Capitolo XXIX
Stavolta, quando ripresi conoscenza,
mi ritrovai in ambulanza, con
la testa in grembo a Stefano e le gambe distese lungo una specie di
sedile
doppio che si trovava nel lato opposto alla barella. Mentre
un’infermiera o
quel che diavolo era si occupava di Enrico, sdraiato apparentemente
privo di sensi
sulla lettiga e con la camicia zuppa di sangue aperta sul petto, io
cercai di
alzarmi per mettermi a sedere, ma una mano di Stefano sulla spalla mi
fece
gentilmente cambiare idea.
“Cos’è
successo?” Mormorai, strofinandomi gli occhi. Mi sentivo
tutto il corpo intorpidito, senza contare il terribile mal di testa che
mi
faceva pulsare le tempie, ma non osai lamentarmi visto che Enrico era
ancora
più pallido e insanguinato di prima – Dio mio,
doveva avere delle brutte
ferite.
“Hai avuto uno shock, niente
di eccessivamente grave”, spiegò a
mezza voce Stefano, chinandosi appena verso di me. “Adesso
stiamo andando in
ospedale. Ho trovato il tuo cellulare e ho chiamato i tuoi genitori,
dieci
minuti fa.”
Quella non era una grande notizia. Che
cosa diavolo avrei
raccontato ai miei genitori? Che uno degli amici del mio
‘ragazzo’ aveva
cercato di violentarmi e che lui l’aveva ucciso? Dio mio,
sarei stata fortunata
se mi avessero rinchiuso in casa per il resto dei miei giorni! E dire
che avevo
promesso a mia madre che tutta la faccenda di Enrico non mi avrebbe
distratta dai
miei obiettivi scolastici…
“Non pensarci,
adesso”, aggiunse, come intuendo l’ingarbugliato
flusso dei miei pensieri. “Vedrai, andrà tutto
bene.”
Istintivamente lanciai
un’occhiata ad Enrico, e a voler essere
sincera pensare che tutto sarebbe andato bene era l’unica
cosa che non credevo
di poter fare. Mi sfuggì un singhiozzo e chiusi gli occhi,
mentre Stefano si
spostava leggermente per rendere la posizione il più comoda
possibile. Non mi
addormentai, non credo, almeno, ma rimasi sdraiata così fin
quando l’ambulanza
non raggiunse l’ospedale e quel rumore fastidiosissimo che
solo dopo compresi
essere la sirena si spense.
In ospedale venimmo raggiunti dalla
polizia, pochi minuti dopo che
Enrico era sparito all’interno del reparto – io e
Stefano eravamo rimasti
fuori, nella sala d’attesa, e lui mi aveva spiegato
brevemente che il primario
era un conoscente della famiglia D’Angelo. Ma che
casualità…
Lasciai che fosse lui a rispondere
alle domande degli agenti,
perché io ero ancora troppo sotto shock per riuscire a
formulare un pensiero
coerente – figuriamoci per sostenere un interrogatorio,
seppur così informale.
Grazie a Dio non molto tempo dopo arrivarono anche i miei genitori, e
visto che
in quanto a conoscenze neppure mio padre era da meno, riuscì
a convincerli a
lasciarmi in pace il tempo di riprendermi. Inutile dire che, stretta
tra le
braccia di mia madre e con mio padre seduto dall’altro lato,
con un’espressione
severa e vagamente minacciosa in viso – come se stesse
scoraggiando chiunque dall’avvicinarsi
– mi sentii subito meglio. Balbettando e mormorando a fatica,
raccontai a
grandi linee a mia madre quello che era accaduto, e anche se non potevo
vederlo
sentii mio padre irrigidirsi dietro di me; riuscii persino a piangere,
seppellendo i singhiozzi e i tremiti contro di lei.
Parlai senza pensare alle conseguenze
– in fondo ero stata
testimone di un omicidio, pur con tutte le attenuanti di questo mondo,
e non
avevo idea che quello sarebbe stato solo l’inizio
dell’ulteriore girone di
stress e inquietudine nel quale stavo per addentrarmi. I poliziotti
raccolsero
la deposizione di Stefano ma non se ne andarono, restando fuori dalla
sala
d’attesa e continuando a mettermi agitazione con la loro
semplice presenza
fisica: distrattamente, infatti, li udivo discutere a mezza voce e
accettare
telefonate in continuazione – probabilmente erano in contatto
con i loro
colleghi rimasti alla villa di Enrico, a studiare il “luogo
del delitto”.
L’intera situazione era talmente tanto assurda e al di fuori
della portata del
mio radar abituale che avevo in un certo senso staccato la spina con
quella
realtà, smettendo di piangere e di pensare, iniziando a
convincermi che tutto
quello che mi era appena successo era soltanto un incubo, o
un’allucinazione, o
qualsiasi altra diavoleria possibile – Cristo santo, non
potevo semplicemente
rassegnarmi all’idea di aver appena vissuto una cosa del genere!
Dopo aver ottenuto il permesso dei
poliziotti, Stefano telefonò
anche alla sua famiglia e, suppongo, contattò gli altri
ragazzi rimasti alla
villa per informarsi sulla situazione. Non ebbi più modo di
parlare con lui, lo
osservai dall’abbraccio di mia madre con aria distratta,
quasi svagata, mentre
faceva su e giù con la maglietta macchiata di sangue
– di chi? –
nella saletta, il telefono all’orecchio e la voce
talmente tanto bassa da dare l’impressione che invece di
parlare muovesse solo
le labbra.
Ogni tanto usciva
un’infermiera, ignorava gli sguardi intimidatori
dei poliziotti e si avvicinava a me per controllare il mio stato. Mi
sfiorava
fronte e guance, controllava il battito del cuore dal polso, gli occhi
arrossati e poi suggeriva di farmi ingurgitare qualcosa di dolce, ma il
mio
stomaco era più annodato dei nodi del Capitan Findus, quindi
tutto ciò che
riuscivo a mandar giù era un bicchiere di acqua e zucchero.
Quando arrivarono i genitori di
Enrico, i tre agenti impedirono
loro di entrare in reparto. Li trattennero fuori, tempestandoli di
domande e di
chissà cos’altro, ma si vedeva lontano un miglio
che il padre fosse incazzato e
preoccupato insieme e che Betta stesse tremando di apprensione. Appena
mi vide
trasalì e, se possibile, impallidì ancora di
più – qualcuno doveva averle
raccontato la versione riassunta di quanto era successo – e
non riuscì a
trattenersi dall’avvicinarsi a me. Mi accorsi vagamente come
i miei genitori si
fossero mossi quasi in contemporanea per proteggermi anche da lei, ma
io
mugugnai contrariata e mi spostai da mia madre per venire abbracciata
da quella
di Enrico. Mi strinse e singhiozzò contro di me, mi
baciò sulla fronte pallida
e gelida, poi si voltò verso mia madre e le prese una mano,
limitandosi a
guardarla. Credo che tra madri si compresero più di quanto
potessi immaginare,
perché vidi la mia accennare un sorriso tra le lacrime e
Betta fare
altrettanto: mi fece piacere che i miei non accusassero lei per tutto
quel
casino – non era certo colpa di quella donna se Enrico
conduceva quella vita e
se io ci ero finita dentro, quanto piuttosto del marito, e se
c’era qualcuno da
biasimare in quella storia non era neppure Enrico, era Raffaele.
Poi non so di preciso cosa accadde
– forse la scarica di
adrenalina che mi aveva tenuto in piedi in tutto quel frattempo si era
infine
esaurita e mi aveva fatta crollare, esausta e addormentata.
Quello che so è che quando
mi ripresi ero di nuovo a casa mia, nel
tepore confortante del mio letto, stretta ad un cuscino bagnato che
dovevo aver
inzuppato con una sorta di pianto inconscio.
Non uscii di casa per tutta la
settimana seguente.
Sussultavo al minimo rumore brusco che
spezzava la quiete della
mia stanza, tremavo se udivo un ramo spezzarsi al di sotto della mia
finestra,
dormivo con le finestre chiuse e con la lampada del comodino sempre
accesa,
proprio io che non avevo mai avuto problemi ad addormentarmi al buio.
Il
dottore mi aveva prescritto delle pastiglie per farmi dormire in ogni
caso, e
non mi vergogno di dire che ne feci largo uso, soprattutto i primi
giorni.
Almeno, quando dormivo, non sognavo le mani viscide di Lorenzo addosso
a me.
Il mio cellulare rimase spento,
così non sapevo se Enrico aveva
provato a contattarmi o se lo aveva fatto Stefano, o qualcuno dei miei
amici.
So che Alessandra venne diverse volte a casa mia per trovarmi, ma io
non volevo
vedere nessuno, tantomeno lei, quindi tutto ciò che mi
restava di queste brevi
e timide visite era la voce preoccupata di mia madre che mi riportava
gli
auguri di pronta guarigione della mia migliore amica.
Le uniche persone che volevo vedere
erano mia madre, mio padre,
mia sorella e mia nonna – tutti gli altri, zii e amici vari,
erano tenuti
severamente fuori dalla mia stanza. Non avevo idea di ciò
che stava succedendo
al di fuori di quelle quattro pareti – solo tempo dopo venni
a sapere che in
tutto quel mentre ero stata protetta anche dai giornalisti, come se la
mia
tragedia in sé non bastasse.
Eppure, grazie alla lingua lunga di
mia sorella, scoprii che mia
madre si sentiva più o meno ogni giorno con Betta. Come
diavolo era possibile?
Perché si teneva in contatto con quella famiglia? Non ero
stata forse
abbastanza chiara, al riguardo? Non le avevo forse detto che non avrei
più
voluto averci nulla a che fare? Perché era ovvio che quelle
due non si
sentissero per scambiarsi ricette e chiacchiere di cose futili, visto
che la
figlia di una aveva rischiato lo stupro e il figlio
dell’altra, a quanto ne
sapevo io, era ancora in ospedale a riprendersi dalla sparatoria. Non
so se in
tutto questo c’entrasse in qualche modo Enrico –
sinceramente non ne dubitavo,
conoscendolo: probabilmente aveva chiesto lui a Betta se poteva
scoprire che
cosa mi era successo, dato che ero scomparsa nel nulla; ma, anche se
così non
fosse stato, non mi piaceva l’idea che le nostre due madri
facessero
combriccola rendendo poi inevitabile un nostro futuro incontro.
Incontro che, come avrei dovuto
immaginare, non avvenne a distanza
di molto tempo. Anzi; appena sette giorni dopo l’accaduto,
quando i miei genitori
mi accompagnarono in ospedale per delle visite di routine –
il dottore voleva
assicurarsi che non fosse più necessario prescrivermi i vari
sonniferi o
qualunque altra cosa mi avesse somministrato in quel frattempo
– fu inevitabile
incontrare, nella hall dell’edificio, la madre di Enrico che
si era allontanata
per cinque minuti dal capezzale del figlio per prendersi un
caffè al bar.
Il mio primo pensiero fu quello di
nascondermi ed evitarla: la
variante Betta portava immediatamente alla variante Enrico, e dopo una
settimana non avrei potuto incontrare una senza incappare
nell’altro; tuttavia,
mia madre le aveva già fatto un cenno da lontano e, mentre
mio padre si
dirigeva allo sportello dei ticket, io venni trascinata in un abbraccio
lacrimevole e sinceramente commosso dalla matrigna del mio Grosso
Problema
Numero Uno. O “ex”, come l’aveva
recentemente ribattezzato mio padre.
“Enrico sarebbe felice di
vederti, tesoro”, mormorò, dopo
un’educata serie di convenevoli. “Adesso mi sono
allontanata per farlo riposare
un po’, ma credo che non gli darebbe fastidio se andassi tu a
trovarlo. Cosa ne
dici? Te la senti?”
In un’occasione normale la
mia risposta sarebbe stata no, assolutamente
no, nel modo più assoluto,
scordatelo, strappami la milza piuttosto, ma quella non era
un’occasione
normale e io avevo mia madre dietro che mi punzecchiava e mi lanciava
occhiate
penetranti che mi intimavano in silenzio di essere gentile con Betta e
che
andare a scambiare due parole con Enrico non mi avrebbe di certo
uccisa. Per cui,
sentendo già l’agitazione scorrere in ogni singola
vena del mio corpo, annuii
poco convinta e mi lasciai spiegare la strada per raggiungere il suo
reparto e
la stanza: le due donne non sarebbero venute con me, a quanto pare
quella era
una cosa che avrei dovuto fare non accompagnata. Perfetto, davvero.
Per cui, visto che comunque avrei
dovuto aspettare prima che
arrivasse il mio turno per entrare dal dottore, mi diressi senza troppo
entusiasmo verso il quarto piano.
Le infermiere, per fortuna o per
sfortuna, mi riconobbero e mi fecero
passare senza fare storie.
Quando entrai nella stanza di Enrico,
questa era immersa in una
confortevole penombra e da un fastidioso silenzio, rotto solo dal
leggero
gocciolio che faceva la sostanza nella flebo man mano che il liquido
scivolava
nel tubicino trasparente. Malgrado la tristezza dell’ambiente
in sé, quella
camera non era male: tanto per cominciare era per una sola persona,
c’era la
televisione, un armadio e un tavolo per mangiare, poi sul comodino
c’era un
vasetto di una qualità di fiori che non conoscevo ma che
faceva un buon
profumo, portato sicuramente da Betta, e che rallegrava la stanza.
Chiusi la
porta alle mie spalle con delicatezza, in modo da non far svegliare
subito Enrico,
e con un brivido di nervosismo lungo la spina dorsale mi guardai
intorno,
torcendomi le mani. Dio mio, che cosa ci
facevo lì? Perché mi ero lasciata convincere?
Accanto al letto c’era una
sedia, o meglio, una specie di
poltroncina, e visto che era l’unico posto nel quale potevo
sedermi fu lì che
mi diressi, camminando praticamente in punta di piedi. Tolsi il libro
che vi
aveva lasciato la madre – Mille
splendidi
soli, a quanto pare io e Betta avevamo letture in comune
– e mi sedetti,
spostando leggermente la sedia in modo da non essere troppo attaccata
al letto.
E adesso non sapevo che cosa fare. Svegliarlo era fuori discussione:
non volevo
anticipare il momento della verità, soprattutto dato che non
avevo alcuna idea di
come affrontarlo; d’altra parte, non è che potevo
rimanere in eterno lì ad
attendere che il bell’addormentato abbandonasse il mondo dei
sogni – Betta
poteva fare di tutto per trattenere i miei genitori giù al
bar, ma
probabilmente si sarebbero stufati in fretta di aspettare. Soprattutto
mio
padre, che non mi era sembrato molto propenso a lasciarmi andare da
sola a
parlare con Enrico. E come biasimarlo?
Comunque, non ero arrivata che da
cinque minuti, più o meno,
quando il ragazzo che dormiva beato nel letto d’ospedale
iniziò a muoversi.
Vidi il suo respiro cambiare ritmo, le palpebre serrarsi con forza come
a voler
trattenere un sogno, e le labbra socchiudersi per rilasciare un ansito
quasi
doloroso: evidentemente neanche per lui il sonno indotto dai farmaci
era troppo
pacifico. Poi gli occhi si schiusero, le sopracciglia si aggrottarono,
e la
testa si mosse debolmente come per cercare la madre; e invece fu me che
trovò.
In un primo momento non parlammo: ci
limitammo a fissarci a
vicenda, Enrico probabilmente troppo sorpreso dalla mia presenza per
dire
qualcosa, e io troppo scioccata dal fatto di essere davvero
lì, con lui,
malgrado quanto mi fossi ripromessa di fare.
Sostenere il suo sguardo mi fu
impossibile. “Non sarei dovuta
venire qui”, mormorai, alzandomi di scatto e barcollando
lievemente per la
fretta con la quale mi ero mossa. Tuttavia lui fu ancora più
veloce di me,
perché malgrado le sue condizioni riuscì ad avere
abbastanza riflessi da
afferrarmi il polso con la mano collegata alla flebo, e con essa
trattenermi
con una forza sorprendente accanto al lui.
“No, per favore”,
furono le sue prime parole, roche e sussurrate.
“Giulia, dobbiamo… parlare.”
Distolsi lo sguardo da lui, contai
fino a cinque, presi un
profondo respiro e poi tornai a guardarlo. “Hai ucciso un
uomo, Enrico. Non c’è
molto di cui parlare”, mormorai, dicendo per la prima volta
ad alta voce le
parole che mi avevano torturato in quell’orrenda settimana.
“Ti prego, siediti. Voglio
che ascolti quello che ho da dire”,
ripeté supplicante, guardandomi con quegli occhi verdi
annebbiati dagli
antidolorifici e chissà cos’altro. Non
l’avevo mai visto in quelle condizioni,
e non parlo della flebo e tutto il resto, per cui probabilmente fu quel
maledetto
istinto da madri barra infermiere che posseggono in linea di massima
tutte le
donne a riportare il mio sedere su quella sedia e a mettermi in
predisposizione
d’animo di ascoltarlo. Era strano come il mio cervello
tendesse a scindere lui
dalla faccenda di Lorenzo, come se le due cose, in realtà,
non fossero
collegate; guardando in faccia Enrico, infatti, mi risultava sempre
più
difficile riaggrapparmi all’immagine di lui che sparava
all’amico, quasi che
questa seconda figura non esistesse che all’interno della mia
mente. Oh mio
Dio, stavo già impazzendo? Alessandra aveva avuto ragione,
quando aveva detto
che avrei avuto bisogno di una terapia.
“Cazzo, mi fa male vederti
così, e sapere che per la maggior parte
è colpa mia…” Gli scappò a
mezza voce, mentre continuava a tenere la mia mano
stretta nella sua. “Ascoltami, non posso scusarmi per quello
che è successo.
Era inevitabile, Giulia. Non potevo fare altrimenti… era me
o lui! E comunque
credo che l’avrei fatto lo stesso per il modo in cui ti ha
trattato.”
A quel punto feci per staccarmi dalla
sua presa – toccarlo mentre
diceva quelle cose era intollerabile, per quanto in fondo mi
dispiacesse, mi
ispirava solo disgusto – ma tendo sempre a dimenticare che
Enrico ha una forza
particolare, e non fu difficile continuare a trattenermi. “No, ascolta!” Riprese con
maggior vigore, notando il mio tentativo
di fuga. “Ascolta. Non
avrei mai
voluto che assistessi a una cosa del genere, e mi dispiace, davvero. So
di non
poterti chiedere di perdonarmi, non adesso almeno…
Però mi dispiace. Io spero
solo che… beh, mi auguro che tu possa riuscire a guardarmi
di nuovo come facevi
prima, non con questi occhi terrorizzati, come se io fossi il mostro
che
spaventa i bambini. Non ho mai voluto spaventarti, Giulia, lo
sai…”
“Dio mio, ti rendi conto di
quello che stai dicendo?” Lo
interruppi, riuscendo finalmente a far sì che mi lasciasse
la mano e
stringendomela in grembo, sentendola improvvisamente fredda dopo il
lungo
contatto con lui. “Credi che tutto possa tornare come prima?
Con la situazione
che c’era? Sarebbe tutto molto diverso se io provassi
qualcosa per te, Enrico,
ma ora come ora mi stai chiedendo l’impossibile. Sono venuta
solo perché mia
madre e tua madre mi hanno convinta, ma era per dirti addio, non certo
per fare
pace o chissà cos’altro. Per cui non cercare di
giustificare le tue azioni o
cose del genere, tanto non serve a niente.”
Come se non capisse le mie parole, o
meglio, come se non volesse farlo,
Enrico aggrottò le
sopracciglia e all’improvviso la sua espressione divenne
furiosa. “Menti
sapendo di mentire”, sibilò, incapace di
trattenere la rabbia. “Sei davvero
convinta di non provare niente, per me? E allora, tutte le tue premure,
le
nostre serate, i nostri baci non
significano niente? Ci conosciamo da più di due mesi, ormai,
non riuscirai a
farmi credere davvero che io non conto nulla per te!”
“Non ho detto
questo”, ribattei, senza guardarlo direttamente
negli occhi. Non ce la facevo. “Ho detto solo che qualsiasi
cosa ci sia tra
noi, o meglio, ci sia stata, non
è
sufficiente a farmi superare questa… tutto quello che
è successo. E tu non puoi
chiedermi di farlo, cavolo, neanche tu puoi essere così
egoista”, aggiunsi
abbassando la voce. Mi massaggiai le tempie, che già
iniziavano a pulsare per
un imminente mal di testa; tutta quella discussione non mi aiutava di
certo a
stare meglio.
“Ma cazzo,
Giulia!” Ringhiò a mezza voce, sforzandosi di
mettersi
a sedere con notevole sforzo. Non feci nulla per aiutarlo, limitandomi
ad
osservarlo con uno sguardo tristemente neutro. “Mi vuoi
punire per aver cercato
di proteggerti, di difenderti? Di che cosa mi avresti accusato se
invece non
fossi venuto in tuo soccorso? Avresti cercato una scusa per mollarmi in
ogni
caso, non credere che non lo sappia!”
“Oh, smettila di fare queste
scene, Enrico. Troverai centinaia di
ragazze dopo di me pronte a caderti tra le braccia, ragazze che non
sapranno
mai cosa sei in grado di fare, ed è meglio così.
Cerca di guarire da questa
ridicola ossessione che hai per me”, sbottai aspramente,
alzandomi e
allontanandomi dal letto. Incrociai le braccia, sentendomi peraltro
incredibilmente
stronza, ma cercando allo stesso tempo di tenere duro e continuare su
quella
scia: non potevo permettermi di cedere, o non me ne sarei liberata mai
più.
“Ossessione?
Porca
puttana, Giulia, io ti amo!”
Per un’abbondante manciata
di secondi cessai di respirare.
Boccheggiai, senza sapere cosa dire, senza neppure sapere se da me ci
si
aspettasse una qualsiasi risposta dopo una simile affermazione. Non
poteva
averlo detto davvero, accidenti a lui… Non poteva aver osato
tanto!
Tornai a fissarlo, incredula, e
dovetti deglutire più volte prima
di riuscire a parlare. “Mi dispiace, ma questo è
un tuo problema”, mormorai, mantenendomi
ben lontana dalle sue grinfie.
Enrico non parve credere alle mie
parole, e uno sbuffo che voleva
essere divertito gli scappò dalle labbra screpolate.
“E questo che cosa
vorrebbe dire?” Fece, senza smettere un solo istante di
guardarmi. Dio mio,
soltanto i suoi occhi erano capaci di mettermi così tanto a
disagio! La sua
voce, poi, era terribilmente pacata, come se in realtà
stesse covando molta più
rabbia di quanto non dimostrasse. Faceva paura.
“Significa che non posso
dimenticare che hai ucciso un’altra
persona a sangue freddo, e che qualsiasi cosa tu possa provare nei miei
confronti non cambia niente. Io te l’ho detto molte volte,
Enrico, che la vita
di merda che fai avrebbe compromesso qualsiasi cosa ci fosse tra noi,
ma tu non
mi hai mai creduto… E ora assumitene le
conseguenze”, risposi, ancora stordita
per quell’inattesa confessione.
Aveva detto che mi amava…
Era una bugia? Lo aveva detto solo per
legarmi ancora di più lui? Beh, in ogni caso, qualunque cosa
fosse, aggravava
soltanto la situazione.
Ma io non potevo farci niente! Non
potevo stare con un assassino,
che diamine!
“Quindi avevo ragione, mi
stai lasciando”, affermò la sua voce
gelida, facendomi rabbrividire.
“I fidanzati si lasciano,
Enrico. Io voglio solo smettere di
frequentarti”, replicai.
Sostenne a lungo il mio sguardo, senza
sembrare intenzionato a
cedere, e poi riprese la parola. “Quindi, mi stai dicendo che
è finita? Che è
finita perché ti ho salvato da uno stupro e
perché ho ucciso uno dei miei
ragazzi per te?”
“Non ti ho chiesto io di
ammazzare Lorenzo!” Sbottai con una vena
isterica nel tono di voce, rendendomi conto di essere prossima alle
lacrime.
“Non osare mettermi addosso una simile
responsabilità, cavolo, non te lo permetto!”
Vagamente mi ricordai di trovarmi pur
sempre in ospedale, e che
anche se avevamo la porta chiusa qualche infermiera che ci passava
davanti
avrebbe potuto sentire i nostri discorsi, perciò mi
assicurai di abbassare la
voce di diverse ottave. “Anche se alla polizia ho detto che
si è trattato di
legittima difesa, Enrico, potrebbero non affidarsi completamente alla
versione
di una ragazza sotto shock e decidere di fare altre indagini; per cui
ti
consiglio di non mostrarti così soddisfatto
dell’esito di quella giornata, e
soprattutto di non sbandierare ai quattro venti la cazzata che
l’hai fatto per
me”, sibilai, avvicinandomi di un passo solo per accertarmi
che non gli
sfuggisse una sola parola del mio discorso. “Anche
perché entrambi sappiamo che
non era necessario che tu gli sparassi, visto che Lorenzo non ti stava
più
puntando la pistola addosso.”
“E questa
cos’è, una minaccia? Vorresti farmi credere che
testimonieresti contro di me, in tribunale?”
Ribatté, sorpreso e in un certo
senso anche offeso.
“No, non mi hai
capito”, lo contraddissi ancora, incrociando le
braccia sotto al seno come se quel semplice gesto potesse proteggermi
da lui. “Voglio
dire che io c’ero, so cos’è successo, e
se puoi sperare di convincere gli altri
della giustizia della tua versione dei fatti non puoi fare lo stesso
con me. Mio
Dio, ho visto la tua faccia quando hai premuto il grilletto, Enrico! Ci
hai goduto, porca
miseria…”
Quando tacqui lui non aprì
bocca per smentirmi, e ciò fu di per sé
una risposta più che chiara. Scossi il capo, sfinita, e mi
passai una mano tra
i capelli. “Comunque, non ha più importanza.
Voglio solo… dimenticare,
e posso farlo solo se non ti avrò più davanti
agli
occhi a ricordarmi quella scena. Mi dispiace, Enrico, davvero. Per
certi versi,
sei stato un amico.”
A quel punto sembrò
riscuotersi dal suo silenzio – anzi, no,
sembrò proprio rendersi conto che facevo sul serio.
Già, il mio non era un
bluff. “No, Giulia, aspetta, per
favore…” Mormorò, allungando una mano
verso di
me per invitarmi – inutilmente – ad avvicinarmi.
Feci ancora un cenno di diniego con la
testa e raggiunsi la porta,
aggrappandomi alla maniglia. Ero stata fin troppo gentile con lui, alla
fine, e
non avrebbe neppure mai scoperto quanto quella calma apparente mi fosse
costata, dato che tutto quello che volevo adesso era scoppiare in
lacrime sulla
spalla di mia madre.
“Sono io che te lo chiedo
per favore, Enrico, davvero. Per favore,
non cercarmi più”, dissi
ancora, ormai dandogli le spalle. Spalancai la porta quasi di scatto e
sussultai nel trovarmi di fronte un’infermiera, la cui
presenza se non altro
metteva a tacere le suppliche di Enrico e dava a me un ulteriore motivo
per non
abbandonarmi al pianto, non ancora. Abbassai lo sguardo per non
mostrarle gli
occhi arrossati, borbottai un saluto e fuggii via, letteralmente,
attraversando
il corridoio nel modo più veloce che consentivano le regole
dell’ospedale.
Alla fine ero riuscita a liberarmi di
Enrico, avevo fatto quello
che avrei dovuto fare molto tempo prima; sarei dovuta essere al settimo
cielo,
avrei dovuto provare un senso di leggerezza pari solo a quello delle
aquile che
volano in cielo… Ma allora perché, porca miseria,
avevo questo disperato
bisogno di piangere?
‘Io ti amo’, aveva detto. Assurdo come quelle tre misere paroline sembrassero avermi incatenato a lui come nient’altro avrebbe mai potuto fare.
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Angolo Autrice.
Deo gratias, un altro capitolo... Che travaglio!
Ormai sarete abituate alle mie scuse e ai miei ritardi, per cui non sprecherò altro spazio a genuflettermi e chiedere perdono. xD Mi limiterò a ringraziare tutti coloro che sono giunti fin qui a dispetto di tutti gli ostacoli, e vi tranquillizzo dicendo che: tra due, massimo tre capitoli questa storia conoscerà la parola Fine! Ommioddio non ci posso credere, se ci penso non so se esserne felice, triste, o chissà cos'altro. Felice perché dopo tre anni mi sembra il minimo concluderla, volente o nolente, ma triste perché comunque mi ci sono affezionata, e non credo di amare i personaggi delle mie altre storie così come amo questi... Va bon, conserverò le lacrime per l'ultimo capitolo, promesso. :P
Detto ciò, voglio ringraziare chi ha recensito lo scorso capitolo, vale a dire le meravigliose Sylphs, just_love_me, alexy95, Eleanor Rigby, jede e Dayan18 ;) Nonché tutte coloro che leggono in silenzio, laggiù dal fondo della platea e anche voi lassù, in galleria, vi adoro!, e che continuano ad aggiungere questa storia alle Preferite e alle Seguite :)
Tornando velocissimamente alla storia, si accettano scommesse :D Secondo voi che cosa succederà ora? Non c'è più speranza per i nostri eroi? Siete più propensi ad un lieto fine o ad un finale triste? Non basatevi sui vostri desideri, so che voi volete le conigliate e i "vissero per sempre felici e contenti", più che altro vorrei sapere se, con una trama del genere, voi, da scrittori/scrittrici, optereste per un finale lieto o uno strappalacrime; così, tanto per scambiare opinioni tra autori ;)
Bon, detto questo, credo proprio che vi lascerò al momento tanto atteso, ossia "lapidiamo la scrittrice"! xD Prima di auto-esiliarmi sappiate che non finirò mai di ringraziarvi per l'assiduità con cui mi avete seguito. :) Un abbraccio a tutti, ci si legge al prossimo capitolo! Buona serata, dalla vostra
Niglia.