e Raffaele sono usciti fuori dalla mia testolina bacata, come le vicende che affronteranno.
Spero che piaccia... se poi vi viene in mente di recensire, fatelo, per carità! Sono molto più terrorizzata dal non essere cagata da nessuno, piuttosto che dal ricevere critiche :)




Ci sono centinaia di città delle quali nessuno sospetta minimamente l’esistenza; solo gli abitanti sanno dove si trovano, per il resto rimangono totalmente ignorate.
Una di queste è Polverano: città è una parola grossa, a me sembrava ancora un paesino mezzo sfigato pieno di pastori intenti a pascere le pecore.
Non si è ancora capito dove sia; potrebbe essere uno qualunque di quegli agglomerati di case che si vedono sbucare tra le montagne abruzzesi passando per la A 24.  
Quando noi ci arrivammo, il tempo non sarebbe potuto essere più desolante: il cielo era di un bianco accecante, con qualche goccia di pioggia che cadeva formando graffi bagnati sui finestrini dell'automobile; il vento spazzava tutto violentemente, con gli alberi che si piegavano infastiditi alle raffiche. E, particolare alquanto inquietante, dopo la prima galleria si cominciò a leggere “attenzione: animali vaganti sulla strada” sui cartelli elettronici.
Era una cittadina che non mi piaceva neanche un po': buttata tra le più alte montagne peninsulari del nostro Paese, si era fermata alla metà del secolo scorso insieme ai suoi abitanti.
O almeno, così la vedevo io.
Tuttavia sarebbe stata la mia casa fino a quando non avessi raggiunto l'età giusta per scappare in California o in India o sull'Himalaya.
Ci ero stata poche volte, e tutte quando ero ancora piccola: di solito andavamo a trovare la vecchia zia di mia madre, che aveva trascorso tutta la sua esistenza nella casetta incastrata tra i vicoli di Polverano. Ma da quattro anni la zia non c'era più e con lei erano finiti i motivi per venire...
Fino a qualche mese fa.
Fino a quando mamma non si è accorta dell'inferno che la stava avvolgendo in città e si è decisa a fuggire per ricominciare da capo una vita. O almeno provare... perché rimanere con mio padre era fuori discussione. 
La casa era come la ricordavo, con l’intonaco della facciata che cadeva a pezzi; solo il fazzoletto di terra pomposamente chiamato giardino si era un po' inselvatichito, con i trifogli che prosperavano clandestinamente insieme alle erbacce, dove il suolo non era coperto dai mattoni.
Mamma parcheggiò la macchina, scese e, guardando anche lei l'eredità della zia, sospirò: -non sarà una reggia, ma con un po' di lavoro sarà carina. Non credi?-
Uscii dalla piccola utilitaria buttandomi la sacca sulle spalle. Per arrivare a Polverano dalla nostra ex città non ci voleva molto, solo una quarantina di minuti, ma ero comunque troppo sfiancata: per tutto il viaggio avevo faticato a trattenere le lacrime.
Riuscii comunque ad arrangiare una risposta: -bé, no, non sarà malaccio...-.
Non lo pensavo. Non sapevo cosa pensare.
Non avevo la minima intenzione di rimanere in città se l'unica alternativa era andare a stare da mio padre, ma lasciare tutto (gli amici, la scuola, la casa) per venire a vivere a Polverano, il paese dimenticato dal mondo, non mi riusciva facile.
Eppure nel mese precedente al trasloco avevo cercato di mostrarmi, se non felice, almeno non triste a questa prospettiva. Se non altro per non farlo pesare a mia mamma.
Lei si avvicinò alla porta, scrollando un mazzo di chiavi per cercare quella giusta. La trovò e la infilò nella toppa. Dopo quattro anni di inattività evidentemente la porta era restia ad aprirsi, tuttavia, mamma diede una spallata e quella si schiuse sconfitta.
L'interno mi fece pizzicare il naso e gli occhi: c'era odore di chiuso nell'angusto corridoio, e polvere dappertutto che si alzava in nuvolette ad ogni passo.
Mamma cercò a tentoni l'interruttore della luce e, quando lo trovò, due vecchi lampadari (gli orribili lampadari anni '20) sprigionarono una debole luce, sufficiente appena a rischiarare tre porticine in fondo che conducevamo al bagno e alle camere da letto, e al lato un arco che introduceva a una tetra sala da pranzo, in cui erano decenni che non veniva servito un pasto. 
In silenzio, vagammo per la casa (evitando ragnatele penzolanti da chissà quanto tempo) ad aprire le imposte e le finestre.
La casa era desolata: forse le uniche forme di vita che riusciva ad ospitare erano acari della polvere, nascosti tra le pieghe dei lenzuoli che coprivano mobili indefiniti.
Indefiniti ed inquietanti. Rabbrividii al pensiero che quei mobili avrei dovuto usarli io. Mi faceva orrore anche solo la prospettiva di dover scuotere quei teli, come se invece di innocui lenzuoli fossero sudari avvolti intorno a cadaveri che giacevano indisturbati lì da anni.
Non mi piacque quella casa: come l'antica proprietaria, che nel tempo si era fatta sempre più avvizzita e prigioniera di un passato glorioso, anche qui alcuni dettagli testimoniavano una vecchia raffinatezza, ormai portata via dal tempo.
Il pavimento del corridoio era delizioso, di mattonelle decorate da venature che si intrecciavano a formare fiori intricati, ma era appiccicaticcio e coperto da uno strato di polvere; c'erano le porte di legno ai cui angoli erano dipinti motivi curvilinei, ma rimasti troppo tempo in ombra e scorticati; infine scoprii dentro la vetrinetta in sala da pranzo dei soprammobili semplici e di buon gusto, ma nascosti al mondo da un ennesimo lenzuolo che un tempo doveva essere stato bianco e che ora presentava alcune macchie di un dubbio giallastro.
Tastai un po' prima di estrarne uno a caso e mi ritrovai a reggere un'ampolla in vetro colorato, a foggia di delfino che saltava da un'onda. Dove si trovavano più cose così raffinate?
Quell'ampolla mi piacque molto. Però mi fece pensare a quando era stata esposta sulla vetrinetta, quando all'anno della mia nascita mancavano probabilmente decenni e quella casa era ancora come un castello in miniatura, e mi prese un fondo di malinconia. O meglio, scavò ancora di più nella malinconia che provavo da...da anni, e che aveva preso forma  nel mese precedente.   
-Angela- chiamò mia madre -vieni, se vuoi puoi scegliere la camera da letto-. 
-Oh, d'accordo...- riposi con cura l'ampolla e tornai in corridoio.
Delle due camere da bambina ne vidi solo una: l'altra era la stanza della zia e, se anche mi fosse stato permesso di entrare, non l'avrei fatto per nulla al mondo: la zia puzzava, e pensavo che la sua camera fosse sempre permeata da quell'odore rivoltante. Per questo non ci misi molto a decidere:
-credo che qui starò bene- dissi mettendo il naso nella cameretta che dava sulla strada dietro la casa.
Non era molto più grande del bagno, era spoglia e sulle pareti c'erano macchie scure d'umidità. 
-Bene. Il camion dei traslochi arriverà tra un po', nel frattempo vado ad accendere l'acqua e il gas...- mamma sparì lasciandomi sola in quella stanzetta.
Mi avvicinai alla finestra. Oh, mi ero scordata che c'era pure un balcone.
C'era ancora un filo che correva a qualche centimetro dalla ringhiera, addirittura ci penzolavano una manciata di mollette per il bucato, con i colori portati via dalla troppa esposizione al sole. Uscii e ne presi una: appena tesi un po' la molla, mi si sbriciolò tra le mani con un suono secco.
Il groppo che avevo nella gola si sciolse, trasformando in lacrime quel pizzicorio agli angoli degli occhi che avevo associato alla polvere.
Sentii le lacrime scivolare giù per le guance, fino a lanciarsi terminando la loro caduta sulla felpa.
Avevo nostalgia delle mie migliori amiche, dei miei compagni di classe, della mia camera, della mia città, del cazzeggio in giro con gli amici, delle multisale e dei locali...tutte cose che qui non avrei mai trovato, perché qui era tutto più lontano, più dimenticato, più estraneo.
Nuove lacrime, questa volta di odio: odio verso quella persona che ci aveva costrette ad andarcene, con il suo egoismo. E di quella persona avrei dovuto per sempre portare il cognome.
E' orribile...odio mio padre.
Non avevo neanche la forza per asciugarmi la faccia. Rimasi per parecchi minuti in piedi fuori al balcone, con il sole autunnale che tramontava prematuramente, tingendo il paesaggio di una dolce tonalità aranciata. Se fossi stata più felice, mi sarebbe sembrato anche bello. 
Davanti a me si vedevano le case e i tetti di Polverano: case sparse sulle montagne, sembravano addossate sopra infinite salite e discese.
Alcune erano antiche come la nostra, ma altre sembravano più recenti. Molte di quest'ultime sembravano disabitate, con le imposte sbarrate, come se fossero in vendita. Mi chiesi chi mai avrebbe potuto desiderare di comprare casa a Polverano.
-Angela?- mi asciugai in fretta le lacrime prima di raggiungere mia madre.
-Angela, è arrivato il camion, possiamo cominciare...rimbocchiamoci le maniche, ce la faremo-.
Annuii e passammo un pomeriggio estenuante, dirigendo gli uomini della ditta che arrancavano sotto il peso dei nostri scatoloni.
Scoprii di averne voglia: faticare mi aiutava a non pensare, e quindi a non ricordare. Di sera la casa era già più abitabile, sebbene fosse ancora lontana dal nido che avevo sognato. D'altra parte, negli ultimi anni non mi ero sentita a mio agio nemmeno in casa mia in città. Forse avevo qualche problema di adattabilità.
Finalmente, dopo un paio di rapidi panini per cena (niente pasti caldi fino a quando non fosse arrivata la nuova cucina), potei augurare la buona notte e andare in camera: era talmente tetra che neanche la luce rassicurante della mia lampada da tavolo riusciva a nascondere i dettagli più inquietanti come le macchie di umidità sulle pareti.
Avrei dovuto faticare per ricavarne un buco in cui ricreare la mia tana. Però la scrivania in legno era enorme e ospitava un computer, finalmente tutto mio, e il mio vecchio tappeto a fantasia mi sembrò di buon auspicio.
Nell'angolo vicino la finestra c'erano un paio di scatoloni con tutti i miei effetti personali. Anche se la stanza era illuminata solo dal debole chiarore della lampada e sebbene fossi in pigiama e con una borsa dell'acqua calda tra le braccia, decisi comunque di aprirli.
Sapevo cosa c'era dentro, perché l'avevo riempiti io stessa la un paio di giorni prima: vecchi libri, quaderni, poster, cartoline, peluche di quando ero bambina, soprammobili, lo stereo con i cd, riviste... Una foto cadde dal fascio che avevo in mano: vidi me stessa sorridere ghignante, con ai lati le mie migliori amiche, Pu e Pam. Era estate, eravamo vestite con camicette leggere, e dietro di noi il sole splendeva alto tra le fronde dei bagolari del centro.
Dietro la foto c'erano le loro dediche, sotto una scritta colorata: "a Polverano non piove!!".
Sorrisi: la vecchia storia del "piove o non piove?" che si ripeteva ogni volta che non capivamo che tempo faceva fuori dalla finestra. Un'altra lacrima, l'ennesima. Non mi piacevano le lacrime. Mi asciugai la guancia e appoggiai la foto sul comodino.
  
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