WE ARE ONLY TWO LOST SOULS SWIMMING IN A FISH BOWL.
ATTENZIONE:
come l’autrice del libro ci ha fatto notare
(credo nel terzo libro) Annie ha perso il senno in seguito alla
decapitazione
del suo compagno di Distretto.
Marcus
è un personaggio di mia invenzione come il
taglialegna Wood, però spero di aver fatto trasparire nei
capitoli precedenti
se non l’affetto, almeno il legame che un po’ univa
lei a lui e quindi non aspettatevi
una Annie completamente
in sé.
Tanto
vale che finisco di dire quello che volevo dirvi qua
invece di ricorrere alle ndA: questo sarà l’ultimo
capitolo e voglio
ringraziare tutti voi.
Sono
davvero contenta di questa storia, ci ho messo molto
di me dentro ed è stata un’avventura piena di alti
e bassi, di ritardi e scempi,
però sono davvero felice di quello che è venuto
fuori.
Ho
intenzione di scrivere un’altra Finnick/Annie (forse
One-Shot) perché è un pairing che amo.
Grazie
mille ancora.
Un
colpo di cannone.
Due
colpi di cannone.
Come
le campane sulle barche al Distretto, che suonavano
per i pescatori che erano morti.
Suonavano
a festa, metalliche, perché lo spirito degli
uomini si congiungeva al mare come lo faceva la cenere.
Anche
per suo nonno avevano suonato, probabilmente lo
avrebbero fatto anche con Marcus, perché, laggiù
al Distretto, chiunque lo
conoscesse gli voleva bene.
Forse
in quel momento stavano suonando per lei o, il
martellare ritmico , era solo la pressione dell’acqua che le
premeva sulla
testa e che la trascinava giù, sempre più affondo.
Doveva
essere un bello spettacolo visto da u maxi schermo
posto in una piazza, con i bei capelli lunghi che fluttuavano intorno a
lei
come i serpenti di una Medusa mitologica, l’ultimo segno di
vita di un corpo
disposto e pronto a cedere alle lusinghe di un oblio voluto.
Aveva
promesso che avrebbe cercato di rimanere in vita, ma
non aveva le forze per combattere o resistere.
Eppure
le gambe sembravano lottare contro lo stallo della
testa.
E
si mossero, guidate da un qualche istinto di
sopravvivenza che non riusciva a capire da dove venisse.
Nuotò
contro il peso dell’acqua, nuotò fino a riemergere
in
superficie e annaspare riempiendo i polmoni.
Intorno
a lei non c’era nulla: della piana che prima aveva
ospitato l’Arena rimaneva solo una distesa immensa di acqua,
nulla a cui
aggrappare il corpo stanco che cercava un sostegno.
Cercò
di galleggiare sul pelo dell’acqua come le aveva
insegnato sua madre da piccola, di distese a stella cercando di tenere
le
braccia e le gambe il più fuori possibile
dall’acqua.
Respirò
piano piano cercando di calmare il battito accelerato.
Doveva
uscire di lì, ma non sapeva come, non vi erano vie
d’uscite.
Ad
un tratto l’acqua si increspò, prima leggermente,
poi
sempre più intensamente fino a creare piccole onde che non
la facevano rimanere
a galla.
Un
hovercraft spuntò tra le nuvole del cielo e calò
una
corda nella sua direzione.
Doveva
fidarsi oppure no?
Non
le venne data la possibilità di replicare.
La
corda sembrava sollevarla contro la sua volontà: era in
trappola.
Cercò
di staccare le gambe dalla fune, ma non ci riuscì.
Forse
non era ancora il momento giusto per reagire.
Aveva
tante mani sopra di se.
I
camici bianchi a le mascherine sulla bocca e il naso
rendevano i medici tutti uguali mentre cercavano di tenerla ferma e
buona sul
lettino dell’infermeria dell’hovercraft.
Stavano
cercando di farle male sicuramente, qualcuno
tentava di legarle i piedi per non farla muovere, ma non ci sarebbero
riusciti.
Sentiva
Finnick urlare fuori dalla porta.
Quanto
sarebbe durata quell’agonia?
Cercava
di raggiungerlo, ma invano.
Era
legata, era immobile, aveva vinto, forse?
Il
rumore della porta che veniva spalancata velocemente, i
dottori che tenevano qualcuno lontano da lei.
Era
tutto un sogno?
La
testa mozzata di Marcus, il viso di Finnick confuso
dalla morfina, la mano di lei che cercava di accarezzarlo mentre
piangeva.
Il
calmante fece il suo effetto e la trasportò fuori di
lì:
dall’Arena, dall’hovercraft, dalle braccia di
Finnick.
Il
buio la avvolse come una coperta.
Aveva
vinto o forse perso tutto.
La
lucidità aumentò in quei giorni.
Cercarono
di portarla al Distretto il prima possibile senza
sottoporla a troppe pressioni da parte degli abitanti della capitale.
“Non
sta molto bene, ha riscontrato un trauma cranico che i
nostri medici non sono in grado di curarlo a dovere e un po’
di aria di casa le
darà sicuramente giovamento.” una scusa
più che accettabile, d’altronde dai
Giochi è difficile uscire illesi.
E
poi non era altro che una mezza verità: di certo non si
poteva dire che fosse tutto apposto per Annie.
Le
immagini si susseguivano nella sua testa come in un film
vecchio e rovinato, piene di scene mancanti, e graffi.
Sentiva
le urla del ragazzo del tre ancora nella testa, il
ronzio dell’elettricità che lo uccide,
l’odore del sangue dell’acqua vicino
alla ragazza del Distretto cinque e il tonfo sordo della testa di
Marcus che
cadeva a terra.
Piangeva
la notte e urlava durante il giorno.
I
dottori continuavano a dire che le crisi sarebbero
finite, ma probabilmente non ci credevano neppure loro.
Passarono
i mesi e Annie migliorò visibilmente.
Non
riusciva a mantenere l’attenzione per più di
qualche
minuto sullo stesso discorso, e la notte ancora non dormiva bene a
causa degli
incubi.
Ogni
tanto portava le mani alle orecchie come a cercare di
non sentire un rumore che le rimbombava dentro la testa, ma a Finnick
non
importava più di tanto.
Gli
bastava averla lì accanto, poterla baciare di nascosto e
sussurrarle all’orecchio tutto quello che sentiva dentro.
La
vita al Distretto procedeva tranquilla: i pescatori
lasciavano il molo con le barche la notte e
tornavano in tempo per il mercato delle 10 e trenta, la spiaggia al
pomeriggio
si riempiva di reti lasciate ad asciugare al sole mentre i ragazzi
cercavano
conchiglie per fare collane da regalare alle ragazze, le case la sera
profumavano
di pesce, fuoco e famiglia, la gente continuava a mangiare pane verde e
salato,
e intanto Finnick e Annie si amavano.
Tutto
qua.
The
end.