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Autore: Miyuki chan    30/12/2013    4 recensioni
«La leggenda narra che la Luna si innamorò di un pescatore.
E si dice che lo amasse a tal punto da volergli offrire la Vita Eterna, cosicché il loro amore potesse essere per sempre.
Ma, si sa, la Luna rappresenta il principio femminile, mutevole e capricciosa: volle mettere alla prova il pescatore, volle assicurarsi che fosse degno del suo amore.
Tre sarebbero state le prove per lui da affrontare…
Ma è solo una leggenda, una storia per bambini. »
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Portuguese D. Ace, Smoker
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'The Fire and the Tiger'
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Just give me something to get rid of him

Mikami sciolse l’abbraccio e si scostò da me. Teneva il viso chino e fissava con ostinazione le assi del ponte, con un espressione seria e solenne che mi mise addosso uno spiacevole presentimento.
 
Ricordavo che la prima volta che ero riuscito a strapparle qualche parola su Smoker, lei mi aveva detto di vedere il marine allo stesso modo in cui io vedevo Barbabianca.
 
Tuttavia, non mi era mai riuscito bene di capire cosa ci fosse esattamente tra di loro, anche perché le poche volte in cui li avevo visti assieme – due in tutto, quando Smoker mi aveva sconfitto e quando avevo visto lui e Mikami parlare in quella locanda nell’isola coperta di neve – mi era parso chiaro che lui la mettesse parecchio in soggezione, addirittura che quasi le facesse paura: niente che mi ricordasse ciò che provavo io quando ero assieme al Babbo.
 
E poi, mentre io avrei potuto parlare di Barbabianca continuamente e con chiunque, lei non accennava mai a Smoker, nemmeno per sbaglio.
 
Non riuscivo proprio a capire cosa ci potesse essere tra di loro capace di legarli così profondamente.
 
Mikami si lasciò sfuggire un sospiro rumoroso, quasi sofferente, e la sua espressione si fece ancora più scura. «Non capisco perché per me sia così difficile parlarne…» disse con un filo di voce, più a se stessa che a me.
 
Suppongo che da parte mia sarebbe stato gentile rassicurarla sul fatto che, se non se la sentiva, non era obbligata a parlarne, ma la verità è che ormai sentivo davvero il bisogno di sapere cosa le impedisse di voltare definitivamente e una volta per tutte le spalle a Smoker.
 
«Lui…» esordì, ma si interruppe nuovamente. «Oh, non so nemmeno da che parte iniziare» guaì con un sospiro tremulo, sfregando nervosamente i piedi sul ponte.
 
Attesi pazientemente.
 
«Quando ero piccola… cioè, piccola…. Avevo una decina di anni…» si azzittì ancora, e si voltò verso di me investendomi con uno sguardo languido e supplicante.
 
Deglutii, a disagio, chiedendomi se non fosse, dopotutto, il caso di dirle davvero che non l’avrei costretta a parlarne se non se la sentiva. «Se non vuoi…» iniziai a dire, costringendomi a reprimere la curiosità «non sei obbligata a raccontarmelo.»
 
Mi osservò in silenzio per un attimo, come soppesando le mie parole. Era evidente che la possibilità di fuga che le offrivo dalla situazione scomoda in cui si era cacciata la allettasse.
 
«No, no, te lo devo» disse infine con l’ennesimo sospiro, scuotendo la testa.
 
Fui sollevato di sentire quella risposta, e le rivolsi un lieve sorriso di incoraggiamento.
 
«Mio padre è morto quando ero piccola – cioè, molto piccola, quasi non ho ricordi di lui – e sono cresciuta con mia madre. Lei aveva una locanda, in un piccolo paese, vicino al mare…» Fece una pausa. Si sedette sul ponte, con le gambe rannicchiate contro il corpo e la schiena contro il parapetto.
 
Mi sedetti anche io, la mia spalla contro la sua e le gambe lunghe distese.
 
Inspirò profondamente. «Le cose alla locanda non andavano troppo bene. Non è che i clienti scarseggiassero o altro, il problema era che molti di loro non erano esattamente… come dire… persone rispettabili. Essendo vicini alla costa, molti erano pirati.»
 
Drizzai le orecchie, credendo finalmente di iniziare a capire da dove derivasse almeno parte dell’odio di Mikami verso i pirati ed il suo attaccamento nei confronti della Marina.
 
«Non intendo con questo dire che fossero persone cattive per il semplice fatto di essere i pirati, intendo dire che molti di loro non erano pirati come te, come Marco o come Satch, ma erano uomini rozzi, violenti e senza scrupoli. Quando venivano alla locanda mia madre non aveva mai il coraggio di negare loro una stanza, e quando poi non pagavano il vitto, l’alloggio o entrambi, lei non aveva mai il coraggio di protestare. Non dico che avrebbe dovuto imbracciare un fucile e minacciarli, non fraintendermi, ma dico che avrebbe dovuto fare comunque qualcosa. Denunciare quei pirati alla marina, chiudere la locanda quando vedeva le loro navi attraccare al porto… Qualunque cosa sarebbe andata bene. Ma lei continuava a non fare nulla. Era – è – una di quelle persone che preferiscono lamentarsi anziché fare qualcosa per risolvere i proprio problemi.»
 
Sospirò di nuovo. «Io lavoravo nella locanda, servivo ai tavoli e risistemavo le stanze quando i clienti se ne andavano, e vedere il modo in cui si faceva trattare mia madre mi riempiva di rabbia. Ricordo ancora quella volta in cui ho cercato di convincerla a parlarne ad alcuni marine di passaggio: non saprei dirti se allora fosse più infuriata o spaventata. Le cose andarono avanti così per… beh, per diversi anni.»
 
«Poi una mattina, mentre stavo passeggiando sulla spiaggia, ho trovato una cosa. Il sole era sorto da poco, e guardandomi intorno ho visto che non c’era nessuno. Mi sono chinata e ho afferrato quello strano oggetto. Puoi facilmente immaginare cosa fosse: un frutto del diavolo.»
 
A quel ricordo un live sorriso le increspò le labbra. «In realtà allora non sapevo bene cosa fosse. Aveva un aspetto curioso – bianco con delle bizzarre striature nere. Non avevo mai visto niente di simile, ma stando alla locanda avevo sentito raccontare un infinità di storie sui frutti del diavolo, anche se tutto ciò che sapevo era che potevano avere le forme più comuni come quelle più strane e bizzarre, e che conferivano a chi li mangiava i poteri più disparati. Così, quando ho trovato quel frutto strano, ho deciso senza pensarci due volte di mangiarlo: nella migliore delle ipotesi, si sarebbe rivelato essere realmente un frutto del diavolo. Nella peggiore… beh, sarebbe stato un frutto qualsiasi, magari velenoso, e ci avrei rimesso la pelle. »
 
Il sorriso esagerato e noncurante che mi rivolse pronunciando l’ultima frase mi diede i brividi. Aprii la bocca per ribattere, ma lei mi precedette e riprese subito a raccontare.
 
«Quindi decisi che il gioco valeva la candela, e mangiai il frutto. All’inizio non accadde nulla: mi sentivo in tutto e per tutto uguale a come ero prima, e ne rimasi fortemente delusa. Mi resi conto che qualcosa in me era cambiato quando, quel giorno stesso, si ripetè davanti ai miei occhi la solita, familiare scena: una coppia di pirati che rifiutavano di pagare la stanza nella quale avevano alloggiato, e mia madre che come sempre chinava il capo e rimaneva zitta. Mi arrabbiai, e prima ancora che mi rendessi conto di ciò che stava accadendo, mi ero trasformata in una tigre ed ero saltata alla gola di uno dei due.»
 
Ridacchiò, compiaciuta. «Quei due pirati se la cavarono, non benissimo ma se la cavarono, e non si fecero mai più vedere alla locanda. A me andò un po’ meno bene.»
 
Ringhiò, mentre tornava a rabbuiarsi. «Non riportai ferite profonde, appena qualche graffio, ma mia madre si spaventò a morte. E non perché avrei potuto farmi male: iniziò ad aver paura di me.»
 
Fece una pausa. Il suo sguardo, gelido e furioso allo stesso tempo, era fisso sul ponte.
 
«Non starò a raccontarti la litigata che seguì la mia scaramuccia con quei due pirati, ti dirò solo che si concluse quando mia madre, furibonda, mi fece promettere che non avrei mai più usato il potere del frutto del diavolo. Promisi, certo che promisi: non ce la facevo più a discutere. Ma nello stesso istante in cui glielo promettevo, avevo già deciso che quella sarebbe stata una promessa che avrei infranto. Ero furiosa. Come poteva mia madre essere arrabbiata con me? Con il frutto felis-felis avrei potuto risistemare le cose, costringere gli avventori della locanda a rigare dritto. Ma lei non ne voleva sapere.»
 
Sospirò. «Ad ogni modo, come ho già detto, non mantenni la promessa. Mi ci vollero svariarti mesi prima di riuscire ad imparare a controllare il potere che derivava dal frutto del diavolo, ma alla fine ce la feci.»
 
«Per un po’ di tempo, le cose alla locanda andarono meglio: nessuno, oltre mia madre, sapeva che ero stata io a conciare per le feste i due pirati, ma la lezione che avevo dato loro servì comunque d’esempio agli altri clienti, che per un po’ rigarono dritto. Poi, le cose ripresero gradualmente a peggiorare. Finchè una sera, non resistetti più. C’era un gruppetto di uomini – ladruncoli, più che veri e propri pirati – che aveva preso l’abitudine di recarsi ogni sera nella nostra locanda, bevendo e mangiando fino a notte inoltrata. Quando mia madre presentò loro il conto, questi rifiutarono di pagare, e minacciarono di dare fuoco alla locanda se lei li avesse denunciati alla marina. Chiaramente, mia madre giurò che non avrebbe detto nulla a nessuno ed essi, ridendo, presero la porta e se ne andarono. Io avevo assistito a tutta la scena, e decisi che non potevo più lasciare correre. Mi sentivo forte: loro erano in sei, sette forse, ma io ero certa che, ora che avevo imparato ad usare il mio frutto del diavolo, non avrei avuto problemi a sistemarli. Così, senza farmi vedere da mia madre, sgattaiolai a mia volta fuori dalla locanda e li seguii.»
 
Sul suo viso era nuovamente comparso qualcosa di simile a un sorriso, anche se, più che farla apparire felice, la faceva apparire ancora più abbattuta che se fosse rimasta seria.
 
«Nella mia mente, avevo già progettato tutta la scena: mi sarei presentata davanti a loro come ragazza, in modo che potessero capire chi avevano davanti, e quindi gli avrei dato un ultimatum, intimandogli di tornare da mia madre, scusarsi, e saldare il debito non indifferente che avevano con lei. Immaginai che avrebbero riso di me, e non mi avrebbero dato ascolto. A quel punto, mi sarei trasformata, e come un lampo sarei balzata addosso all’uomo che mi era più vicino, e allo stesso modo avrei poi battuto anche tutti gli altri. Non volevo ucciderli: volevo che andassero in giro per il paese terrorizzati a mostrare le ferite che gli avevo inferto e volevo che dicessero che ero stata io, la figlia della proprietaria della locanda, a conciarli a quel modo. Mi ero convinta che, se avessero imparato a temermi, le cose alla locanda sarebbero rapidamente migliorate, e che mi madre avrebbe finalmente smesso di lamentarsi.»
 
Fece una smorfia. «Sai» disse, senza guardarmi negli occhi «”lamentarsi” non è il verbo adatto, non rende l’idea di quello che intendo dire. Mia madre non faceva altro che piangersi addosso, dire che la sua vita era orribile, che era stanca di come andavano le cose, che voleva lasciare tutto e andarsene in un posto lontano.»
 
Mi lanciò un breve sguardo fugace, e un sorriso triste le si disegnò in volto. «Se ti stai chiedendo come faccio a sapere tutte queste cose, la risposta è semplice: era lei stessa a dirmele. Si suppone che siano gli adulti quelli forti, quelli che sopportano e che ti consolano, ma nel nostro caso è sempre stato il contrario. Ero io che mi imponevo di resistere e di cercare un modo per far funzionare le cose. Lei preferiva piangere e lamentarsi.»
 
Si bloccò, con la bocca aperta, come se fosse indecisa se dire o meno quello che le stava passando per la testa. Dopo alcuni secondi, si decise a parlare. «Anche io ero infelice. Molto infelice, ma non glielo facevo pesare. Sarebbe stata solo peggio se si fosse resa conto di quanto io, in gran parte per causa sua, fossi infelice. Tutto ciò che potevo fare per lei era sorriderle e cercare di consolarla, e non lasciarle capire quanto vivere con lei mi facesse male. Lei, invece, non si faceva problemi a dirmi che le sarebbe piaciuto andarsene e lasciarsi tutti alle spalle. Me compresa.»
 
Il tono in cui, faticosamente, aggiunse quelle ultime due parole, mi raggelò il sangue nelle vene. «Mikami i-
 
«Poi, quando ho mangiato il frutto, mi sono resa conto che potevo fare di più per lei» riprese velocemente, interrompendomi. Sembrava decisa a  non ascoltarmi e ad impedirmi di parlare. Chiusi la bocca e rimasi in silenzio, cedendo al suo volere. «Mi sono resa conto che, se avessi sistemato ciò che rendeva difficile la nostra vita alla locanda, lei non avrebbe potuto che esserne felice, e magari avrebbe smesso di dire tutte quelle cose orribili.»
 
Gli occhi di Mikami, ancora fissi sul pontile, erano distanti e malinconici, colmi di tristezza. Sbattè rapidamente le palpebre, come a voler scacciare quei ricordi lontani, e riprese le fila del racconto.
 
«Quindi, come dicevo, seguii quegli uomini. Andò tutto come avevo previsto: quando gli intimai di tornare da mia madre risero, e quando mi trasformai e piombai addosso al loro capo erano così stupiti e frastornati che non reagirono. Ma da lì in poi le cose peggiorarono rapidamente. Quando lasciai il primo uomo, a terra e sanguinante, per gettarmi sul successivo, loro si erano già ripresi dalla sorpresa, e mi aspettavano con i pugnali sguainati. Io ero totalmente impreparata ad affrontare una battaglia del genere: mi ero illusa che sarebbero bastate la mia forza e velocità di tigre per avere la meglio su quegli uomini. Stupidamente, non avevo pensato che erano malviventi, abituati alle risse, e molto più abili di me in combattimento. Forza e velocità mi furono utili nell’atterrare i primi due uomini, ma poi si scatenò il caos più totale. Tutti gli uomini mi attaccarono contemporaneamente, ed io non capii più nulla. Inizialmente mi preoccupai di schivare i corti ma affilati coltelli che si facevano rapidamente passare da una mano all’altra, ma mi resi ben presto conto che non ne ero in grado: per ogni colpo che riuscivo a schivare, me ne venivano inflitti due. Tentai la fuga: ma mi avevano circondata, e non riuscii a rompere l’accerchiamento. Andai nel panico più totale. Non riuscendo a difendermi e nemmeno a fuggire, mi lanciai a testa bassa all’attacco, senza un briciolo di criterio, azzannando e affondando gli artigli in qualunque cosa mi capitasse sotto tiro. Continuai a lottare perché non volevo arrendermi, ma in realtà mi ero già rassegnata all’idea che non ne sarei uscita viva.»
 
Il suo sguardo era freddo e distante, quasi come se ciò che stava raccontando non la coinvolgesse o riguardasse minimamente.
 
«Comunque, dopo un po’ che andavamo avanti a quel modo, successe… qualcosa, e fummo tutti sbalzati in aria. Io ero esausta e debole, non credo nemmeno che mi presi il disturbo di rialzarmi. Aprii gli occhi quando udii qualcuno avvicinarsi a me: era Smoker. Solo che, vedendolo così chino su di me, con quella sua aria torva e minacciosa e quel suo continuo ringhiare, mi spaventai, e senza pensarci due volte gli rifilai una zampata che gli stracciò la manica della giacca e lo colpii all’avambraccio facendolo sanguinare.»
 
L’ombra di un sorriso comparve sul viso di Mikami. «Imprecò e ringhiò a denti stretti ma non mi colpì a sua volta, forse perché nel frattempo avevo ripreso l’aspetto di una quindicenne, o forse perché non dovevo essere messa molto bene.»
 
Sospirò, senza che quel lieve sorriso sparisse dal suo viso. «I miei ricordi del resto della sera sono parecchio confusi. Passai diversi giorni tra i marine, chiusa in infermeria e bloccata a letto. Smoker venne spesso a farmi visita, ma non parlammo quasi mai. Non mi chiese mai nulla di cosa fosse successo quella sera né mi rimproverò per averlo attaccato e, quando mi fui ripresa a sufficienza dalle ferite, mi lasciò tornare da mia madre… lei era furiosa» disse, mentre il sorriso perdeva la sua sfumatura delicata per assumerne una amareggiata ed aggressiva.
 
«Non sapeva dove fossi stata in quei giorni, ma aveva subito pensato che fossi stata coinvolta nella rissa di cui tutti parlavano. Nessuno sapeva esattamente cosa fosse successo – visto che i membri della banda che erano sopravvissuti erano stati arrestati – ma lei aveva indovinato, e vedermi tornare a casa dopo vari giorni ammaccata e zoppicante, ricucita alla bell’e meglio, le aveva dato la conferma di cui aveva bisogno. Discutemmo ancora, in modo anche più aspro e violento della prima volta.»
 
Socchiuse gli occhi e mi lanciò uno sguardo torvo. «Non chiedermi di raccontarti quella discussione.»
 
Feci subito cenno di non con la testa, e lasciai che proseguisse.
 
«Ti basti sapere, che quella fu l’ultima volta che misi piede in quella maledetta locanda. Me ne andai, subito, senza pensarci due volte né voltarmi indietro, promettendo a me stessa che qualunque cosa sarebbe successa non sarei mai diventata come lei. Tornai da Smoker, e gli dissi che volevo arruolarmi. Mi aspettavo che protestasse, che mi dicesse che ero troppo giovane, troppo debole, che era una decisione troppo affrettata e cose del genere… Invece si limitò a guardami storto e chiedermi se ne ero sicura. Mi basto dire “sì”, e lui accettò di prendermi con sé.»
 
Sospirò. «Il resto è facile da indovinare. Mi ha insegnato a combattere, a perfezionare il controllo che avevo sul frutto del diavolo, la disciplina, l’obbedienza, la giustizia…. Ed io ho sempre obbedito e l’ho sempre seguito ovunque. Lui non sfogava mai le sue ansie su di me, ne mi confidava i suoi problemi supplicandomi di risolverli. Anzi, lui non sembrava aver mai paura di niente, non si lamentava mai ed affrontava tutte le situazioni di petto.»
 
Nonostante tenesse il viso chino, un debole sorriso le ammorbidiva le labbra, fino a poco prima tirate in una linea rigida, e nei suoi occhi vidi brillare l’ammirazione che provava per il marine. Non potei impedirmi di provare una punta di gelosia nei confronti di quell’uomo.
 
«Smoker aveva sempre l’aspetto di chi sa di avere il mondo in pugno, esattamente come mia madre pareva sempre essere sul punto di farsi schiacciare, invece, dal peso del mondo. Erano – sono – uno l’opposto dell’altra, e tutto ciò che volevo era diventare come Smoker ed essere tanto più diversa possibile da mia madre.»
 
Fece una lunga pausa, ed io mi chiesi se avesse terminato il suo racconto o se ci fosse ancora altro di cui voleva parlare.
 
«Ma in realtà, ora tutto questo non è più importante» disse infine con fare sbrigativo, gli occhi cupi e torvi come un cielo temporalesco.
 
Rimasi in silenzio.
 
«Non è più importante perché stanotte gli ho parlato, e ho capito che a lui non importa. E se a lui non importa, non importa nulla nemmeno a me, allora.»
 
La ascoltai con attenzione, ma senza riuscire ad afferrare fino in fondo il senso di quello che stava dicendo.
 
«Non so proprio cosa ci sono andata a fare da Smoker. Non so cosa sperassi di ottenere, perciò non chiedermelo. Sono stata stupida.» riprese, continuando ad evitare il mio sguardo, con voce bassa e fredda. «Però non è stato del tutto inutile, almeno ora so che lui ha smesso di interessarsi a me nel momento esatto in cui io ho smesso di essere il suo cagnolino obbediente. Almeno adesso ho un buon motivo per smettere a mia volta di interessarmi a lui. Sarà molto più facile essere un pirata da adesso in avanti.»
 
Avevo sempre creduto che, quando finalmente le avessi sentito dire che aveva definitivamente chiuso con Smoker e la Marina, ne sarei stato sollevato, che sarei stato felice di aver finalmente la certezza che non avrebbe deciso di tornare ad essere un marine da un giorno all'altro, ma dopo averle sentito raccontare quelle cose, non riuscii a provare nemmeno una punta di sollievo.
 
Forse, dipendeva anche dal fatto che sapevo che non le sarebbe bastato dire “Basta, ora non voglio più interessarmi a lui” per smettere di voler bene a quell’uomo, e che quindi le sue non erano altro che parole. Anche se lei non sembrava rendersene conto.
 
«In più, andandomene, ho avuto la brillante idea di attaccare il suo nuovo cagnolino, la mia sostituta. Me ne sono andata prima che lui se ne accorgesse, ma ho come la netta impressione che scoprire cosa le ho fatto non gli abbia fatto particolarmente piacere» continuò Mikami, con pungente sarcasmo, lasciandosi sfuggire una risatina nervosa.
 
A quel punto alzò lo sguardo su di me, tornando seria. I suoi occhi erano duri e freddi. «In realtà non ci avrei pensato due volte ad ucciderla, se non fossero arrivati gli altri marine con i fucili spianati. Sarebbe senza alcun dubbio morta nel modo peggiore che mi fosse venuto in mente.»
 
Ebbi la netta impressione, confermata dal suo sguardo, quasi di sfida, che stesse cercando di provocarmi, anche se non ne capivo il motivo. Sembrava aspettarsi una reazione ben precisa da parte mia, quasi come se non attendesse altro che io la rimproverassi per il comportamento tenuto, mi scandalizzassi e le facessi la ramanzina, o forse che mi spaventassi per quella dichiarazione e me ne andassi. Non avevo alcuna intenzione di reagire in uno qualsiasi di quei tre modi, perciò me ne rimasi muto ed impassibile, senza lasciare trapelare alcuna emozione.
 
In realtà non dovetti sforzami molto, un po’ perché dubitavo avrebbe realmente avuto il coraggio – o forse la cattiveria – di uccidere il nuovo sottoposto di Smoker e un po’ perché, se anche ne fosse stata veramente capace, non avrei trovato comunque la cosa così eclatante. Certo, un comportamento simile sarebbe stato insolito per Mikami, ma dopotutto, cosa c’era di così incredibile in un pirata che attaccava e uccideva un marine? Assolutamente nulla.
 
Tuttavia la mia scelta di non mostrarmi impressionato sembrò rivelarsi la decisione sbagliata.
 
Lo sguardo di Mikami si fece ancora più scuro, e da come contrasse la mandibola non mi fu difficile immaginare che stesse serrando rabbiosamente i denti.
 
Sostenni il suo sguardo finchè non fu lei ad abbassare gli occhi, con un basso ringhio frustrato.
 
Chinai anche io il capo, ripensando a tutto ciò che mi aveva raccontato. Mi sentivo dispiaciuto, terribilmente dispiaciuto, sia per ciò che era successo tra Mikami e sua madre, sia per ciò che era accaduto con Smoker. Avrei voluto dire qualcosa per rassicurarla, per consolarla, ma mi resi subito conto che qualunque cosa avessi detto sarebbe apparsa banale e fuori luogo. Che senso avrebbe avuto dirle “mi dispiace”? Sarebbe solo servito a farla infuriare.
 
Dopo alcuni minuti, in cui entrambi rimanemmi in perfetto silenzio, allungai il braccio e le circondai le spalle, tirandomela vicino con delicatezza. Non si oppose ma chinò il volto contro il mio petto, senza guardarmi negli occhi.
 
«Comunque sono felice che tu me lo abbia raccontato» sussurrai.
 
Passarono altri istanti di silenzio, poi Mikami lasciò andare un lungo sospirò e si strinse contro di me, rilassandosi. «Anche io. Non l’avevo mai detto a nessuno.»
 
«Capisco che Smoker sia stato quanto di più vicino avevi ad una famiglia per diversi anni» iniziai con voce bassa e calma. E capivo davvero: anche io avevo provato sentimenti simili nei confronti della prima ciurma che avevo avuto, i Pirati di Picche. «ma ora non sei più sola. Ci sono il Babbo, Marco, Satch, Vista, e tutti gli altri. E ci sono io.»
 
Alzò lentamente il viso verso di me. Aveva gli occhi lucidi. «Sì, lo so, ma Smoker… è stato lui che mi ha tirata fuori da quella situazione.»
 
Non potevo dire di non capirla, perché – ora finalmente riuscivo davvero a rendermene conto – ciò che provava nei confronti di Smoker era realmente simile, se non uguale, a ciò che provavo io per Barbabianca.
Eppure la sua riluttanza, nonostante le parole di poco prima, a chiudere per sempre con il marine ed accettare il fatto che ora fossimo noi la sua unica famiglia, mi rendeva ugualmente inquieto.
 
«Lo so, e non posso fare nulla per cambiarlo. Però posso dirti che, anche se quella volta io non c’ero, ci sono adesso, e che non me ne andrò.» Inspirai profondamente, sforzandomi di imprimermi sulle labbra un sorriso rassicurante. «Se vuoi tornare da Smoker, non sarò io a fermarti. Ma ricordati che qui hai una famiglia, e se decidi di rimanere io e gli altri ci assicureremo che non ti capiti più nulla di simile.»
 
«Smettila, ti ho già detto che non voglio andare da nessuna parte» rispose in un bisbiglio, con un sorriso un po’ tremulo. «Mi dispiace solo per Smoker. E per come mi sono comportata con lui questa notte» aggiunse, con un sospiro mesto.
 
Mi rilassai, lasciando che uno spontaneo sorriso rilassato facesse capolino sul mio viso. «Si, l’avevi già detto, ma ora mi sei sembrata più convinta» risposi ridacchiando.
 
Sciolsi l’abbraccio e mi rimisi in piedi, stiracchiandomi con un sonoro sbadiglio. Anche Mikami si alzò, con una smorfia di dolore quando fece leva sulla spalla ferita.
 
«Quella te la sei fatta con il sottoposto di Smoker?» domandai, indicando la morbida fasciatura che le avvolgeva la spalla.
 
«Già. E’ una donna armata di katana, con un discutibilissimo senso dello stile, cieca come una talpa» sbuffò Mikami, assumendo un lieve broncio.
 
Risi, trattenendomi dal farle notare che, per quanto cieca e poco alla moda, fosse stata comunque abbastanza in gamba da ferirla. E da non farsi uccidere da lei.
 
Sbadigliai nuovamente. «Non ho idea di che ore siano, ma sto morendo di sonno» biascicai, sfregandomi gli occhi. «Torniamo a letto.»
 
Mikami annuì, sbadigliando a sua volta. «A proposito, te lo vuoi riprendere sì o no?» chiese, tornando a porgermi il mio vecchio e fedele cappello arancione.
 
Lo agguantai rapidamente senza farmelo ripetere due volte. «Certo che lo rivoglio. Te l’ha ridato il Vecchio? Carino, da parte sua. Ah, caro vecchio capello, come mi sei mancato…» sussurrai accarezzando amorevolmente la falda ammaccata e un po’ sbiadita, dirigendomi verso il mio altrettanto amato letto con Mikami, al mio fianco, che ridacchiava divertita.

Spazio autrice:
Scusate, per l'ennesima volta, il ritardo. Tra esami e parenti sono stata un po' indaffarata, e a doverla dire tutta questo capitolo mi metteva una certa ansia, non so perchè ma ogni volta che mi mettevo davanti al pc e arrivavo al punto in cui Miki avrebbe dovuto iniziare a raccontare mi veniva una sorta di blocco e non riuscivo a spiccicare parola.... ho fatto un po' come fa lei, che apre la bocca per parlare ma poi non dice niente e prende tempo, compatitemi.
Ma alla fine ce l'ho fatta, è stato sofferto ma ci sono arrivata in fondo.
Allora, impressioni generali? Vi aspettavate qualcosa di simile o di totalmetne diverso?
Ace in questo capitolo è stranamente silenzioso, ma se si fosse messo ad interrompere Mikami ogni 3x2 come suo solito non saremmo andati a finire da nessuna parte, quindi per stavolta si è dovuto un po' sacrificare...
Col prossimo capitolo si riprende il mare! Ed io dovrò riorganizzarmi un po' le idee, perchè ci stiamo avvicinando alla parte più importante della storia e devo stare attenta a non fare stupidi errori - tipo perdere pezzi di trama di qua e di là XD Lasciatemi perdere, davvero, sono un po' stanca XD
A presto allora! :*
P.S.:C'è una questione che mi tormenta da diversi giorni: preferite le storie/i libri scritti in prima o terza persona? Chiaramente non ho intenzione di cambiare stile così, a metà storia, è solo una curiosità, anche per sapermi regolare con le prossime cose che scriverò - se mai lo farò XD
  
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