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Autore: hanabi    14/03/2013    4 recensioni
Lontano, molto lontano, un mondo è pieno di leggende sulla propria origine e la propria storia. E in questo mondo tutto sembra duale: due soli, due continenti, due culture impermeabili, due etnie nemiche. Ma c'è un terzo incomodo, che esiste ed agisce nell'ombra...
Ed è quel terzo incomodo che unisce gli estremi di quel mondo, in una vicenda che sprofonda le radici nel remoto passato, tra intrighi e grandi imprese, sogni e vendette, misteri da svelare e sentimenti contrastanti, ferocia e sensualità. E alla luce di una luna che non è più solo un decoro del cielo, si dipana la storia dei protagonisti... come un gioco dei loro dèi. E di qualcun altro.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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         Venne finalmente il gran giorno del riscatto.

        Ran venne a prendere Deyan alla Grande Casa. Il principe non era più stato sorvegliato da quando aveva stretto il suo patto sacro, ma Kurmaji gli aveva consigliato di non girare troppo per Luna di Fuoco, per sua stessa sicurezza. Ran si era unito al consiglio con calore: non voleva che gli succedesse qualcosa di male, proprio ora che era ad un passo dal trionfo!

"Unari-shir mi ha concesso un salvacondotto, dall'alba al tramonto. Per questo intervallo di tempo nessuno potrà toccarmi: sarò inviolabile. Se non rispetterà questo patto, sa che non avrà più un istante di pace nel principato: Mastro Kurmaji è pronto ad abbassare i prezzi dei viaggi verso Shana di almeno tre quarti, rendendola un obiettivo irresistibile per tutti i predoni."

Kurmaji aveva annuito. In onore dell'ostaggio principesco, sarebbe stato lui in persona ad evocare il Vortice. Era invero una grande occasione, e Ran si era vestito con il meglio che possedesse. Gli altri predoni gli avevano lanciato occhiate d'invidia: che dannata fortuna aveva avuto...

"A un ostaggio normale non avremmo permesso di vedere tutto questo, ma per te non ci sono più segreti." Kurmaji andò verso le clessidre, preparando il viaggio. "Se vorrai metterti in contatto con noi, basterà che ti ritiri in un luogo isolato al riparo di sguardi indiscreti, e che ti cosparga con la Polvere che ti abbiamo dato. Non perdere la Polvere: è una sostanza unica, introvabile sul tuo mondo, e serve a richiamare la nostra attenzione quando guardiamo attraverso il Vortice. Senza di essa, ad esempio, non sapremmo ritrovare Ran quando sarà ora di riportarlo indietro..."

Tacque, concentrandosi nei suoi calcoli.

"Dall'alba al tramonto, visti da Shana," borbottò. "Sei in ritardo, Ran: è già giorno laggiù."

Ran si volse verso Deyan, con un po' di imbarazzo e estrasse dalla propria borsa a tracolla un rotolo di corda. "Perdonami, ma devo legarti. È l'uso, tu sei mio prigioniero..."

Deyan si irrigidì appena. Non gli andava di essere toccato da un sayanni, nemmeno da Ran. Ma capiva che era necessario. Con un sospiro tese i polsi, e Ran glieli legò insieme con cautela, senza stringere i nodi. Si accorse che la corda era di morbida seta: evidentemente il sayanni aveva imparato un po' delle usanze kelith!

Ran prese saldamente l'altro capo della corda, condusse il prigioniero all'interno del Cerchio, si mise accanto a lui, spalla contro spalla. "Ora ascoltami: tu non sei abituato al Vortice. Sarebbe meglio per te chiudere gli occhi..."

Kurmaji stava incominciando a cantare. I suoi gesti erano ampi, misteriosi, e la lingua che adoperava era assolutamente incomprensibile. Deyan fissava la sua danza, incurante dell'avvertimento di Ran, divorato dalla curiosità...

Lentamente tutto si oscurò attorno a lui: era come se la luce fosse stata ingoiata da qualche vuoto avido di energia. Un senso di nausea improvvisa penetrò nelle sue viscere, perse il senso dell'equilibrio e non riuscì più a respirare... gli giunse la voce di Ran, distorta da mille echi, proveniente da quel vuoto nero: e le parole gli parvero scintille rosse, stilettate di luce nel cervello.

“Ti avevo detto di chiudere gli occhi!..."”

Le scintille ormai riempivano l'intero universo. Un cupo ronzio penetrò le sue orecchie, e un gelo mortale invase il suo corpo...

“Deyan-shir! Deyan-shir!... Dannazione, svegliati!”

Aprì gli occhi, stupito. 

Ran era chino su di lui. Una luce abbagliante lo illuminava di fronte, e era un piacere dopo quella spaventosa oscurità. Si accorse di essere disteso sulla sabbia rovente, con un sapore amaro in bocca e un senso di affaticamento in tutte le membra.

“È... finito?” mormorò, con voce strozzata.

“Già,” sorrise Ran. "Siamo arrivati. Siamo ad una lega dal Palazzo di Shana, che vedo laggiù…” Si fece schermo con la mano. “E come al solito non c'è nessuno in vista. I Marjaban riescono sempre a mandarci giù in modo che nessuno ci veda arrivare, e ci riprendono solo a patto che nessuno ci veda partire.”

“Sono svenuto?”

“Credo proprio di sì. Succede spesso ai principianti: non chiudono gli occhi, si fanno tradire dai propri sensi distorti e si dimenticano di respirare. Una volta un predone catturò un mercante molto anziano e questo ci rimise la pelle durante il viaggio. Non è piacevole, vero?”

“Per niente." Deyan si rialzò a fatica. “Non ho provato questa sensazione quando mi hai portato via da Itka.”

“Eri mezzo morto, sei svenuto prima ancora che spargessi la Polvere su di te.”

Deyan si voltò verso il Palazzo, provando un senso di calore nel petto che scacciò il suo malessere. Si accorse che Shana gli era mancata. Era la sua casa, nella quale era nato e cresciuto...

La luce violenta del giorno si rifletteva sulla sabbia, ferendogli gli occhi indifesi. Si mise il cappuccio del mantello sul capo, socchiudendo le palpebre.

“Siamo sul lato sud del Palazzo, nel Campo dove mio padre alleva i suoi corsieri del deserto. Una persona comune che osi attraversare questo campo viene punita duramente.”

“È sterminato!” esclamò Ran.

“Il parco davanti al Palazzo lo è ancora di più.”

“Sei davvero un gran principe allora, Deyan-shir." Sospirò. “Più ricco di quanto immaginassi…”                

“Non essere avido,” disse il kelith con un sorriso, indovinando i suoi pensieri. “Hai già stabilito il riscatto per me, ed è piuttosto alto.” Gli indicò una fila di pietre, con un cenno delle mani legate. “Laggiù  c’è una pista e la sabbia è meno cedevole. Portami in fretta al Palazzo, e guidami tu poiché io dovrò camminare a occhi chiusi.”

Ran annuì e cominciò la marcia, tenendo la corda e strattonando il suo prigioniero verso la meta.

“Essere albini e vivere nella zona più soleggiata di Kelitha è una bella sfortuna, non è vero, Deyan-shir? Mi chiedo ancora perché voi nobili vi ostiniate a mantenere questa bizzarria.”

“Abbiamo il terrore di somigliare a voi sayanni, con la vostra pelle azzurra e i capelli che sembrano alghe di mare,” fu la caustica risposta.

“Hai mai potuto affrontare la luce dei soli come faccio io?” ribattè Ran, piccato.

“La luce dei soli è per coloro che lavorano con le loro mani,” rispose Deyan. “Noi albini non siamo fatti per questo: siamo nati per comandare.”

Ran trattenne l’impulso di sputare per terra. “Siete proprio dei demoni, voialtri. Creature della notte. Bah!” Scosse la testa, si fermò di colpo. “Ci sono dei carri coperti di tele bianche, che stanno avanzando verso di noi. Vedo la polvere che si alza dietro a loro.”

“Sono i miei soldati, e devono averci visto. Prepara il tuo salvacondotto, e alla svelta, o ti spiccheranno la testa dal busto non appena arriveranno.”

Le guardie giunsero, e Ran tenne alto il documento che gli era stato recato dai messaggeri; poi Deyan si calò il cappuccio dal capo, e la reazione dei kelith fu immediata: si buttarono in ginocchio nella sabbia, prosternandosi, e esclamarono in coro: 

“Nobile principe erede!…”

Deyan indicò Ran. “Costui è il predone che mi ha catturato, e che mi ha in suo potere. Mio padre l'ha protetto con un salvacondotto fino al tramonto. Non provate a fargli del male: l'onore di Shana è stato chiamato in garanzia.” Si ricoprì la testa. “Sbrigatevi a condurci a palazzo, il principe ci aspetta, e questa luce mi offende.”

“Subito, nobile erede!”

Li fecero salire su uno dei carri, e l'auriga sferzò i corsieri che partirono al galoppo. Gli altri carri corsero innanzi a loro, facendo strada.

In breve tempo giunsero alle porte del Palazzo. Superarono una cerchia di mura, sorvegliata da guardie scintillanti. Ad un certo punto la scena cambiò di colpo, e alla sabbia si sostituì un incredibile, enorme giardino ricco d'acqua e di essenze profumate: un paradiso in confronto al torrido, sterile inferno fuori da lì.

Ran era attonito, e non faceva che girarsi intorno per ammirare quel luogo magnifico: in fin dei conti lui non era che un disertore sayanni nato in un umile villaggio di montagna, e non aveva mai neppure immaginato che i kelith possedessero palazzi così belli. Ma quel che più l'intimoriva era vedere l'assoluta naturalezza di Deyan mentre attraversava i cortili cesellati, le grandi sale cosparse di statue e arazzi, i corridoi coperti di tappeti rarissimi, mentre tutti coloro che lo incontravano si prostravano a terra e esclamavano:  “Nobile erede!…”

Ed io che ho voluto impressionarlo facendogli servire i cibi e le bevande più care! pensò Ran, guardandolo in tralice. Deyan sorrideva, sentendosi ovviamente a casa sua in quel magnifico palazzo dalla ricchezza opprimente, abituato al sussiego di servi e cortigiani. Tutti poi spostavano lo sguardo stralunato sul sayanni, probabilmente sconvolti dalla corda che teneva in mano e che osava legare le mani di un principe ereditario; e Ran sudava freddo, rendendosi conto che solo il fragile patto del salvacondotto e gli ordini stessi di Deyan gli salvavano la vita, lì nella casa dei peggiori nemici della sua stirpe.

Ormai da tempo era il kelith a camminare innanzi trascinandosi dietro Ran, e non il contrario. C'era da perdersi in quella congerie di sale e corridoi. Alla fine giunsero davanti a grandi porte istoriate con caratteri arcaici, guardate da soldati kelith alti quanto un sayanni e dall'aspetto altrettanto nerboruto.

Deyan si fermò.

"Tira fuori il salvacondotto e mostralo alle guardie," ordinò al suo rapitore, che senza pensare all’assurdità della situazione obbedì prontamente. Alzò gli occhi alle porte, sorrise. "Sai leggere, Ran?"

"Poco, e non certo i caratteri kelith."

"Quell'iscrizione è il motto dei principi di Shana. 'Solo gli déi sopra di noi'."

Che indicibile arroganza! pensò Ran, e si volse intorno meditando su quanto dolore, lacrime e sudore doveva essere costato quel palazzo ai kelith che stavano al di fuori. Poi guardò Deyan, così sicuro di sé; e provò una certa ammirazione per lui pensando che era nato in quell'ambiente sfarzoso, con quel motto nel cuore, e nonostante tutto era stato capace di volgere il suo sguardo al mondo esterno, degnandosi perfino di rivolgere la parola ad uno come lui, lanciandosi in avventure rischiose quando aveva almeno mille servi pronti a servirlo e riverirlo...

Le grandi porte si aprirono.

La sala che si stendeva davanti a loro era enorme, circondata da una doppia fila di logge. Il soffitto era a cupola, traforato da miriadi di finestrelle e decorato di piastrelle azzurre. L'aria era fresca, profumata da enormi incensieri di bronzo, e fresco era il pavimento di marmo variegato. I cortigiani sembravano piccoli in quella vastità, seduti su grandi cuscini trapuntati in uno sfavillio di vesti e gioielli. Una coppia di pavoni del deserto vagava sul lustro pavimento, adornandolo con lo splendore delle piume. Su una piattaforma di legni rari, coperta da un enorme baldacchino dalle colonne tortili, stava il trono di Unari-shir, largo e basso com'era uso tra i kelith. Una fila di guerrieri dalle armature favolose affiancava la piattaforma, e davanti ad essa un gruppo di musici eseguiva sommesse nenie dai complicati accordi.

Deyan entrò, e le musiche tacquero all'improvviso. I cortigiani si voltarono verso di lui, smisero le loro chiacchiere, lo fissarono con occhi tondi e, come ad un segnale preciso, si inchinarono tutti insieme. L'erede rispose con un cenno regale del capo.

Poi Unari apparve, entrando nella sala dal loggiato. Tutti si inchinarono ancor più profondamente. Il principe salì sul suo trono, con aria imbronciata, si sedette a gambe incrociate e fissò la sconcertante coppia che avanzava al centro della sala.

Deyan si fermò. Secondo l'etichetta kelith piegò un ginocchio a terra, toccò il suolo con le mani legate e le portò alla fronte. “Salute e prosperità a te, mio padre e signore.”

Ran restò in piedi, fissando Unari a bocca aperta.

Il principe afferrò il suo scettro, se lo battè lievemente sul palmo aperto.

“Rialzati, Deyan-shir, mio erede e principe di Shana.”

Deyan si alzò, guardò Unari con uno sguardo dritto e fermo.

Gli occhi sottili del principe si spostarono irosamente su Ran. “Il mio salvacondotto mi proibisce di punire la tua incredibile impudenza, nondimeno ti ordino di togliere immediatamente quella corda dai polsi di mio figlio! Come hai osato insultarlo a questo modo, barbaro sayanni?!”

L'odio razziale di Ran rinfocolò il suo orgoglio. Alzò il mento e rispose: 2Ho osato molte cose nella mia vita, principe. E non sono al tuo servizio, per cui me ne infischio dei tuoi ordini. Libererò tuo figlio solo quando avrò tra le mani il suo riscatto. Come vedi, insulti a parte, te l'ho riportato in ottima forma, sano e salvo. Quindi, niente sconti!”

I cortigiani mormorarono, indignati.

“Non offenderlo, Ran,” mormorò Deyan, con voce appena udibile.

“Scusa," rispose Ran con la stessa voce. "Ma stando con te mi ero dimenticato quanto sono arroganti e insopportabili i kelith!”

Unari fece un cenno secco al suo tesoriere, e dei servi avanzarono verso Ran portando dei sacchetti dal confortante tintinnio. Giunti a qualche passo da lui, li slegarono e rovesciarono con cautela sul pavimento il loro sfavillante contenuto.

Il sayanni ebbe un'espressione rapace e esultante vedendo quella pioggia di monete sul pavimento.

“Ecco il tuo riscatto,” disse Unari indicandolo. “Contalo pure, se vuoi: non troverai ammanchi. E ora libera immediatamente il principe erede!…”

Ran si precipitò a sciogliere la corda, con un sorriso avido.

“Sono salvo, per Kamoh e Lilia!... Me ne rendo conto solo adesso... Mille benedizioni a te, Deyan-shir, e al destino che ti ha messo sulla mia strada. Spero che tu possa provare un giorno la mia stessa felicità.”

“Goditela, Ran.” Un sorriso appena accennato. “Te la sei meritata. E sta' lontano da Kelitha, in futuro. Non abusare della tua fortuna, ti è andata bene una volta; la prossima potrebbe costarti cara.”

“Lo stesso vale per te, kelith. Comunque grazie!” 

Si sedette a terra, tutto contento, e cominciò a contare i soldi: operazione che per un guerriero ignorante come lui non era certo tra le più facili.

Deyan si avvicinò al trono del padre, osò un lieve sorriso. “Grazie, padre mio, per avermi liberato dalla prigionia.”

“Non potevo permettere ad un barbaro sayanni di tenere in ostaggio un nobile della mia famiglia,” rispose seccamente Unari.

Il sorriso di Deyan si spense. Era chiaro che il padre era in collera con lui. Si apprestò quindi a sentire il solenne rimprovero che gli avrebbe fatto, sopportando l'umiliazione di doverlo ascoltare davanti a tutti.

“Ho ricevuto un messaggio dal nobile Estsen-shir di Itka,” disse Unari nel silenzio.

Deyan abbassò doverosamente la testa.

“Quando ti è stato dato il permesso di viaggiare, figlio, ti è stato forse detto di offendere mortalmente il nostro maggiore vicino?”

“No, padre.”

“Ti è stato detto di lanciarti in assurde imprese da assassino, e farti catturare ignominiosamente dopo aver commesso un delitto assolutamente inconcepibile per qualsiasi kelith?”

“No, padre.”

“Lo sai cosa farei io, se qualcuno violasse la mia shanda come hai fatto tu, e possedesse con l'inganno proprio la mia Prima tra le Prime?!…”

La voce di Unari era salita in un urlo sferzante, che echeggiò nella sala silenziosa facendo trasalire tutti.

“Faresti ciò che Estsen-shir stava facendo a me, quando sono stato rapito dal sayanni.”

La voce di Deyan era dispiaciuta, ma per niente intimorita.

“No,” rispose Unari, ferocemente. “Farei di peggio.”

Un lungo, tremendo silenzio.

Unari riprese a fatica il controllo, ma la sua voce era velenosa. “Il tuo gesto inqualificabile ha messo in crisi i nostri rapporti con Itka. Persino la mia posizione nell'Augusto Consorzio è minacciata. Mi è stata richiesta la tua consegna all'offeso come riparazione del male commesso, ma naturalmente questo non posso concederlo: te lo meriteresti, ma sarebbe anche un gesto di indegna debolezza da parte di Shana. Ho pagato il riscatto proprio perché la tua punizione deve esserti inflitta qui, e dalle mie mani, poiché solo io devo aver potere su di te.” Una pausa. “Se ti è rimasta ancora un po' della dignità di un principe, Deyan-shir, comprenderai che non ti posso perdonare. Il tuo delitto è stato troppo grave: devi essere punito per ciò che hai fatto. E punito severamente.”

Deyan alzò la testa, rassegnato.

“E sia, padre: rimetto nelle tue mani la mia nomina ad erede.”

Ci fu un mormorio della corte.

“Rinunci al tuo titolo?” domandò Unari, con voce tagliente. “E pensi che questo sia sufficiente ad evitare l'ostilità di Itka e forse di altri membri dell'Augusto Consorzio? Che sia sufficiente ad evitare l'isolamento di Shana?"

“Forse no, padre. Se offrirai questa mia rinuncia con mani tremanti all'Augusto Consorzio. Ma se  ne esalterai il valore, ti dimostrerai giusto e inflessibile, salvando la dignità di Shana. Che tutti sappiano che tu solo e nessun altro è il signore di questa terra e l'arbitro della vita dei suoi familiari! Forse questo causerà inimicizia, ma ti farà rispettare presso gli altri principi.”

“Come osi darmi consigli di politica, proprio tu, dopo quel che hai fatto?!” tuonò Unari, diventando paonazzo. "Ti ordino di tacere immediatamente!…”

Deyan obbedì, ma non i cortigiani. Alcuni tra i più anziani mormorarono tra di loro, dando ragione all'erede. Unari li udì e li azzittì con un cenno imperioso del suo scettro.

“La tua punizione deve essere esemplare, Deyan-shir, e deve poter chiudere per sempre il triste capitolo del tuo delitto. Dopo di che tutti, Itka, l'Augusto Consorzio... e Shana stessa... considereranno chiuso l'incidente. Ascolta dunque la tua sentenza!”

Si alzò, e tutti i presenti si alzarono in un silenzio fremente. Ran smise di contare le sue monete, guardò Deyan con trepidazione.

“Shana-iban-Unari Deyan-shir!” proclamò il principe, con voce solenne. “Hai perso il tuo diritto di erede al trono a favore di Gamosh, il primo dei cadetti. Ti sei dimostrato indegno di essere un principe e un nobile. Pertanto hai udito il tuo nome nobiliare per l'ultima volta. Esso sarà cancellato da tutti i documenti e le iscrizioni.”

A un suo cenno, due massicce guardie in armatura si affiancarono a Deyan e lo afferrarono saldamente per le braccia.

“Cesserai dunque di esistere, ma non avrai una morte misericordiosa. Poiché per secolare usanza non si può violare il corpo di un nobile, sarai innanzitutto marchiato in viso col segno indelebile della schiavitù perpetua, e ti sarà saldato addosso il collare da animale.”

La corte emise un mormorio attonito. Gli occhi di Deyan si spalancarono, mentre un pallore assolutamente mortale gli saliva al viso. 

Che cosa?!

Ma non era ancora finita...

“Quando sarai stato così privato del tuo rango, sarai portato nella piazza delle esecuzioni fuori dal palazzo, dove già ti aspetta l'ambasciatore di Itka. Laggiù...” Unari fece una pausa, e la sua voce tremò. “Laggiù sarai denudato e fustigato pubblicamente, assieme ad altri schiavi e malfattori. Quindi ritornerai qui affinché tutti coloro che ti hanno conosciuto vedano la tua vergogna. E infine, se sarai ancora vivo dopo tutto questo... sarai portato nelle oasi meridionali, dove spingerai le macine di giorno e di notte, fino alla morte.”

Tutti restarono agghiacciati, e persino Ran fissò Deyan con costernazione. 

Ad Unari non era bastato condannare un principe ereditario ad un oltraggio che non era nemmeno concepibile, ma l'aveva anche destinato ad una morte orribile: uno schiavo normale non durava un mese, a faticare sotto il sole del deserto; un albino non sarebbe durato una settimana. 

Deyan non poteva ancora credere a quel che aveva appena sentito, sembrò sul punto di cadere in ginocchio. Non si era aspettato una simile, atroce sentenza: avrebbe preferito mille volte essere divorato vivo dagli avvoltoi di Itka...

Per un lungo istante fissò il vuoto con disperazione, sembrando più morto che vivo. Poi, lentamente, la sua ferrea disciplina interiore ebbe il sopravvento.

Si raddrizzò alquanto, alzò di nuovo lo sguardo a Unari e la sua voce salì, piena di sconfinato disprezzo: “È per soddisfare la tua perversa crudeltà che mi fai questo, padre? O per la più abietta viltà davanti all'ira dei tuoi vicini?... In me disonori tre millenni di nobiltà, e mi condanni a ciò che nemmeno i sayanni farebbero ad un principe kelith!... Se tu fossi soltanto un poco meno vile o crudele, mi destineresti semplicemente alla morte... ma te ne manca il coraggio!”

“Taci!” tuonò il principe, sbarrando gli occhi. “Come osi?!…”

Ma Deyan ormai era scatenato. 

“Shi-El Kaira’shtai!” gridò, nell’antica lingua, e tutti ammutolirono. “In nome della Misteriosa, io ti maledico, Shana-iban-Vayua Unari-shir! Nella vita che mi resta e nella morte che mi aspetta, possa la maledizione della dea raggiungerti, e distruggerti!…”

La voce di Deyan era riecheggiata potentemente nella grande sala. E, come se la sua invocazione avesse trovato ascolto, una corrente di aria passò fischiando tra le finestre della cupola: un suono assordante nel silenzio tremendo che era seguito.

Unari arretrò di un passo, pallido come un morto, mentre la corte lo fissava agghiacciata.

“Portatelo al boia e eseguite i miei ordini,” mormorò, con voce strozzata.

 

 




 


 

Passarono lentamente le ore. Unari si era di nuovo seduto sul suo trono, con la testa china. I musici avevano tentato di suonare qualche nota, ma erano stati subito azzittiti. I cortigiani mormoravano. Nel silenzio si udivano solo le strida dei pavoni, e il tintinnio ozioso delle monete di Ran sul pavimento.

“Allora, sayanni, sei soddisfatto?” aveva chiesto Unari, rabbiosamente. “Hai avuto il tuo riscatto. Vattene, dunque.”

“Non ho ancora finito di contare i miei soldi,” aveva risposto Ran, velenosamente. “Il tuo salvacondotto mi dà il permesso di stare dove voglio sul tuo territorio, intoccabile e inviolabile, fino al tramonto, e io voglio stare qui. Qualcosa in contrario?”

“La tua presenza insozza questa sala e dà fastidio a me e alla mia corte!…”

“Davvero?” Ran aveva alzato le spalle. “Oh, come mi dispiace!... Ma forse il grande Unari-shir vuole mancare alla parola data.”

“Come osi, barbaro?!” avevano tuonato le guardie del principe, avvicinandosi a lui per scacciarlo.

Ma Unari aveva fatto un gesto stanco. “Lasciatelo stare, non importa. Che faccia quel che vuole... fino al tramonto.”

Era chiaro che il suo pensiero, come quello di tutti, era rivolto altrove.

E alla fine le porte gigantesche si spalancarono di nuovo. 

Le guardie scelte trascinarono una figura nuda, sanguinante e inerte in mezzo alla grande sala. Ran, che stava impilando distrattamente le monete del riscatto, spalancò gli occhi e le lasciò cadere a terra...

Se non fosse stato per i capelli bianchi, non avrebbe mai riconosciuto in quell'essere miserabile il principe altezzoso che aveva appena riportato a casa.

I soldati lasciarono cadere a terra il loro prigioniero. Uno di loro lo prese per i capelli, gli alzò la testa in direzione di Unari. “Sentenza eseguita, nobile principe.”

Un'orribile ustione brunastra, impressa sullo zigomo destro, sfigurava il bel volto di Deyan, pallidissimo per il resto. Unari fece un gesto, e un servo andò a gettargli in faccia una tazza d'acqua mista ad aceto, scuotendolo. Ci volle un po' prima che si riprendesse; finalmente aprì gli occhi, ma non ebbe la forza di alzarli all'assemblea che lo fissava agghiacciata.

Unari si rivolse all'ambasciatore di Itka, che aveva fatto il suo sprezzante ingresso dietro al condannato.

“Questo soddisfa il tuo signore?”

L'ambasciatore studiò Deyan, con freddezza. “È stato uno spettacolo memorabile, nobile signore, ma... se posso permettere un umile suggerimento…”

“Parla pure.”

“Ecco, hai fatto di questo malfattore uno schiavo, ma egli è tuttavia di nobile origine, e si vede ancora..." Arricciò il naso. "Credo che occorra privarlo dei suoi attributi principeschi. Bisogna bruciargli i capelli, le sopracciglia e ogni pelo del corpo, in modo che non ricrescano più e non rivelino che è un albino.”

“E gli occhi?” chiese Unari.

“Semplice, nobile signore. Basta strapparglieli.”

“No!…”

Tutti si voltarono verso quella voce, sorpresi.

Era stato Ran a gridare, scattando in piedi.

“Cosa vuoi ancora, predone?” chiese Unari, irritato.

Tutti lo fissavano, tranne Deyan che continuava a tenere lo sguardo fisso al suolo. Ran esitò, rendendosi conto della tensione intorno a lui, poi disse con voce imbarazzata: “Ecco, nobile signore... non ti sembra di averlo già punito abbastanza?”

“E a te cosa importa?”

Mostro spietato e senza cuore, pensò Ran, tutto quel che conta per te è calpestare tuo figlio per far piacere a quest'altro bastardo...

Quel pensiero gli fece venire un'improvvisa ispirazione.

“Beh, se tu facessi quel che suggerisce quel nobile, lo rovineresti del tutto, cioè... lo renderesti completamente inutile... non so se mi spiego.” La sua voce prese forza, man mano che l'idea si sviluppava nella sua mente. “Ne hai fatto uno schiavo, no? Ma perché mandarlo a girare le macine? Un così bel giovane, forte e ben fatto, e per di più... albino?”

“Ahhh," sorrise l’ambasciatore di Itka, compiaciuto. “Stai dicendo che ti piacerebbe usarlo per i tuoi piaceri carnali.”

Ran non riuscì a trattenere un'espressione scandalizzata. 

“Non per me! E poi io sono ancora vergine.” Respirò profondamente. “Ma conosco gente che pagherebbe oro sonante per i servigi di un simile, eccezionale schiavo.”

“Ah, sì?”

“Case di piacere,” annuì lui, con fare ruffianesco, e si rivolse di nuovo a Unari. “È già un peccato che tu abbia rovinato la perfezione di tuo figlio con quel marchio, e spero che i tuoi carnefici abbiano fatto il loro lavoro con la frusta senza danneggiare troppo la merce. Non sprecarlo nel deserto, basterebbe esporlo anche così nei mercati che so io, e renderebbe una fortuna…”

“Dunque lo vuoi comprare?”

“Sì, principe.” Guardò il riscatto, e sospirò. “A un prezzo giusto, si intende…”

“Quanto vale per te un principe kelith?”

Ran spostò con un piede una pila di monete, guardò Unari strizzando un occhio.

Il principe rise, aspramente. “Mi daresti la metà del riscatto?”

L'azzurro delle gote di Ran impallidì alquanto.

“...Facciamo un quarto, eh?”

Unari guardò il nobile di Itka, che studiava il condannato con sadico interesse. “Che ne dici, ambasciatore?”

Costui distolse a fatica lo sguardo dalla nudità del prigioniero, sogghignò.

“Sarebbe l'unico oltraggio che mancherebbe a quelli già sopportati da questo sacrilego. Passare da principe erede a schiavo destinato al piacere di chissà quali infimi individui…” Girò intorno a Deyan, gli mise il suo bastone da passeggio sotto il mento e lo costrinse ad alzare la testa. “Allora, parla: preferiresti usare il tuo corpo per muovere una macina, o per dare sollazzo a canaglie come questa?”

Deyan strinse spasmodicamente gli occhi, e tutti videro che era ad un passo dalle lacrime. Ran si  volse intorno, chiedendosi come si potesse godere di quel dolore spaventoso, anziché provare pietà...

“Di tutte le punizioni, questa sarebbe senz’altro la più sublime," ridacchiò l'ambasciatore. “Avendo oltraggiato la moglie di Estsen-shir, saresti oltraggiato allo stesso modo. Predone!” esclamò, rivolgendosi a Ran. “Sei sicuro che potresti destinarlo a quest'infamante servizio? Non credo che questo schiavo sia molto docile!”

“Nessuno lo è, naturalmente.” Ran lottava per tenere la voce allegra. “Ma i padroni delle case di piacere hanno una grande esperienza nella doma dei loro schiavi. E non li lasciano morire tanto facilmente: devono prima rendere il loro gruzzoletto. Del resto, dopo le prime volte, il loro spirito è talmente stroncato che non resistono più, e diventano davvero docili.”

Una voce dentro di lui gemeva: e questo potrebbe essere davvero il mio prossimo destino...

L'ambasciatore riprese il suo bastone, si volse verso il principe. “Ebbene, Unari-shir, la mia opinione è che sia meglio vendere questo schiavo al sayanni. Il mio padrone ne sarebbe contento.”

Unari annuì, si rivolse a Ran. “Se farai gli affari che ci hai detto, non ti dispiacerà lasciare qui la metà del riscatto. Prendere o lasciare.”

Deyan si scosse dal suo annientamento, raccolse le sue poche energie, si voltò verso il sayanni e gridò con disperazione: “Ran!... Non voglio che tu accetti! Lasciami morire qui, ti prego...” Chiuse gli occhi, sull’orlo delle lacrime. “Vattene, e lasciami morire!”

La sua voce era solo una caricatura del tono sicuro e controllato di un tempo.

Stupido kelith! pensò Ran, cupamente. Non starai credendo che stia facendo sul serio!... Non capisci che non ho altro modo per salvarti la vita?

Ora tutti fissavano il sayanni. Il fatto che Deyan stesso lo implorasse di rinunciare aumentava il piacere di venderglielo. Lui se ne accorse, irrigidì il suo cuore e si decise. 

“Affare fatto, principe Unari,” disse con tono sordo, cercando di non pensare a quel che stava facendo. Sputò sul lindo pavimento in segno di accettazione. “Voglio un sacco per la metà del riscatto che mi rimane, e una catena da attaccare al collare dello schiavo. Dopodiché me ne andrò, e nessuno mi seguirà.”

“Nessuno ne avrà voglia,” ribattè Unari, alzandosi di scatto. Si rivolse ai segretari. “Compilate un regolare atto di vendita. E date al predone ciò che ha chiesto. Ora lasciatemi al mio lutto. Oggi mio figlio è morto!”

E se ne andò, senza voltarsi indietro. 

 


 

 


 *

 

  




Tutta Luna di Fuoco sogghignava alla conclusione del grande affare di Ran, perfettamente in linea con il personaggio. E già nelle taverne i trovatori avevano composto salaci ballate al proposito. 

Ran però non rideva affatto. E nemmeno Mastro Kurmaji, che l'aveva di nuovo convocato alla Grande Casa, profondamente deluso da come era andato l'affare, e soprattutto da come Ran l'aveva gestito.

“Sei stato sfortunato, va bene, ma perché aggiungere alla sfortuna un'altra stupidaggine? D'accordo, ora possiedi uno schiavo: ed è forse l'unico schiavo albino maschio che sia mai esistito tra i kelith. Ma per gli dèi, è in uno stato pietoso!”

“Ora sta meglio, Pushpa lo ha medicato.”

“E come pensi di pagare Pushpa?”

“Con nulla. L'ha fatto gratis.”

Kurmaji fece un sorriso amaro. “Un attacco di generosità contagiosa la tua, non è vero? Perché è per questo che hai comprato il tuo ostaggio. Per salvarlo dalla morte.”

“Non è vero!" si difese Ran. “Ho avuto i miei buoni motivi…”

“Risparmiami le tue bugie.”

Ci fu un lungo silenzio.

“Peccato, era la nostra unica occasione di avere un alleato tra i nobili kelith,” sospirò Kurmaji. “Non avrei mai creduto che suo padre l'avrebbe trattato con tanta severità.”

“Nemmeno lui lo credeva…”

“Già, però ora il tuo kelith non è più un principe. È un miserabile schiavo. L'ho visto quando l’hai portato indietro, e non ho trovato traccia alcuna del suo formidabile spirito. Peccato, perché questo abbassa ulteriormente il suo valore commerciale: pensa a quale quotazione sarebbe giunto, se avesse potuto offrire la sua erudizione aristocratica!” Bevve il suo infuso. “Invece ora non rimane che il suo corpo. Una volta guarito, potrai decorosamente portarlo sul banco degli schiavi. Dovrebbe fruttarti a sufficienza per chiudere in pareggio o lieve attivo la tua stagione: è piuttosto bello per i canoni kelith, e in più è un albino, una rarità assoluta.” Kurmaji sospirò. “Se non te la senti di venderlo in prima persona, puoi sempre portarcelo qui: te lo ritireremmo ad un prezzo di mercato, con il venti per cento in più per la sua peculiarità.”

Ran chinò la testa, pensieroso. Non aveva nemmeno toccato la sua tazzina.

“Devi prendere questa decisione alla svelta," disse Kurmaji. "Hai già sostenuto un sacco di spese per questa sfortunata impresa. Pushpa o no, devi nutrire e vestire il tuo schiavo ogni giorno se vuoi tenerlo in buone condizioni. Ogni giorno di indugio abbasserà quel poco di ricavo che ti resta, e tra poco finirai comunque in passivo. Devi venderlo, Ran. E venderlo subito.”

“Non posso fargli una cosa simile,” mormorò lui, quasi a se stesso.

Kurmaji sospirò.

“Lo vedi? Sei troppo sentimentale per essere un predone. Non avresti dovuto comprarlo. Saresti tornato con l'intero riscatto e un sacco di problemi in meno!”

Ran non rispose.

“Invece ora sei dilaniato da mille scrupoli di coscienza, che non ti aiuteranno a risolvere la questione di quel kelith. Credi davvero di potergli risparmiare l'umiliazione di essere venduto? Quando sarai dichiarato fallito, sarà esposto comunque sul banco degli schiavi, come tuo ultimo bene da mettere all'incanto. Se la cosa ti consola, pensa che gli farai compagnia anche tu... una magnifica situazione, non c'è che dire.” Kurmaji si alzò. “A volte, Ran, la pietà è la più crudele delle maledizioni. Il tuo schiavo forse ha tutti i motivi per odiarti a morte.”

 

  


 






Il sayanni camminò stancamente fino alla sua abitazione, di proprietà dei Marjaban che, ineluttabilmente, segnavano l'affitto in calce al lungo elenco delle sue passività.

Dentro trovò il consueto disordine. E, nel solito angolo, il suo schiavo.

Deyan fissava il vuoto, come sempre, abbracciandosi le ginocchia. Era rimasto nudo come Ran l'aveva portato, nonostante i kelith avessero fama di essere pudichi: non aveva addosso altro che il collare di bronzo saldato. Sui suoi muscoli affusolati le ferite dell'infamante supplizio a cui era stato sottoposto stavano guarendo, e solo un sottile alone di tessuto arrossato circondava il profondo marchio sul suo volto: l'ideogramma kelith della schiavitù.

Era insomma abbastanza in salute, nonostante non mangiasse se non imboccato, non bevesse se non costretto, e si muovesse solo per andare alla latrina: unica concessione che faceva alla propria dignità. Per il resto non si lavava, non pettinava la sua chioma più scarmigliata che mai, e una sconcertante barba bianca aveva cominciato a crescergli sulle mascelle.

Passava i giorni così, seduto, a fissare il vuoto, senza una parola, un tremito degli occhi.

“Ha perso la ragione?” aveva chiesto Ran a Pushpa.

“Non lo so," aveva risposto quest'ultimo, con un sospiro. “Può darsi che questa si sia semplicemente nascosta nel più profondo di lui. Succede, quando si subisce un grande dolore.”

“Non puoi guarirlo?”

“Le ferite dell'anima guariscono col tempo.”

“Per gli déi! Io non ho più tempo!”

“E nemmeno io, Ran.” Pushpa aveva raccolto le sue medicine. “Ho fatto tutto questo per lui, per la cortesia che ha avuto con me, e in cambio delle sue storie. Non certo per la tua cortesia, che non ne hai, né per i tuoi soldi, che non ci sono. Addio.”

Se n'era andato, lasciandolo solo con quel misero kelith nudo e indifferente, che non faceva che fissare il vuoto, come una bambola rotta...

Il predone distolse lo sguardo da lui, andò al tavolo e si sedette pesantemente. Scostò le tazze sporche con una mano e prese direttamente la brocca del vino, bevendo a garganella.

“Kurmaji ha ragione,” disse a voce alta. “Sono uno sciocco. Tutto ciò che tocco si muta in cenere. Sono incapace di tutto. Sono un fallimento. Guarda a cosa mi sono ridotto!…”

Deyan non diede alcun segno di vita.

“Già, tu non mi ascolti. Sarebbe pretendere troppo, vero? Io non sono che un disertore sayanni. Sono nato nei bassifondi di una casta, con un destino già stabilito, e nessuna voglia di percorrerlo. Non mi piaceva la disciplina, il dover sempre obbedire a capi che detestavo. Non godevo nell'ammazzare. Non valevo niente come guerriero, insomma.”

Bevve ancora, abbondantemente. Poi si alzò, andò davanti a Deyan, gli si accovacciò innanzi.

“Cosa vuoi che sia allora la perdita della libertà per un relitto come me? Niente, vero? E pensare che la perderò perché ho voluto salvarti la vita. Mentre tu avresti preferito essere bruciato in testa e accecato e messo a girare le macine sotto la frusta degli aguzzini, mentre i soli avrebbero squarciato la tua fragile pelle bianca riducendoti ad un ammasso di vesciche senza vita. Oh, Kurmaji ha ragione, quell'avido avvoltoio nero! Hai tutti i motivi per odiarmi. Povero, derelitto, sfortunato Deyan-shir!”

Aveva pronunciato quel nome con tale sonorità da far vibrare quasi le pareti della stanza.

“Sì!” tuonò Ran, “Deyan-shir! Shir! Principe e erede, nato in un palazzo dove non un solo mattone, non un pugno di calce era lasciato nudo ad offendere i tuoi occhi regali. Un palazzo che non avrei immaginato nemmeno nel più sfrenato dei miei sogni di gioventù. Il paradiso, non è vero? Un paradiso. Oro. Argento. Fiori splendenti e acqua cristallina, mentre fuori i tuoi sudditi sono costretti a bere putrida acqua di pozzo. Alberi secolari. Arazzi, piastrelle cesellate, tappeti che sono costati gli occhi di chissà quante tessitrici. Ricchezza. Gloria. Solo gli déi sopra di noi! L'ho ricordato bene? Era questo il tuo motto, nobilissimo principe kelith, orgoglioso, altezzoso, superbo Shana-iban-Unari Deyan-shir?!”

Gli occhi rossi di Deyan tremarono lievemente.

“Ahhh... ma ora non sei più shir. Deyan e basta. Finito tutto. Un viaggio nelle segrete del tuo perfetto palazzo, ci eri mai stato prima? Avevi mai sentito i gemiti di chi ci stava dentro? Ah, ma certo, tu sei un principe albino, abituato alla tortura altrui. Un ferro rovente sulla faccia!” Ran toccò il marchio sulla pelle di Deyan, che trasalì. “Un ferro su un principe, e... magia, quel principe non è più tale. È uno schiavo. Allora vive sulla sua pelle quello che tante volte ha rimirato dalle mura, magari sbadigliando. Perché solo tu hai un orgoglio, vero? Solo tu hai sofferto e pianto di vergogna, quando hanno esposto il tuo corpo prezioso come la carcassa di una bestia macellata. E poi ti hanno battuto, mentre tutti ti guardavano avidamente, per vedere come un albino si contorceva nel dolore, per vedere se sanguinava, lui che aveva solo gli déi sopra di sé!”

Il riflesso della luce della lampada si sdoppiò negli occhi rossi del kelith. Ran si accorse che delle lacrime si stavano formando in quegli occhi fissi, indifferenti, immutabili...

“Solo tu hai diritto di soffrire, nobile principe decaduto. Non certo io, il vile predone che ti ha salvato la vita per due volte. Non certo io, il cane sayanni che sta marciando dritto verso il palco degli schiavi per causa tua!... Mi hanno chiesto di venderti, sai? E quale altro padrone ti tratterebbe come ho fatto finora io? Accudendoti, nutrendoti, sopportando il tuo silenzio, la tua indifferenza, la tua irriconoscenza, con tanta comprensione per il tuo dolore? Un altro padrone ti frusterebbe fino a farti vomitare sangue, ti incatenerebbe in una cantina e, se questo non bastasse, ti drogherebbe fino a renderti quello che legalmente sei... un corpo da bordello, e nulla più! Le leggi di Luna di Fuoco mi imporrebbero di trattarti così, di essere crudele e spietato. E tu, invece di essermi grato per aver resistito fino ad adesso e averti trattato con onore, me ne fai vergognare, facendo sì che tutti ridano della mia generosa stupidità!”

Ran si alzò di scatto, afferrò la brocca del vino e la scagliò rabbiosamente contro la parete.

Deyan sussultò appena.

Per un lungo istante il sayanni restò a fissare la macchia vermiglia sul muro, respirando affannosamente. 

Poi disse, a voce alta: “Non posso più continuare così. Adesso basta!…” Si voltò verso Deyan, lo afferrò per un braccio e lo alzò di peso. “Vestiti.”

Non ci fu reazione.

“Vestiti, ho detto!..." urlò Ran, e visto che il kelith non obbediva, gli allacciò quasi a forza uno straccio intorno ai fianchi. 

Poi frugò tra le cianfrusaglie che riempivano la sua cassapanca, ne estrasse un'ascia e la catena che gli avevano dato a Shana. Attaccò quest'ultima al collare di Deyan, se lo trascinò dietro fino alla porta, l'aprì  con un calcio.

C'erano dei passanti per la strada, ma si fermarono tutti a guardarlo. Ran uscì nella luce del tardo pomeriggio, alto e eretto nonostante avesse bevuto molto, dando uno strattone violento alla catena e urlando: “Avanti, cammina!…”

Deyan barcollò a quel brutale strattone, e obbedì come una marionetta.

Si levò una risata e qualcuno gridò: “Attento, Ran, non sciupare il tuo schiavo!…”

“Fatevi i fatti vostri!” tuonò Ran, marciando con irruenza verso la Grande Casa.

Molti gli andarono dietro, curiosi.

“Aspetta! Non portarlo al mercato! Te lo compro io…”

"È davvero un albino? O gli hai candeggiato la testa per imbrogliare gli stolti?”

“Forse hanno imbrogliato te, Ran! È così facile per i kelith!”

Ad un ennesimo strattone Deyan cadde in ginocchio nella polvere. La cosa fece ridere gli astanti, che lo pungolarono divertiti. Lo afferrarono per rialzarlo. qualcuno ne approfittò per tastarlo maliziosamente.

“Che ti prende, kelith? Non sai tenere il passo del grande guerriero?”

“Ran! Facci vedere se questo schiavo è tutto fumo e niente arrosto!”

“Se sa l'arte del letto come quella di camminare, stai fresco…”

“Ma sembra comunque bene in carne. Che ne dici, Ran? L'hai ben esaminato quando l'hai comprato?”

“Mi offro io a farti una perizia…”

Ran si voltò di scatto. Vide che Deyan non reagiva a quell'aggressione, ne era attonito spettatore. Allora reagì al posto suo: strappò dalle mani di un passante un bastone e si diede a menar colpi a destra e a manca, allontanando la ressa. 

"Il primo che gli si avvicina avrà la testa spaccata, chiaro?!” urlò, minacciosamente.

Gli astanti borbottarono, ma obbedirono e gli fecero largo.

Ormai erano giunti nella piazza davanti alla Grande Casa. La voce di quel che stava succedendo si sparse tra la folla del mercato, e molti si diressero verso il banco degli schiavi, vedendo che era la meta del sayanni.

“Finalmente Ran vende il suo gioiello!…”

Tutti lo guardarono, divertiti e incuriositi, mentre saliva il palco trascinandosi dietro quel misero kelith mezzo nudo. Si piantò a gambe larghe in mezzo al banco, si portò le mani ai fianchi e urlò: “Dove sono i Giudici delle Contese?!…”

“I Giudici! I Giudici!” fece eco la gente, ridacchiando.

Un t'yr sayanni venne trascinato quasi di peso, tirato per la lunga palandrana. Era stato evidentemente disturbato durante una buona cena, perché aveva ancora un pezzo d'arrosto in pugno e un gran tovagliolo al collo. Stizzito, si liberò da quelle mani e tuonò, pieno di indignazione:

“La vendita di schiavi è finita, l'orario delle contese passato da un pezzo! Sei ubriaco, Ran? Torna a casa!…”

“Brutto parassita che non sei altro,” ribattè il sayanni. “Sei pagato per fare il giudice o per mangiare come un ratto affamato? Ho bisogno dei tuoi servigi, ora!”

“Ha ragione Ran!” gridò qualcuno tra la folla, "Giudice, fà il tuo lavoro!"

“Oh, beh…” Il t'yr si tolse il tovagliolo, si pulì la bocca e posò la carne, cercando di riprendere un minimo di aspetto dignitoso. “Allora facciamo in fretta. Va bene, Ran! Chiami a testimone la Comunità di Luna di Fuoco. Per che cosa?”

Si fece un fremente silenzio.

Ran diede uno strattone alla catena, e Deyan cadde in ginocchio al centro del palco.

“Come risulta dai documenti depositati alla Grande Casa, sono proprietario di questo miserabile schiavo kelith che si chiamava Deyan-shir. Come vedete dai capelli, era un nobile, e niente meno che un principe ereditario; ma gli piaceva troppo fare il sacrilego, così l'hanno marchiato a fuoco e ridotto al rango di una bestia. L'ho comprato pagando un bel prezzo, ma tutti voi sapete che non ho fatto un grande affare.” Prese un braccio di Deyan e lo sollevò. “Questo kelith ha muscoli flaccidi, e la sua mente è più flaccida ancora. Pensate! Non si è ancora degnato di dirmi grazie per avergli salvato la vita!”

Lo lasciò andare, cavò dalla cintura la sua ascia e spinse a calci il ceppo del fabbro nel mezzo del palco.

“Forse pensa solo alla sua vendetta. O alle belle cose che ha lasciato. Forse è così debole da non poter guardare in faccia il presente, ciò che è... si crede probabilmente ancora un principe nel suo palazzo tutto d'oro.”

Una risata di scherno salì dalla gente. Gli occhi di Deyan si abbassarono sull’assito del palco, il suo respiro si fece più rapido.

Ran si erse maestosamente, e la risata svanì.

“Io non sono altro che un misero predone, ma nella mia miseria so essere forte e affrontare la mia vita. Sono orgoglioso di essere me stesso, e anche se so di essere un ignorante, stupido guerriero impulsivo... non mi importa, io sono quel che sono! E non mi trasformerò certo in un odioso mostro di crudeltà solo a causa di questo maledetto kelith, che mi ha portato solo disgrazia. No, per quanto questo schiavo sia irritante, superbo, arrogante, io non tradirò per lui la mia innata generosità, senza la quale non sarei ciò che sono... e ciò che diventerò.”

Un profondo silenzio calò nella piazza. Nessuno osò ridere di quel sayanni rattoppato, eppure così pieno di dignità. E Deyan ebbe un tremito.

“Dovrei venderti, Deyan-shir.” Ran si chinò su di lui. “Ma non mi va di farlo. E perché dovrei fare ciò che tutti ritengono giusto? Tanto tra poco sarò dichiarato schiavo io stesso, salirò questo palco per essere venduto, subirò il destino che meriteresti tu. Mi permetto dunque l'ultimo lusso da uomo libero di questa mia folle vita. Ti libero dalle tue catene!”

Lo afferrò per i capelli e gli mise brutalmente la testa sul ceppo.

“Per gli déi!" gridò qualcuno. “Non vorrai ammazzarlo!”

“Silenzio!” esclamò il giudice. “Può fare quel che gli pare con il suo schiavo.”

“Giudice! Sei pronto ad assistere?” gridò Ran.

“Sono il tuo testimone.”

L'ascia si alzò lentamente verso il cielo.

Poi calò, e la gente mandò un urlo, che si sposò con il clangore del metallo...

Deyan sussultò. Si aspettava di essere decapitato, ma vide invece l'ascia piantata ad un soffio da lui. La saldatura del collare era stata spezzata di netto.

“Dichiaro libero questo schiavo e rinuncio ad ogni diritto di proprietà su di lui!” gridò Ran, rivolto a tutti. Occhi stupefatti ricambiarono il suo cipiglio, ma nessuno osò fiatare. 

Il sayanni si avvicinò ad un palmo dall'orecchio di Deyan e gli disse: “Hai sentito, nobile principe? Sei di nuovo un uomo libero. Va’ dove vuoi, basta che sia il più lontano possibile da me. Non voglio più vederti. Porta il tuo dolore da un'altra parte, ne ho già abbastanza del mio!…”

Riprese la sua ascia dalla lama ammaccata, se l'appese alla cintura, se l'aggiustò sulla veste sgualcita e se ne andò a testa alta dal palco, verso la sua casa.

Tutti lo guardarono in silenzio, scostandosi dal suo cammino.

“Abbiamo preso atto di questa liberazione," disse il giudice, rivolto a tutti. "Ne manderemo debita registrazione alla Grande Casa. Ebbene, miei cari compagni, lo spettacolo è finito, e qui ormai si è fatto buio. Io me ne vado a casa!”

La gente mormorò, disperdendosi lentamente, mentre un baluginare di luci si accese nelle vie: evidentemente tutti erano dell'opinione del giudice. La piazza si svuotò, a poco a poco, finché le luci del tramonto non svanirono dall'orizzonte. Solo una brezza tiepida, ultima grazia del drastico clima locale, rimase a ricordare il calore del giorno, alzando una cortina di polvere e sibilando nella sua corsa tra le strade.

Deyan era rimasto sul palco per tutto quel tempo, in ginocchio davanti al ceppo, lo sguardo fisso nel vuoto.

Lentamente, esitanti, i suoi occhi si mossero, e così le sue mani. Salirono al collare spezzato, lo allargarono, lo sfilarono, lo lasciarono cadere sul palco.

Con uno sforzo sovrumano si alzò in piedi. Si guardò intorno, e i suoi occhi si fissarono sul mondo azzurro che sorgeva, pieno e tondo, dall’orizzonte di Luna di Fuoco. 

Il silenzio era totale, rotto solo dal sibilo del vento, e ogni cosa era netta e definita ormai, anche il suo destino. In quell'infinita solitudine, un sospiro profondo sollevò finalmente il torace di Deyan, ed egli assaggiò il sale delle sue lacrime segrete, che ridavano la luce ai suoi occhi e al suo spirito. Risentì il senso della sua vita, dopo che non gli era rimasto più nulla da perdere...  

Aprì le braccia, ringraziando l’eternità in un momento di mistica resa; poi le richiuse unendo i palmi davanti al petto, e le sue labbra si mossero appena.

El.

Quindi scese il palco, camminando con passo di nuovo altero e sicuro attraverso le viuzze oscure. Arrivò alla casa di Ran, aprì la porta con cautela.

Il sayanni era seduto sulla sua panca, con la testa sul tavolo, in un caos di brocche e tazze rovesciate, e stava già russando. L'odore del vino da poco prezzo riempiva la stanza, e quasi soffocava la luce incerta della lampada.

Deyan entrò, attraversò la stanza senza far rumore. Prese ciò che gli serviva, quindi se ne andò richiudendo la porta in silenzio. Si fermò presso una vasca che sembrava un abbeveratoio, o una fontana pubblica. Protetto dalle tenebre si lavò, si rase con l'aiuto del coltello di Ran, tagliò senza esitazione i suoi lunghi capelli bianchi e li lasciò volar via nel vento.

Quindi si vestì dignitosamente, si infilò il coltello in cintura, si mise a tracolla la corda di seta, una borsa contenente un sacco vuoto e un rampino. Si avvolse nel mantello scuro di Ran, che gli andava  piuttosto grande, e andò verso la Grande Casa.

Conosceva la strada. Si presentò solitario alla Sala del Vortice.

“Chi sei e dove vuoi andare?” chiese il Marjaban di turno, alzandosi dalla sua poltrona per servire quel tardivo cliente.

“Mi chiamo Deyan, e devo andare su Kelitha.”

Il Marjaban non si scomodò a guardare sotto al cappuccio per vedere la faccia dell'interlocutore. Cercò tra le sue tavolette.

“Non trovo il tuo nome, né come predone, né come dipendente.”

“Sono liberto di Ran il sayanni,” rispose Deyan.

“Ma non sei registrato come suo dipendente.”

“E non lo sono. Ero il suo schiavo.”

“Quindi è a lui che devo addebitare il tuo viaggio?” Guardò la tavoletta di Ran. “Il tuo padrone è quasi in passivo.”

“Lo sa.”

“È una procedura irregolare. Non dovrei mandarti giù senza il permesso scritto del tuo padrone. E poi Ran deve regolarizzare la tua posizione. Devo sentire Mastro Kurmaji al proposito.”

Il Marjaban fece per uscire, ma la mano tesa di Deyan lo fermò.

“Aspetta.”

Il mago esitò, a quella voce così calma e autoritaria.

“Se mi mandi giù subito, sarai pagato il doppio.”

L’innata avidità Marjaban fece brillare gli occhi al mago. “D’accordo, si può fare un’eccezione... se porti in pegno te stesso. Sarò pagato, o tu sarai dichiarato di nuovo schiavo, e ci apparterrai.”

Era una richiesta esosa ed ingiusta, ma Deyan chinò appena la testa. “Il patto è accettato. E adesso fammi andare.”

“Perché questa fretta?"”

“Perché è notte nelle regioni centrali di Kelitha. Non ho un minuto da perdere.”

“Come fai a sapere con così tanta precisione il tempo locale?" Il Marjaban guardò le mani vuote di Deyan. "Non hai comprato un'informazione…”

“Non ho bisogno di informazioni. La mia destinazione è il principato di Shana. Nella capitale. Il punto esatto: trentacinque gradi sud, settantaquattro centesimi; ottanta gradi ovest, quarantun centesimi. Coordinate equatoriali, meridiano Oceanico. Ritorno previsto tra tre ore kelith... due misure e tre quarti secondo il tempo di Luna di Fuoco. Hai bisogno di altro?”

Il Marjaban mostrò il più profondo stupore. Lanciò un'occhiata alla mappa.

“Sembra che tu sappia assai bene dove andare, kelith! Mi stai rubando il lavoro.”

“Mandami giù, allora. In fretta.”

Senza discutere oltre, il Marjaban gli diede la Polvere e lo accompagnò al centro del Cerchio.

 

 




 *

 




  

Ran si risvegliò nel suo giaciglio. Un piacevole odore di pulito si levava dal lenzuolo che lo copriva. Era svestito, lindo e profumato, e non c'era traccia del vino in cui si era quasi affogato prima di addormentarsi.

Deve essere un sogno, si disse, richiudendo gli occhi.

Ma quando li riaprì tutto era come l'aveva visto.

Si alzò di scatto a sedere, si guardò intorno; con un gesto automatico guardò anche sotto il lenzuolo, e tirò un sospiro di sollievo: la Sacra Membrana c'era ancora...

Di nuovo guardò la stanza. Era in ordine, e abbastanza pulita, anche se la grossa macchia di vino sulla parete era rimasta, ricordo della sera prima. Un mal di testa bestiale gli rammentò ogni particolare di quel che era avvenuto.

"Per Kamoh e Lilia!" esclamò, portandosi le mani alle tempie. “Chi mi ha portato qui?!"

"Io," disse una voce ben conosciuta, dietro di lui. 

Ran si voltò, sgranò gli occhi.

"Deyan-shir!..."

"Deyan e basta," corresse lui, con un sorriso triste.

"Dei del profondo," mormorò Ran, seguendolo con lo sguardo mentre il kelith si accomodava su uno sgabello, accanto al tavolo sgombro. "Ma sei proprio tu? Credevo che non avrei mai più risentito la tua voce!"

"Hai fatto di tutto per sbarazzarti di me, Ran. Perdonami se sono rimasto qui."

Lui sorrise ampiamente, rimirandolo.

"Ti sei lavato, vestito e rasato... sembri quasi quello di prima, a parte i capelli. Perché li hai tagliati?"

"Perché non sono più un principe."

Ran scrollò le spalle. "Che importa? Sei comunque tornato alla vita!" Il suo sorriso fu attraversato da una improvvisa smorfia di dolore, si portò nuovamente le mani alle tempie. "Per gli dei, che sbronza colossale mi son preso!..."

Deyan gli offrì una tazza di infuso medicinale. Ran l'accettò con gratitudine, e bevve. Quindi guardò i suoi occhi limpidi, stupito da quella cortesia; e alla fine gli chiese, a voce bassa: "Che ti è successo? Sei rinsavito dalla tua pazzia... ma sento che non sei più quello di prima."

Deyan sospirò, la sua voce suonò calma e malinconica.

"E te ne sorprendi, dopo quel che mi è stato fatto? Mi credevi pazzo, ma non lo ero. Semplicemente mi ero chiuso in me stesso, per non dover affrontare la realtà, la mia tremenda umiliazione. E sarei morto così, se le tue parole irose non mi avessero percosso come altrettanti schiaffi, costringendomi a guardare in faccia la verità..." Chinò lo sguardo. "Mi hai fatto rivivere appieno tutta la mia degradazione. E l'hai fatto con la giusta dose di spietata crudeltà, perché in quel momento io non ero che un odiato principe kelith, e tu un sayanni pieno di voglia di vendetta... nemmeno con un coltello avresti potuto procurarmi così tanto dolore."

Ran era costernato.

"Io non volevo... ferirti così."

"Cosa volevi fare allora?" chiese Deyan con veemenza, rialzando lo sguardo. "Te lo dico io! Volevi punirmi, scuotermi; volevi vedermi almeno piangere disperato. E ci sei quasi riuscito: quando mi hai attaccato la catena al collo e mi hai condotto al mercato, in mezzo a quella marmaglia oscena, la mia disperazione ha raggiunto il suo colmo. Credevo che mi avresti venduto... avevi ragione, me lo sarei meritato. Poi, quando hai tenuto la scure sul mio collo, ho creduto che mi avresti ucciso..."

Tacque per un lungo istante. Poi riprese, a voce bassa: "Invece mi hai liberato. Non me l'aspettavo, e men che meno dopo quel che mi avevi detto, il modo brutale in cui mi avevi trattato. Allora ho capito che le tue intenzioni erano buone, che a modo tuo mi volevi bene. E che io, troppo pieno di me stesso, non me n'ero accorto..." Sospirò. "E allora ho finalmente compreso la tua folle, totale generosità, e quel che ti sarebbe costata. Forse, solo in quel momento ho capito di non essere più Shana-iban-Unari Deyan-shir, ma soltanto... uno schiavo senza patria."

Ran si strusciò gli occhi con un gesto furtivo.

"Tu... tu non sei più uno schiavo. Sei libero. Se trovi qualcosa da fare per raggranellare dei soldi, puoi pagarti il viaggio di ritorno. Ti aiuterei io, ma non ho più credito... non posso nemmeno pagarmi il pane di domani."

Deyan scosse la testa.

"Non sono più uno schiavo su Luna di Fuoco, ma il marchio che ho in faccia mi nega la libertà in ogni principato kelith, dove sarò per sempre considerato solo una merce; e nessun albino può anche solo pensare di trovar rifugio in Sayanna, dove la mia razza è esecrata. Quindi sono il tuo liberto, Ran, e questa è la mia nuova casa." Un sorriso rischiarò i suoi lineamenti. "In quanto a lasciarti nelle condizioni in cui sei, questo sarebbe un insulto al mio onore. Mi hai liberato dalla schiavitù e il minimo che posso fare è ricambiare la tua generosità."

Prese dalla cassapanca una tavoletta e gliela consegnò.

"Che cos'è?" chiese Ran, cercando di decifrare tutte le cifre che c'erano scritte.

"La ricevuta di un versamento che ho fatto sul tuo fondo alla Grande Casa, e l'attuale situazione della Squadra di Ran presso i Marjaban."

Ran computò il saldo battendo più volte le palpebre. "Hanno sbagliato tutto, questo è il mio passivo."

"No, Ran. Questo è il tuo attivo. Tutti i tuoi debiti sono estinti. Mentre dormivi, sono andato a Shana, in quello che è stato il mio palazzo, e ho rubato mezzo kontar di Astri kelith... la valuta nobile per le grandi transazioni. Mastro Kurmaji ha pesato il nostro bottino sotto i miei occhi, impiegando tutto il resto della notte. Intanto ha mandato un paio dei suoi servi qui a sistemare te e la casa." Un'alzata canzonatoria di bianche sopracciglia. "Un predone con il tuo conto non deve giacere a faccia in giù in una pozza di vino!"

Ran non poteva credere alle sue orecchie.

"Mezzo kontar di Astri!... Per Kamoh e Lilia, ma dove diavolo hai imparato a fare il ladro?"

"Da nessuna parte, io sono... ero un principe dell'antica stirpe Mahajanì. Sono stato educato fin da bambino a progettare un’azione di guerra, ad usare il corpo come un'arma, ad ascoltare, osservare, ragionare, avere pazienza, e non avere mai troppa paura."

"A fare il ladro, insomma!"

Entrambi risero, poi  Ran si interruppe di colpo. "Aspetta! Hai detto nostro bottino?

"Sì."

"Ma non è giusto. Io che c'entro?"

"Tu sei il mio ex padrone. Anche se mi hai dichiarato libero, faccio comunque parte della tua casa."

Ran si alzò in piedi ed esclamò con un sorriso radioso: "Tu fai certamente parte della mia casa, sì: ma come amico e collega, non come liberto o servo! Andrò a cambiare subito intestazione alla mia squadra. Non sarà più la squadra di Ran, ma quella di Ran e Deyan-shir!"

"Non sono più shir," mormorò Deyan, chinando lo sguardo.

"Tu sei shir," insistette Ran, con enfasi. "Nessun marchio può distruggere la nobiltà del tuo cuore. Tu sei Deyan-shir, principe dei predoni, e con questo nome sarai conosciuto su tutta Luna di Fuoco!" 

  
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