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Autore: samubura    18/02/2014    6 recensioni
STORIA INTERATTIVA!
Questa storia nasce da una collaborazione tra me (samubura) Elly24 e Bellador, scriveremo un capitolo a testa e racconteremo la storia dei tributi che voi creerete!
(Regole e ulteriori spiegazioni nel prologo!)
I tributi sono al completo, ma restate con noi! Anche chi non è mentore avrà il suo spazio nella storia :)
Genere: Azione, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Tributi edizioni passate
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Distretto 9

Un venticello leggero faceva ondeggiare le lunghe spighe di frumento del Distretto Nove. Il fruscio era in contrasto con la tempesta impellente che era scoppiata nel cuore di tutti gli abitanti.
Tutti pregavano in silenzio, tutti speravano sottovoce di non essere estratti; “Fa che non sia io” imploravano con gli occhi, ma nemmeno loro sapevano a chi stavano chiedendo aiuto.
Nessuno ormai credeva più che un dio misericordioso sarebbe sceso in terra a salvarli come narravano quei vecchi libri che ogni tanto venivano fatti leggere a scuola ma che poi finivano in un angolo remoto della mente, sorpassati dalla paura e dal terrore.
Nessuno riusciva più a sperare in qualcosa, qualsiasi cosa, vedendo quei poveri ragazzini, uccisi dalla furia umana, giudicati colpevoli, ingiustamente, di una colpa che non avevano commesso.
Jane Smith camminava sui suoi alti tacchi vertiginosi, ondeggiando davanti alla telecamera, assai lontana da questa ideologia di pensiero.
Odiava quel dannato vento che le scompigliava la parrucca e le sgualciva il vestito.
Era il terzo anno che le veniva affidato il Distretto Nove: Frumento.
“Ma dimmi te a chi importa del frumento?!” pensava scocciata, attendendo il segnale per cominciare la mietitura.
Osservò quei ragazzi spaventati che stavano ai suoi piedi, terrorizzati, arrabbiati. Una miriade di emozioni risplendevano nei loro occhi, ma non quelle che lei si aspettava.
Non c’era gioia, felicità, esaltazione, desiderio di gloria.
“Che ingrati!” pensò poco prima di cominciare.
Non appena il video si fermò lanciò un gridolino stridulo di felicità, battendo con energia le mani.
“Prima le signore!” esclamò esultante, dirigendosi verso la prima boccia colma di bigliettini, quasi correndo, impazzendo dalla voglia di sapere chi sarebbe stata la fortunata ragazza che avrebbe rappresentato questo Distretto.
Senza esitare estrasse un dei foglietti, rigirandoselo tra le mani e correndo subito al microfono per annunciare il nome.
“Mai Whitney!” quasi urlò dalla felicità, alzando di scatto il viso alla ricerca della ragazza con gli occhi.
Mai si fece largo tra la folla, imponendo a se stessa di tenere lo sguardo fisso, di non piangere, di non tremare. Non si sarebbe fatta vedere debole.
Camminò al fianco dei pacificatori sino al palco.
Jane si inorridì quando vide i suoi capelli, corti e con delle orribili spighe di grano intrecciate. Era magra, tanto da poter notare le ossa sotto la sottile maglia smessa e scolorita che indossava.
Si costrinse a togliere lo sguardo da quella visione e a correre verso il microfono per annunciare l’estrazione del tributo maschio.
“Jared Lorraine.” Lesse ad alta voce.
Un sorriso sarcastico si aprì sul suo volto mentre percorreva i pochi metri che lo dividevano dalla sua postazione al palco.
“Perché sorridi, caro?” gli chiese la capitolina una volta che fu al suo fianco.
“Il mio nome c’era davvero molte volte” risponde sicuro, osservando la telecamera come se si stesse rivolgendo proprio agli abitanti di Capitol City “Mi stupisce che non mi abbiano mai estratto prima.”
Jane applaudì, scambiando la rassegnazione nelle sue parole per felicità ed orgoglio.
Per la prima volta era entusiasta dei suoi tributi, anche se di uno in particolare. Jared gli stava già simpatico; alto, bello e muscoloso. I suoi capelli erano corti e ben curati al contrario della ragazzina che aveva estratto prima.
“Bene ragazzi!” esclamò facendo un passo indietro. “Stringetevi la mano.”
Con fare un po’ incerto si avvicinarono l’uno all’altro, osservandosi a fondo, nel tentativo di trovare un punto debole nell’avversario.
Si scambiarono un sorriso di circostanza, debole e incredibilmente falso.
Mai lo osservò bene: aveva sentito parlare di lui, perfetto e sempre pronto. Dannazione, era perfino bello!
Scacciò subito quel pensiero.
Lei doveva vincere, doveva tornare.





Distretto 10

Catlin osservava i suoi amici dall’alto del palco mentre attendeva di sapere quali sarebbero stati i due ragazzi che avrebbe dovuto tentare inutilmente di salvare.
Erano già passati tre anni. Tre lunghi anni in cui aveva visto morire davanti ai propri occhi sei bambini innocenti, incapace di aiutarli.
Li ha sentiti urlare, li ha sentiti implorare, chiamare il suo nome nel silenzio nella foresta mentre qualcuno portava via la loro vita per salvare la propria. Si era svegliata nel buio della sua camera, sollevata che fosse solo un incubo ma la paura tornava quando realizzava che la realtà era perfino peggio.
Si voltò irritata verso la capitolina che, nel suo orribile completo rosa eccentrico, così in contrasto con l’umore nero di tutti i presenti, stava li in piedi, sopra al palco, impaziente di iniziare.
“Prima le signore” disse la donna, immergendo la mano nella grande bolla trasparente che conteneva la condanna a morte per una ragazza. “Blossomblue Alucar!”
Per un attimo, alle proprie orecchie, Catlin sentì il proprio nome, esattamente come tre anni prima dalle stesse labbra della donna che ora si trovava davanti a lei.
Sospirò di sollievo, per lo meno non la conosceva.
Una ragazzina di appena 14 anni, bassa e minuta si avvicinò al palco, spostandosi da davanti agli occhi i biondi capelli, mossi dal vento.
Sebbene fosse spaventata a morte non mostrò un minimo segno di esitazione nel percorrere il breve tratto fino al microfono.
“Ecco a voi, BlossomBlue!” esclamò la capitolina con un entusiasmo che non venne ricambiato dal pubblico.
“Blue” la corresse, con tono un po’ scocciato.
“Come hai detto?”
“Sono Blue.” Spiegò pazientemente, trattenendosi dal risponderle male “Solo Blue.”
“Oh.” Rispose l’accompagnatrice, continuando a non capire “Niente Blossom? Ma qui c’è scritto…”
“Fa nulla!” la bloccò Catlin, spazientita “Va avanti!”
La ragazza la ringraziò con lo sguardo e potè notare le lacrime che di sicuro stava cercando di trattenere.
Per Capitol City deve essere un onore partecipare ai giochi, non puoi farti vedere debole o ingrata. Saresti già morta.
Resistette all’impulso di mangiarsi le unghie, ricordando le minacce dei suoi preparatori, mentre osservava la donna spostarsi verso il lato destro del palco.
Il terrore la invase mentre vedeva la sua mano infilarsi nella teca di vetro.
“Non mio fratello, non mio fratello!” ripeteva come un mantra nella sua mente, implorando il cielo mentre quel dannato foglietto si apriva tra le dita affusolate della Capitolina di cui non si era mai sprecata di ricordare il nome.
“Jamie Harvey.”
Il suo cuore smise di batterle nel petto.
Spalancò gli occhi mentre un ragazzo alto dai capelli del suo stesso colore e dagli occhi verdi come i suoi saliva sul palco, scortato dai pacificatori.
Si avvicinò al fratello, nonostante le fosse proibito, e lo abbracciò forte.
Dimenticò per un attimo che era lui quello che sarebbe andato a morire e lasciò che le lacrime le rigassero il viso, nascosto nell’incavo del suo collo.
Sarebbe caduta se le braccia forti del fratello non l’avessero tenuta su.
“E’ tutta colpa mia” pensò mentre in sottofondo l’accompagnatrice esclamò qualcosa di indistinto nel suo solito tono esaltato, ma nessuno dei due ci fece caso.
“Catlin” riuscì a sussurrarle all’orecchio Jamie, trattenendo le lacrime “Non fare preferenze.”





Distretto 11

La bambina tremava dietro le alte transenne che circondavano la piazza. Le manine, piccole e ossute, erano strette attorno agli stili di ferro mentre chiamava, tra le lacrime, la sua mamma.
“Non avere paura.” Le rispose lei, rassicurandola. “Non c’è il tuo nome lì dentro.” Sussurrò all’orecchio della figlia “Non ancora.” Sussurrò al vento, temendo già il giorno in cui avrebbe potuto perderla.
“Maka Lee.” Esclamò con la sua vocina stridula, amplificata dal microfono, Melinda Browne. “Prego, vieni qui!”
Il suo nome aleggiò nel silenzio e nelle menti di tutte le ragazze che realizzavano di essere salve, di non essere in pericolo.
Sul volto della ragazza spuntò un sorriso strafottente mentre le altre compagne si allontanavano da lei, creando una distanza a cui Maka era già abituata, ci conviveva ogni giorno, ovunque.
Salì sul palco, lanciando occhiate di falso disprezzo a tutti coloro che muovevano un passo per allontanarsi da lei, la ragazza che stava andando a morire.
Quanto li invidiava, segretamente, nei suoi pensieri desiderava essere al loro posto, sperava che ci fosse qualcun altro ad essere condannato al patibolo.
“Non mi pare che tu abbia molti amici.” Commentò la capitolina con fare ironico, convinta che oramai a Capitol City tutti l’avrebbero trovato divertente.
“E tu?” le rispose a tono una volta che le fu vicina, in modo che tutti la sentissero anche negli angoli più remoti della piazza, grazie al microfono. “Qui tutti ti odiano.”
Melinda borbottò irritata a causa dell’irriverenza che la ragazza aveva mostrato di possedere e si avviò indignata verso la boccia contenente i nomi dei ragazzi.
Evitò il rituale che le imponeva di esitare nel prendere i biglietto e ne afferrò uno a caso, il primo che le capitò sotto mano.
“Wareer Wale” lesse ad alta voce alla piazza, sperando che almeno lui avesse la capacità intellettiva per capire quando non è il momento di parlare.
Salì sul palco un ragazzo, alto ma scarno, il viso aguzzo magro e scavato dalla fame, gli occhi verdi, come le foglie degli alberi di agrumi che ogni giorno coltivano nei loro campi, i capelli neri come la pece, il viso e il corpo segnati dalle cicatrici.
“Spero che tu non abbia nulla da dire.” Mormorò retorica la capitolina, già pronta a continuare il suo discorso.
“In realtà” la fermò “Voglio promettere a voi tutti che farò di tutto per tornare! Vincerò questi Hunger Games per voi e per portare onore e gloria al nostro distretto!”
Un debole applauso partì dalla folla.
Per la prima volta la gente aveva qualcuno per il quale fare il tifo, qualcuno in cui sperare, anche se comportava la morte della fanciulla dimenticata da tutti.
Maka lo guardò male, mentre la paura si espandeva in lei.
Aveva capito il suo gioco, aveva capito che si era ingraziato tutti solo per avere la certezza che tra i due avrebbero designato lui come quello da salvare, da cercare di riportare a casa sano e salvo.
I giochi non erano ancora cominciati e lei era già morta.





Distretto 12

“Salve! Sono Jen Kraigs e sto andando a morire.” Pensò la ragazza quando sentì il suo nome, urlato nel microfono.
Mosse qualche passo verso il palco quando un’altra voce sovrastò il silenzio che popolava la piazza.
“Mi offro volontaria come tributo!” disse a gran voce una ragazza, alzando il braccio per farsi notare dai pacificatori che subito si avvicinarono a lei.
Quella era la frase più bella che Jen potesse udire in quel preciso istante, o meglio avrebbe potuto esserlo, se quella frase non l’avesse pronunciata la sua migliore amica.
“No, Sheva, no!” urlò mettendosi tra lei e il palco, sperando inutilmente di impedirle di passare, ignorando gli sguardi di pietà che la gente lanciava ad entrambe.
“Si faccia da parte.” Le intimò un pacificatore, prendendole un braccio e scaraventandola di lato.
Sheva salì sul palco e osservò i volti impassibili delle ragazze che non erano state estratte. Nessuna di loro fingeva di essere triste per lei, nessuna lo era, a nessuno importava della sua vita. Non aveva amici a parte Jen, che ora piangeva a lato del palco, rannicchiata a terra, in posizione fetale.
“Come ti chiami, cara?” chiese l’accompagnatrice alla ragazza dagli occhi color del ghiaccio che cercavano di trattenere le lacrime.
“Sheva Haymor” mormorò, la voce spezzata e rotta dal dolore.
I lunghi e lisci capelli neri erano raccolti in un’alta coda di cavallo ma questo non impediva al vento di portarli di qua e di la, seguendo un ritmo tutto suo.
“Mi sembri in forma, ragazza” commentò la capitolina con un sorriso euforico dipinto sul volto. “Ce ne farai vedere delle belle nei giochi!”
Sheva non sapeva se la donna l’avesse detto perché lo pensava o perché glielo avevano scritto su un cartoncino colorato e lei si era limitata ad impararlo a memoria, ma per quell’attimo gliene fu grata.
Si obbligò a fissare un punto in lontananza nel cielo, non potendo sopportare la vista della sua migliore amica che la osservava dal basso piangendo, conscia che quella sarebbe stata la loro ultima avventura insieme.
“William Lovy!” il suo nome arrivò chiaro e forte alle orecchie di tutti i presenti mentre in tutti si faceva spazio nel cuore la felicità per essere ancora liberi, tutti tranne uno.
William fece per uscire dal gruppo nel quale si trovava ed avvicinarsi al palco ma il ragazzo al suo fianco sembrava incapace di muovere un muscolo, figuriamoci di lasciarlo passare.
“Hey” lo rimbeccò brusco, spostandolo indietro con un braccio “Sono io che vado nell’arena, non tu. Rilassati.”
Si passò una mano tra i ribelli capelli corvini che il vento non faceva che spettinare.
Una volta sul palco i due ragazzi si squadrarono con lo sguardo, leggendo negli occhi dell’altro le stesse paure che sentivano dentro il proprio cuore.
“Addio Distretto 12” fu l’ultimo pensiero che rivolsero alla loro terra “La prossima volta sarà in una bara.”


Ehilà, questo è il capitolo di Bellador con cui si concludono le mietiture!
Mandateci, se non l'avete ancora fatto, informazioni sui saluti e i portafortuna che volete far ricevere ai vostri tributi!
Ho sentito ancora pochi di voi mentori, ma mi sembra che l'idea di un gruppo facebook sia abbastanza sostenuta, quindi invito tutti a farmi sapere la loro posizione in modo da poter avviare anche quel progetto :)

 
   
 
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