Sei stato un dolore eterno ma nessuno, mai, mi ha fatto sentire tanto l’eco di me stesso.

Per lui era facile spiegare i modi di Artù, lo era sempre stato, come un gioco troppo semplice.
Se piegava la bocca in una linea dura era la furia a prendere il sopravvento ma se le ciglia tremavano adagiandosi sugli zigomi allora l’incertezza faceva vacillare un suo proposito.
Se non parlava e giocherellava con l’anello di Gwen che ancora portava, e che lui gli aveva chiesto di non togliere, allora si macerava nel dubbio ma se quello stesso dubbio veniva dissipato da una ragione più alta, come accadeva ai tempi in cui regnava, allora stringeva i pugni, le spalle risolute, il profilo austero.
Perfino se i suoi occhi si assottigliavano leggermente... se accavallava le gambe in una certa maniera... se i suoi capelli erano più scomposti del solito: il corpo di Artù gli parlava come un disegno copiato con carta carbone.

Perfino da quell’angolazione il viso di Artù era una maschera facilissima da leggere. Si nascondeva, nascondeva la propria incertezza e nascondeva un desiderio. Lo stesso che aveva acceso qualcosa nella sua gola, la voglia di mutare le sembianze di un ricordo, per quanto doloroso potesse essere.
Abbandonò la fronte sulla sua spalla, le dita si serrarono ai lacci della casacca, formando una piega morbida. I suoi capelli profumavano di terra e di notte.

Artù si avvicinò e poggiò una mano sul bracciolo del divano, l’altra sullo schienale, accanto ai suoi capelli. Merlino desiderò che li sfiorasse.
Lo sovrastava.
Lo completava.
Lo riempiva del tutto.
Artù combaciava perfettamente con i vuoti della sua esistenza.

Una volta aveva detto che vivere con Artù era come non averla la notte ma più andava avanti e più gli sembrava che quella acquistasse la segreta consistenza delle parole non dette, dei gesti furiosi, delle voci spezzate.

Le mani di Artù stringevano tanto forte il bordo del ripiano da aver perso colore. Merlino sapeva che a metterlo alle strette erano stati i suoi stessi gesti, il suo spingersi così oltre da osservarlo andare in pezzi e riportarlo indietro, il suo gemito nascosto alla prima spinta, il non essersi impedito determinate cose, come mordersi un poco il labbro mentre i loro fianchi si muovevano all’unisono. Tutte quelle cose lo avevano esposto e Artù era un miscuglio di orgoglio, desiderio di aprirsi e timidezza. Una timidezza della quale bisognava calcare bene i confini prima di azzardarsi a sfiorarla.

In poco tempo ogni aspetto della sua vita era mutato, ogni sensazione si era centuplicata, ogni abitudine divenuta diversa eppure una costante riusciva a trovarla: quei lineamenti che aveva percepito perfino nel sonno estremo della morte, che gli parlavano più della voce, instillando in lui desideri che non avrebbe mai pensato di poter provare.
Esprimeva una delicatezza definitiva, assoluta, eppure, esattamente come un fiore che resiste alle gelate, accogliendo con pazienza la brina ghiacciata dell’inclemente inverno, aveva saputo attendere la primavera.
Lo aveva aspettato. Per secoli.

Sentì che qualcosa lo liberava… come la sensazione di libertà che si prova nel sentirsi togliere delle catene… o come l’abbandono di un fiore che si sciupa, chinando il capo all’incedere dell’inverno…
I fili argentei della barba e dei capelli si staccarono volteggiando sino a terra, spargendosi sui suoi abiti e disfacendosi come polvere, petali di soffioni che docili, si lasciano spogliare da mani gentili.
Le rughe si distesero e i capelli corvini comparvero sino a sfiorare la fronte, leggeri.
Ma le lacrime seguitarono a cadere, anche quando si alzò, reggendosi al divano per l’ansia, con le ginocchia che cedevano.
Avvicinarsi e vacillare… e aggrapparsi alle sue spalle… e toccarlo...
Merlino si accasciò a terra, reggendosi alla sua vita e pianse.
La mano di Artù fra i capelli, come l’ultimo tocco che gli aveva donato.
Ancora, le lacrime di mille anni, non erano stanche.

Seguito de "LA MAGIA CHE NON SI VEDE".
Veder sorgere il sole ogni giorno in un luogo diverso si era rivelato un curativo contro il dolore; sapere di trovarsi lontano, leghe e leghe di distanza dal suo passato riusciva a regalargli qualche respiro in più.
Ma non appena si spostavano più vicino il petto si restringeva, il fiato vi restava intrappolato dentro.
Udire quel nome era dolore liquido.