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Autore: Niglia    18/09/2012    8 recensioni
{Vecchio titolo: The Wrong Man}
Giulia è una normale ragazza di 18 anni; va a scuola, esce con le amiche e, quando capita, con qualche ragazzo, ma non è certo alla ricerca del Principe Azzurro.
Sembra l'inizio di un'estate come le altre quando, all'improvviso, compare Enrico: l'erede di un impero criminale, bello e affascinante, che si invaghisce di lei e la obbliga, un po' con le buone e un po' con le cattive, a frequentarlo...
"I tuoi amici non sanno dove sei, però loro sono al sicuro." Mormorò, avvicinando le labbra al mio orecchio e facendomi rabbrividire con il suo caldo respiro. "Cerca di fare in modo che rimangano tali... Se mi disobbedisci in qualsiasi modo, farò loro del male, e ti assicuro che sembrerà un incidente."
Parlava come farebbe un amante nell'intimità di una camera da letto, con la stessa voce calda e rassicurante, leggermente roca: eppure le sue parole erano tutto fuorchè rassicuranti. La sua era una minaccia bella e buona...
[dal Capitolo 7]
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo XXIX

 

 










 

 

 

 

 

 

 

Stavolta, quando ripresi conoscenza, mi ritrovai in ambulanza, con la testa in grembo a Stefano e le gambe distese lungo una specie di sedile doppio che si trovava nel lato opposto alla barella. Mentre un’infermiera o quel che diavolo era si occupava di Enrico, sdraiato apparentemente privo di sensi sulla lettiga e con la camicia zuppa di sangue aperta sul petto, io cercai di alzarmi per mettermi a sedere, ma una mano di Stefano sulla spalla mi fece gentilmente cambiare idea.

“Cos’è successo?” Mormorai, strofinandomi gli occhi. Mi sentivo tutto il corpo intorpidito, senza contare il terribile mal di testa che mi faceva pulsare le tempie, ma non osai lamentarmi visto che Enrico era ancora più pallido e insanguinato di prima – Dio mio, doveva avere delle brutte ferite.

“Hai avuto uno shock, niente di eccessivamente grave”, spiegò a mezza voce Stefano, chinandosi appena verso di me. “Adesso stiamo andando in ospedale. Ho trovato il tuo cellulare e ho chiamato i tuoi genitori, dieci minuti fa.”

Quella non era una grande notizia. Che cosa diavolo avrei raccontato ai miei genitori? Che uno degli amici del mio ‘ragazzo’ aveva cercato di violentarmi e che lui l’aveva ucciso? Dio mio, sarei stata fortunata se mi avessero rinchiuso in casa per il resto dei miei giorni! E dire che avevo promesso a mia madre che tutta la faccenda di Enrico non mi avrebbe distratta dai miei obiettivi scolastici…

“Non pensarci, adesso”, aggiunse, come intuendo l’ingarbugliato flusso dei miei pensieri. “Vedrai, andrà tutto bene.”

Istintivamente lanciai un’occhiata ad Enrico, e a voler essere sincera pensare che tutto sarebbe andato bene era l’unica cosa che non credevo di poter fare. Mi sfuggì un singhiozzo e chiusi gli occhi, mentre Stefano si spostava leggermente per rendere la posizione il più comoda possibile. Non mi addormentai, non credo, almeno, ma rimasi sdraiata così fin quando l’ambulanza non raggiunse l’ospedale e quel rumore fastidiosissimo che solo dopo compresi essere la sirena si spense.

 

 

In ospedale venimmo raggiunti dalla polizia, pochi minuti dopo che Enrico era sparito all’interno del reparto – io e Stefano eravamo rimasti fuori, nella sala d’attesa, e lui mi aveva spiegato brevemente che il primario era un conoscente della famiglia D’Angelo. Ma che casualità…

Lasciai che fosse lui a rispondere alle domande degli agenti, perché io ero ancora troppo sotto shock per riuscire a formulare un pensiero coerente – figuriamoci per sostenere un interrogatorio, seppur così informale. Grazie a Dio non molto tempo dopo arrivarono anche i miei genitori, e visto che in quanto a conoscenze neppure mio padre era da meno, riuscì a convincerli a lasciarmi in pace il tempo di riprendermi. Inutile dire che, stretta tra le braccia di mia madre e con mio padre seduto dall’altro lato, con un’espressione severa e vagamente minacciosa in viso – come se stesse scoraggiando chiunque dall’avvicinarsi – mi sentii subito meglio. Balbettando e mormorando a fatica, raccontai a grandi linee a mia madre quello che era accaduto, e anche se non potevo vederlo sentii mio padre irrigidirsi dietro di me; riuscii persino a piangere, seppellendo i singhiozzi e i tremiti contro di lei.

Parlai senza pensare alle conseguenze – in fondo ero stata testimone di un omicidio, pur con tutte le attenuanti di questo mondo, e non avevo idea che quello sarebbe stato solo l’inizio dell’ulteriore girone di stress e inquietudine nel quale stavo per addentrarmi. I poliziotti raccolsero la deposizione di Stefano ma non se ne andarono, restando fuori dalla sala d’attesa e continuando a mettermi agitazione con la loro semplice presenza fisica: distrattamente, infatti, li udivo discutere a mezza voce e accettare telefonate in continuazione – probabilmente erano in contatto con i loro colleghi rimasti alla villa di Enrico, a studiare il “luogo del delitto”. L’intera situazione era talmente tanto assurda e al di fuori della portata del mio radar abituale che avevo in un certo senso staccato la spina con quella realtà, smettendo di piangere e di pensare, iniziando a convincermi che tutto quello che mi era appena successo era soltanto un incubo, o un’allucinazione, o qualsiasi altra diavoleria possibile – Cristo santo, non potevo semplicemente rassegnarmi all’idea di aver appena vissuto una cosa del genere!

Dopo aver ottenuto il permesso dei poliziotti, Stefano telefonò anche alla sua famiglia e, suppongo, contattò gli altri ragazzi rimasti alla villa per informarsi sulla situazione. Non ebbi più modo di parlare con lui, lo osservai dall’abbraccio di mia madre con aria distratta, quasi svagata, mentre faceva su e giù con la maglietta macchiata di sangue – di chi? – nella saletta, il telefono all’orecchio e la voce talmente tanto bassa da dare l’impressione che invece di parlare muovesse solo le labbra.

Ogni tanto usciva un’infermiera, ignorava gli sguardi intimidatori dei poliziotti e si avvicinava a me per controllare il mio stato. Mi sfiorava fronte e guance, controllava il battito del cuore dal polso, gli occhi arrossati e poi suggeriva di farmi ingurgitare qualcosa di dolce, ma il mio stomaco era più annodato dei nodi del Capitan Findus, quindi tutto ciò che riuscivo a mandar giù era un bicchiere di acqua e zucchero.

Quando arrivarono i genitori di Enrico, i tre agenti impedirono loro di entrare in reparto. Li trattennero fuori, tempestandoli di domande e di chissà cos’altro, ma si vedeva lontano un miglio che il padre fosse incazzato e preoccupato insieme e che Betta stesse tremando di apprensione. Appena mi vide trasalì e, se possibile, impallidì ancora di più – qualcuno doveva averle raccontato la versione riassunta di quanto era successo – e non riuscì a trattenersi dall’avvicinarsi a me. Mi accorsi vagamente come i miei genitori si fossero mossi quasi in contemporanea per proteggermi anche da lei, ma io mugugnai contrariata e mi spostai da mia madre per venire abbracciata da quella di Enrico. Mi strinse e singhiozzò contro di me, mi baciò sulla fronte pallida e gelida, poi si voltò verso mia madre e le prese una mano, limitandosi a guardarla. Credo che tra madri si compresero più di quanto potessi immaginare, perché vidi la mia accennare un sorriso tra le lacrime e Betta fare altrettanto: mi fece piacere che i miei non accusassero lei per tutto quel casino – non era certo colpa di quella donna se Enrico conduceva quella vita e se io ci ero finita dentro, quanto piuttosto del marito, e se c’era qualcuno da biasimare in quella storia non era neppure Enrico, era Raffaele.

Poi non so di preciso cosa accadde – forse la scarica di adrenalina che mi aveva tenuto in piedi in tutto quel frattempo si era infine esaurita e mi aveva fatta crollare, esausta e addormentata.

Quello che so è che quando mi ripresi ero di nuovo a casa mia, nel tepore confortante del mio letto, stretta ad un cuscino bagnato che dovevo aver inzuppato con una sorta di pianto inconscio.

 

 

 

Non uscii di casa per tutta la settimana seguente.

Sussultavo al minimo rumore brusco che spezzava la quiete della mia stanza, tremavo se udivo un ramo spezzarsi al di sotto della mia finestra, dormivo con le finestre chiuse e con la lampada del comodino sempre accesa, proprio io che non avevo mai avuto problemi ad addormentarmi al buio. Il dottore mi aveva prescritto delle pastiglie per farmi dormire in ogni caso, e non mi vergogno di dire che ne feci largo uso, soprattutto i primi giorni. Almeno, quando dormivo, non sognavo le mani viscide di Lorenzo addosso a me.

Il mio cellulare rimase spento, così non sapevo se Enrico aveva provato a contattarmi o se lo aveva fatto Stefano, o qualcuno dei miei amici. So che Alessandra venne diverse volte a casa mia per trovarmi, ma io non volevo vedere nessuno, tantomeno lei, quindi tutto ciò che mi restava di queste brevi e timide visite era la voce preoccupata di mia madre che mi riportava gli auguri di pronta guarigione della mia migliore amica.

Le uniche persone che volevo vedere erano mia madre, mio padre, mia sorella e mia nonna – tutti gli altri, zii e amici vari, erano tenuti severamente fuori dalla mia stanza. Non avevo idea di ciò che stava succedendo al di fuori di quelle quattro pareti – solo tempo dopo venni a sapere che in tutto quel mentre ero stata protetta anche dai giornalisti, come se la mia tragedia in sé non bastasse.

Eppure, grazie alla lingua lunga di mia sorella, scoprii che mia madre si sentiva più o meno ogni giorno con Betta. Come diavolo era possibile? Perché si teneva in contatto con quella famiglia? Non ero stata forse abbastanza chiara, al riguardo? Non le avevo forse detto che non avrei più voluto averci nulla a che fare? Perché era ovvio che quelle due non si sentissero per scambiarsi ricette e chiacchiere di cose futili, visto che la figlia di una aveva rischiato lo stupro e il figlio dell’altra, a quanto ne sapevo io, era ancora in ospedale a riprendersi dalla sparatoria. Non so se in tutto questo c’entrasse in qualche modo Enrico – sinceramente non ne dubitavo, conoscendolo: probabilmente aveva chiesto lui a Betta se poteva scoprire che cosa mi era successo, dato che ero scomparsa nel nulla; ma, anche se così non fosse stato, non mi piaceva l’idea che le nostre due madri facessero combriccola rendendo poi inevitabile un nostro futuro incontro.

Incontro che, come avrei dovuto immaginare, non avvenne a distanza di molto tempo. Anzi; appena sette giorni dopo l’accaduto, quando i miei genitori mi accompagnarono in ospedale per delle visite di routine – il dottore voleva assicurarsi che non fosse più necessario prescrivermi i vari sonniferi o qualunque altra cosa mi avesse somministrato in quel frattempo – fu inevitabile incontrare, nella hall dell’edificio, la madre di Enrico che si era allontanata per cinque minuti dal capezzale del figlio per prendersi un caffè al bar.

Il mio primo pensiero fu quello di nascondermi ed evitarla: la variante Betta portava immediatamente alla variante Enrico, e dopo una settimana non avrei potuto incontrare una senza incappare nell’altro; tuttavia, mia madre le aveva già fatto un cenno da lontano e, mentre mio padre si dirigeva allo sportello dei ticket, io venni trascinata in un abbraccio lacrimevole e sinceramente commosso dalla matrigna del mio Grosso Problema Numero Uno. O “ex”, come l’aveva recentemente ribattezzato mio padre.

“Enrico sarebbe felice di vederti, tesoro”, mormorò, dopo un’educata serie di convenevoli. “Adesso mi sono allontanata per farlo riposare un po’, ma credo che non gli darebbe fastidio se andassi tu a trovarlo. Cosa ne dici? Te la senti?”

In un’occasione normale la mia risposta sarebbe stata no, assolutamente no, nel modo più assoluto, scordatelo, strappami la milza piuttosto, ma quella non era un’occasione normale e io avevo mia madre dietro che mi punzecchiava e mi lanciava occhiate penetranti che mi intimavano in silenzio di essere gentile con Betta e che andare a scambiare due parole con Enrico non mi avrebbe di certo uccisa. Per cui, sentendo già l’agitazione scorrere in ogni singola vena del mio corpo, annuii poco convinta e mi lasciai spiegare la strada per raggiungere il suo reparto e la stanza: le due donne non sarebbero venute con me, a quanto pare quella era una cosa che avrei dovuto fare non accompagnata. Perfetto, davvero.

Per cui, visto che comunque avrei dovuto aspettare prima che arrivasse il mio turno per entrare dal dottore, mi diressi senza troppo entusiasmo verso il quarto piano.

 

Le infermiere, per fortuna o per sfortuna, mi riconobbero e mi fecero passare senza fare storie.

Quando entrai nella stanza di Enrico, questa era immersa in una confortevole penombra e da un fastidioso silenzio, rotto solo dal leggero gocciolio che faceva la sostanza nella flebo man mano che il liquido scivolava nel tubicino trasparente. Malgrado la tristezza dell’ambiente in sé, quella camera non era male: tanto per cominciare era per una sola persona, c’era la televisione, un armadio e un tavolo per mangiare, poi sul comodino c’era un vasetto di una qualità di fiori che non conoscevo ma che faceva un buon profumo, portato sicuramente da Betta, e che rallegrava la stanza. Chiusi la porta alle mie spalle con delicatezza, in modo da non far svegliare subito Enrico, e con un brivido di nervosismo lungo la spina dorsale mi guardai intorno, torcendomi le mani. Dio mio, che cosa ci facevo lì? Perché mi ero lasciata convincere?

Accanto al letto c’era una sedia, o meglio, una specie di poltroncina, e visto che era l’unico posto nel quale potevo sedermi fu lì che mi diressi, camminando praticamente in punta di piedi. Tolsi il libro che vi aveva lasciato la madre – Mille splendidi soli, a quanto pare io e Betta avevamo letture in comune – e mi sedetti, spostando leggermente la sedia in modo da non essere troppo attaccata al letto. E adesso non sapevo che cosa fare. Svegliarlo era fuori discussione: non volevo anticipare il momento della verità, soprattutto dato che non avevo alcuna idea di come affrontarlo; d’altra parte, non è che potevo rimanere in eterno lì ad attendere che il bell’addormentato abbandonasse il mondo dei sogni – Betta poteva fare di tutto per trattenere i miei genitori giù al bar, ma probabilmente si sarebbero stufati in fretta di aspettare. Soprattutto mio padre, che non mi era sembrato molto propenso a lasciarmi andare da sola a parlare con Enrico. E come biasimarlo?

Comunque, non ero arrivata che da cinque minuti, più o meno, quando il ragazzo che dormiva beato nel letto d’ospedale iniziò a muoversi. Vidi il suo respiro cambiare ritmo, le palpebre serrarsi con forza come a voler trattenere un sogno, e le labbra socchiudersi per rilasciare un ansito quasi doloroso: evidentemente neanche per lui il sonno indotto dai farmaci era troppo pacifico. Poi gli occhi si schiusero, le sopracciglia si aggrottarono, e la testa si mosse debolmente come per cercare la madre; e invece fu me che trovò.

In un primo momento non parlammo: ci limitammo a fissarci a vicenda, Enrico probabilmente troppo sorpreso dalla mia presenza per dire qualcosa, e io troppo scioccata dal fatto di essere davvero lì, con lui, malgrado quanto mi fossi ripromessa di fare.

Sostenere il suo sguardo mi fu impossibile. “Non sarei dovuta venire qui”, mormorai, alzandomi di scatto e barcollando lievemente per la fretta con la quale mi ero mossa. Tuttavia lui fu ancora più veloce di me, perché malgrado le sue condizioni riuscì ad avere abbastanza riflessi da afferrarmi il polso con la mano collegata alla flebo, e con essa trattenermi con una forza sorprendente accanto al lui.

“No, per favore”, furono le sue prime parole, roche e sussurrate. “Giulia, dobbiamo… parlare.”

Distolsi lo sguardo da lui, contai fino a cinque, presi un profondo respiro e poi tornai a guardarlo. “Hai ucciso un uomo, Enrico. Non c’è molto di cui parlare”, mormorai, dicendo per la prima volta ad alta voce le parole che mi avevano torturato in quell’orrenda settimana.

“Ti prego, siediti. Voglio che ascolti quello che ho da dire”, ripeté supplicante, guardandomi con quegli occhi verdi annebbiati dagli antidolorifici e chissà cos’altro. Non l’avevo mai visto in quelle condizioni, e non parlo della flebo e tutto il resto, per cui probabilmente fu quel maledetto istinto da madri barra infermiere che posseggono in linea di massima tutte le donne a riportare il mio sedere su quella sedia e a mettermi in predisposizione d’animo di ascoltarlo. Era strano come il mio cervello tendesse a scindere lui dalla faccenda di Lorenzo, come se le due cose, in realtà, non fossero collegate; guardando in faccia Enrico, infatti, mi risultava sempre più difficile riaggrapparmi all’immagine di lui che sparava all’amico, quasi che questa seconda figura non esistesse che all’interno della mia mente. Oh mio Dio, stavo già impazzendo? Alessandra aveva avuto ragione, quando aveva detto che avrei avuto bisogno di una terapia.

“Cazzo, mi fa male vederti così, e sapere che per la maggior parte è colpa mia…” Gli scappò a mezza voce, mentre continuava a tenere la mia mano stretta nella sua. “Ascoltami, non posso scusarmi per quello che è successo. Era inevitabile, Giulia. Non potevo fare altrimenti… era me o lui! E comunque credo che l’avrei fatto lo stesso per il modo in cui ti ha trattato.”

A quel punto feci per staccarmi dalla sua presa – toccarlo mentre diceva quelle cose era intollerabile, per quanto in fondo mi dispiacesse, mi ispirava solo disgusto – ma tendo sempre a dimenticare che Enrico ha una forza particolare, e non fu difficile continuare a trattenermi. “No, ascolta!” Riprese con maggior vigore, notando il mio tentativo di fuga. “Ascolta. Non avrei mai voluto che assistessi a una cosa del genere, e mi dispiace, davvero. So di non poterti chiedere di perdonarmi, non adesso almeno… Però mi dispiace. Io spero solo che… beh, mi auguro che tu possa riuscire a guardarmi di nuovo come facevi prima, non con questi occhi terrorizzati, come se io fossi il mostro che spaventa i bambini. Non ho mai voluto spaventarti, Giulia, lo sai…”

“Dio mio, ti rendi conto di quello che stai dicendo?” Lo interruppi, riuscendo finalmente a far sì che mi lasciasse la mano e stringendomela in grembo, sentendola improvvisamente fredda dopo il lungo contatto con lui. “Credi che tutto possa tornare come prima? Con la situazione che c’era? Sarebbe tutto molto diverso se io provassi qualcosa per te, Enrico, ma ora come ora mi stai chiedendo l’impossibile. Sono venuta solo perché mia madre e tua madre mi hanno convinta, ma era per dirti addio, non certo per fare pace o chissà cos’altro. Per cui non cercare di giustificare le tue azioni o cose del genere, tanto non serve a niente.”

Come se non capisse le mie parole, o meglio, come se non volesse farlo, Enrico aggrottò le sopracciglia e all’improvviso la sua espressione divenne furiosa. “Menti sapendo di mentire”, sibilò, incapace di trattenere la rabbia. “Sei davvero convinta di non provare niente, per me? E allora, tutte le tue premure, le nostre serate, i nostri baci non significano niente? Ci conosciamo da più di due mesi, ormai, non riuscirai a farmi credere davvero che io non conto nulla per te!”

“Non ho detto questo”, ribattei, senza guardarlo direttamente negli occhi. Non ce la facevo. “Ho detto solo che qualsiasi cosa ci sia tra noi, o meglio, ci sia stata, non è sufficiente a farmi superare questa… tutto quello che è successo. E tu non puoi chiedermi di farlo, cavolo, neanche tu puoi essere così egoista”, aggiunsi abbassando la voce. Mi massaggiai le tempie, che già iniziavano a pulsare per un imminente mal di testa; tutta quella discussione non mi aiutava di certo a stare meglio.

“Ma cazzo, Giulia!” Ringhiò a mezza voce, sforzandosi di mettersi a sedere con notevole sforzo. Non feci nulla per aiutarlo, limitandomi ad osservarlo con uno sguardo tristemente neutro. “Mi vuoi punire per aver cercato di proteggerti, di difenderti? Di che cosa mi avresti accusato se invece non fossi venuto in tuo soccorso? Avresti cercato una scusa per mollarmi in ogni caso, non credere che non lo sappia!”

“Oh, smettila di fare queste scene, Enrico. Troverai centinaia di ragazze dopo di me pronte a caderti tra le braccia, ragazze che non sapranno mai cosa sei in grado di fare, ed è meglio così. Cerca di guarire da questa ridicola ossessione che hai per me”, sbottai aspramente, alzandomi e allontanandomi dal letto. Incrociai le braccia, sentendomi peraltro incredibilmente stronza, ma cercando allo stesso tempo di tenere duro e continuare su quella scia: non potevo permettermi di cedere, o non me ne sarei liberata mai più.

Ossessione? Porca puttana, Giulia, io ti amo!”

Per un’abbondante manciata di secondi cessai di respirare. Boccheggiai, senza sapere cosa dire, senza neppure sapere se da me ci si aspettasse una qualsiasi risposta dopo una simile affermazione. Non poteva averlo detto davvero, accidenti a lui… Non poteva aver osato tanto!

Tornai a fissarlo, incredula, e dovetti deglutire più volte prima di riuscire a parlare. “Mi dispiace, ma questo è un tuo problema”, mormorai, mantenendomi ben lontana dalle sue grinfie.

Enrico non parve credere alle mie parole, e uno sbuffo che voleva essere divertito gli scappò dalle labbra screpolate. “E questo che cosa vorrebbe dire?” Fece, senza smettere un solo istante di guardarmi. Dio mio, soltanto i suoi occhi erano capaci di mettermi così tanto a disagio! La sua voce, poi, era terribilmente pacata, come se in realtà stesse covando molta più rabbia di quanto non dimostrasse. Faceva paura.

“Significa che non posso dimenticare che hai ucciso un’altra persona a sangue freddo, e che qualsiasi cosa tu possa provare nei miei confronti non cambia niente. Io te l’ho detto molte volte, Enrico, che la vita di merda che fai avrebbe compromesso qualsiasi cosa ci fosse tra noi, ma tu non mi hai mai creduto… E ora assumitene le conseguenze”, risposi, ancora stordita per quell’inattesa confessione.

Aveva detto che mi amava… Era una bugia? Lo aveva detto solo per legarmi ancora di più lui? Beh, in ogni caso, qualunque cosa fosse, aggravava soltanto la situazione.

Ma io non potevo farci niente! Non potevo stare con un assassino, che diamine!

“Quindi avevo ragione, mi stai lasciando”, affermò la sua voce gelida, facendomi rabbrividire.

“I fidanzati si lasciano, Enrico. Io voglio solo smettere di frequentarti”, replicai.

Sostenne a lungo il mio sguardo, senza sembrare intenzionato a cedere, e poi riprese la parola. “Quindi, mi stai dicendo che è finita? Che è finita perché ti ho salvato da uno stupro e perché ho ucciso uno dei miei ragazzi per te?”

“Non ti ho chiesto io di ammazzare Lorenzo!” Sbottai con una vena isterica nel tono di voce, rendendomi conto di essere prossima alle lacrime. “Non osare mettermi addosso una simile responsabilità, cavolo, non te lo permetto!”

Vagamente mi ricordai di trovarmi pur sempre in ospedale, e che anche se avevamo la porta chiusa qualche infermiera che ci passava davanti avrebbe potuto sentire i nostri discorsi, perciò mi assicurai di abbassare la voce di diverse ottave. “Anche se alla polizia ho detto che si è trattato di legittima difesa, Enrico, potrebbero non affidarsi completamente alla versione di una ragazza sotto shock e decidere di fare altre indagini; per cui ti consiglio di non mostrarti così soddisfatto dell’esito di quella giornata, e soprattutto di non sbandierare ai quattro venti la cazzata che l’hai fatto per me”, sibilai, avvicinandomi di un passo solo per accertarmi che non gli sfuggisse una sola parola del mio discorso. “Anche perché entrambi sappiamo che non era necessario che tu gli sparassi, visto che Lorenzo non ti stava più puntando la pistola addosso.”

“E questa cos’è, una minaccia? Vorresti farmi credere che testimonieresti contro di me, in tribunale?” Ribatté, sorpreso e in un certo senso anche offeso.

“No, non mi hai capito”, lo contraddissi ancora, incrociando le braccia sotto al seno come se quel semplice gesto potesse proteggermi da lui. “Voglio dire che io c’ero, so cos’è successo, e se puoi sperare di convincere gli altri della giustizia della tua versione dei fatti non puoi fare lo stesso con me. Mio Dio, ho visto la tua faccia quando hai premuto il grilletto, Enrico! Ci hai goduto, porca miseria…”

Quando tacqui lui non aprì bocca per smentirmi, e ciò fu di per sé una risposta più che chiara. Scossi il capo, sfinita, e mi passai una mano tra i capelli. “Comunque, non ha più importanza. Voglio solo… dimenticare, e posso farlo solo se non ti avrò più davanti agli occhi a ricordarmi quella scena. Mi dispiace, Enrico, davvero. Per certi versi, sei stato un amico.”

A quel punto sembrò riscuotersi dal suo silenzio – anzi, no, sembrò proprio rendersi conto che facevo sul serio. Già, il mio non era un bluff. “No, Giulia, aspetta, per favore…” Mormorò, allungando una mano verso di me per invitarmi – inutilmente – ad avvicinarmi.

Feci ancora un cenno di diniego con la testa e raggiunsi la porta, aggrappandomi alla maniglia. Ero stata fin troppo gentile con lui, alla fine, e non avrebbe neppure mai scoperto quanto quella calma apparente mi fosse costata, dato che tutto quello che volevo adesso era scoppiare in lacrime sulla spalla di mia madre.

“Sono io che te lo chiedo per favore, Enrico, davvero. Per favore, non cercarmi più”, dissi ancora, ormai dandogli le spalle. Spalancai la porta quasi di scatto e sussultai nel trovarmi di fronte un’infermiera, la cui presenza se non altro metteva a tacere le suppliche di Enrico e dava a me un ulteriore motivo per non abbandonarmi al pianto, non ancora. Abbassai lo sguardo per non mostrarle gli occhi arrossati, borbottai un saluto e fuggii via, letteralmente, attraversando il corridoio nel modo più veloce che consentivano le regole dell’ospedale.

Alla fine ero riuscita a liberarmi di Enrico, avevo fatto quello che avrei dovuto fare molto tempo prima; sarei dovuta essere al settimo cielo, avrei dovuto provare un senso di leggerezza pari solo a quello delle aquile che volano in cielo… Ma allora perché, porca miseria, avevo questo disperato bisogno di piangere?

Io ti amo’, aveva detto. Assurdo come quelle tre misere paroline sembrassero avermi incatenato a lui come nient’altro avrebbe mai potuto fare.



















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Angolo Autrice.
Deo gratias
, un altro capitolo... Che travaglio!
Ormai sarete abituate alle mie scuse e ai miei ritardi, per cui non sprecherò altro spazio a genuflettermi e chiedere perdono. xD Mi limiterò a ringraziare tutti coloro che sono giunti fin qui a dispetto di tutti gli ostacoli, e vi tranquillizzo dicendo che: tra due, massimo tre capitoli questa storia conoscerà la parola Fine! Ommioddio non ci posso credere, se ci penso non so se esserne felice, triste, o chissà cos'altro. Felice perché dopo tre anni mi sembra il minimo concluderla, volente o nolente, ma triste perché comunque mi ci sono affezionata, e non credo di amare i personaggi delle mie altre storie così come amo questi... Va bon, conserverò le lacrime per l'ultimo capitolo, promesso. :P
Detto ciò, voglio ringraziare chi ha recensito lo scorso capitolo, vale a dire le meravigliose Sylphs, just_love_me, alexy95, Eleanor Rigby, jede e Dayan18 ;) Nonché tutte coloro che leggono in silenzio, laggiù dal fondo della platea e anche voi lassù, in galleria, vi adoro!, e che continuano ad aggiungere questa storia alle Preferite e alle Seguite :)
Tornando velocissimamente alla storia, si accettano scommesse :D Secondo voi che cosa succederà ora? Non c'è più speranza per i nostri eroi? Siete più propensi ad un lieto fine o ad un finale triste? Non basatevi sui vostri desideri, so che voi volete le conigliate e i "vissero per sempre felici e contenti", più che altro vorrei sapere se, con una trama del genere, voi, da scrittori/scrittrici, optereste per un finale lieto o uno strappalacrime; così, tanto per scambiare opinioni tra autori ;)
Bon, detto questo, credo proprio che vi lascerò al momento tanto atteso, ossia "lapidiamo la scrittrice"! xD Prima di auto-esiliarmi sappiate che non finirò mai di ringraziarvi per l'assiduità con cui mi avete seguito. :) Un abbraccio a tutti, ci si legge al prossimo capitolo! Buona serata, dalla vostra
Niglia.
   
 
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