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Autore: JulesBerry    21/02/2017    1 recensioni
Seguito di "I have finally realised I need your love".
[Prevista revisione - e anche piuttosto urgente, Santo Merlino - dei capitoli già pubblicati.]
- Dal capitolo 26 -
«Ci sono sempre stati troppi cocci di me, sul pavimento. Potresti farti del male tentando di raccoglierli e rimetterli insieme» sfilò la mano dalla presa di Fred, percependola più allentata, e si alzò sotto il suo sguardo attonito. «Non sentirti in colpa se non ce la fai più. Non sentirti in colpa se decidi di aprire quella porta. Fosse possibile, sarei la prima a varcarne la soglia per allontanarmi un po’ da me.»
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Fred Weasley, George Weasley, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Che l'amore è tutto, è tutto ciò che sappiamo dell'amore'
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Capitolo 29




Forse ci piace il dolore, forse gli siamo legati,
perché senza di esso non capiremmo ciò che è reale


 
War is all around, I’m growing tired of fighting
I’ve been drained and I can’t hide it
But I have strength for you
You’re all that’s real anymore
I am coming home now, I need your comfort

 
Margaret credeva di non avere più lacrime. Aveva provato a trattenerle, varcata la soglia di casa di ritorno da quella mortifera battaglia, ma vani si erano rivelati i suoi sforzi quando, posata la testa sul cuscino, quelle avevano ripreso a sgorgare e a ferirle il viso come fossero lame affilate e impregnate di veleno.
Fred le si era disteso affianco e l’aveva stretta a sé, in un silenzio rispettoso del suo dolore, preoccupandosi di riscaldarla perché totalmente congelata. L’aveva sentita tremare tra gli innumerevoli, laceranti singhiozzi, e in quei momenti si era sentito morire dentro un po’ anche lui.

Non aveva mai creduto che Margaret potesse crollare in questo modo, semplicemente perché il crollo non era contemplato nella sua natura. L’aveva vista cadere più volte, durante quegli ultimi mesi, e anche prendersi il suo tempo prima di riuscire a rialzarsi, ma mai era stato previsto lo schianto; adesso, però, che l’imprevedibile era venuto a prendersi ciò che credeva gli spettasse, come quel sapore di sofferenza e fallimento, Fred si chiedeva se avrebbe avuto la forza di aiutarla. Ci avrebbe provato, non disposto a lasciarle affrontare i suoi mostri da sola, ma sapeva che non sarebbe stato semplice e che qualsiasi passo macinato lungo quel sentiero non asfaltato, insidioso, sarebbe potuto risultare falso.

A un certo punto si era addormentata, esausta, ma il suo non era stato un sonno tranquillo. Il ragazzo aveva provato a stringerla più forte e a lottare contro quei tremori che la scuotevano, ma la paura di farle inavvertitamente male o che quel tentativo di proteggerla si mostrasse controproducente l’aveva frenato dal fare di più.
Era come trovarsi di fronte a una persona nuova, sconosciuta, della quale non si conoscono né si possono prevedere le reazioni, ma troppo fragile da poter lasciare sola.

Ora, che era di nuovo sveglia ma a corto di lacrime, Fred percepiva l’urgenza di farle avvertire la sua vicinanza non più solo fisicamente.
Desiderava che gli parlasse, che anche indirettamente gli dicesse che lei c’era, che era lì con lui, presente e non estranea a se stessa, e che ce l’avrebbe fatta ad andare avanti.
Le accarezzò il viso, soffermandosi su quella ferita all’altezza del mento che aveva già iniziato a cicatrizzarsi ma che mai più sarebbe andata via, come ricordo eterno e non gradito di ciò che quella notte le aveva inevitabilmente marchiato addosso; forse consisteva proprio nella memoria, nel perpetuo rivivere quegli istanti di disperazione, il prezzo da pagare per aver scelto di sopravvivere.
«Posso fare qualcosa?» le chiese in un sussurro, mentre ancora la teneva stretta e le sfregava lentamente e con delicatezza le spalle per riscaldarla.

Margaret, immobile e con lo sguardo, spento, fisso sulle pieghe delle lenzuola, attese una ventina di secondi prima di rispondergli.
«Ve bene così» disse con voce roca, incerta, e la sua mano sinistra si mosse a stringere debolmente quella con cui Fred non aveva smesso di sfiorarle il volto. Sentiva che solo lui avrebbe potuto capirla davvero. «È tutta colpa mia.»
«No che...» s’interruppe, lui, percependo la pelle della ragazza tremare di nuovo; così, senza allentare la presa, provò a girarsi un po’ sul fianco per guardarla meglio. «No che non è colpa tua, Meg. Doveva... Doveva succedere, non potevi farci niente.»
«Sì, invece... se solo fossi stata meno stupida, tutto questo n-non...» ribatté lei, ma il resto della frase non poté vedere la luce, destinata ad annegare tra le lacrime di quel nuovo pianto che rapidamente si era fatto strada fino alla gola e poi fino a quegli occhi troppo rossi e troppo stanchi e che troppo avevano sofferto.

Fred non sapeva come comportarsi.
Non sapeva cosa fare, cosa dire, quasi non riusciva neanche più a pensare, e quelle fitte pungenti che gli stringevano il petto erano nulla se confrontate alla sgradevole frustrazione che provava nel vedersi così inerme al cospetto di quel dolore.
Soprattutto, temeva di sbagliare. Pensò che se fosse stato zitto, se solo non le avesse chiesto niente e si fosse limitato a starle accanto, probabilmente quell’ennesima ricaduta non ci sarebbe stata. Magari sarebbero rimasti in silenzio per qualche altra ora, o forse per tutto il giorno, e le parole avrebbero trovato spazio in un altro momento, uno più appropriato.
Ma, d’altra parte, se c’era una cosa che in quegli ultimi anni aveva imparato, questa era che non ci riusciva proprio a guardare Margaret e a fare, immediatamente dopo, qualcosa di coerente con quanto fino a un istante prima aveva pensato. Per quanto buoni fossero, i suoi propositi finivano continuamente per destrutturarsi ed essere rimessi in discussione ogniqualvolta incontrassero quelle iridi verdi sempre in grado di cambiare gli equilibri in gioco.
Fu per questa ragione che, nonostante si fosse un po’ maledetto in precedenza per aver rotto quel rumore fatto di silenzi, comprese che con ogni probabilità sarebbe imploso se non avesse quantomeno provato a dirle ancora qualcosa. Così, con un pollice le sospinse dolcemente il mento per portarla a sollevare di poco il viso e tenne gli occhi fissi su di lei con insistenza, tant’è che alla fine questa sfacciata perseveranza convinse la giovane strega a ricambiare il suo sguardo, seppure con un pizzico di vergogna e riluttanza.
Le sfiorò appena la fronte con le labbra, asciugandole al contempo le guance con entrambi i lembi delle maniche della sua maglia. «Tu non c’entri niente, niente, con quanto è successo stanotte. Tuo padre, tua nonna...» esitò per un solo istante, dato che anche lui percepiva distintamente il bruciore dilaniante che quelle perdite avrebbero procurato per diverso tempo ancora. Dovette trarre un profondo e ammortizzante respiro prima di continuare. «Loro non avrebbero voluto che tu ti sentissi in colpa per qualcosa che non potevi evitare. Hai fatto del tuo meglio, hai salvato la vita a tua zia, a tuo cugino e a tanta altra gente, adesso non puoi condannarti per ciò che materialmente non ti era possibile fare. Non lasciare che tutto questo ti distrugga.»
Margaret non rispose. A fatica, si limitò ad annuire, e solo lei poteva sapere quanto quel semplice gesto le costasse. Era stato un po’ come mentire: d’altronde, come poteva garantirgli che non si sarebbe lasciata annientare quando tutto, dentro di lei, urlava tanto forte da convincerla del contrario?
Distolse lentamente lo sguardo e tornò a posare la testa sul suo petto; aveva bisogno di sentire quel cuore pulsare, martellare con insolenza contro la gabbia toracica, inondarle le orecchie di un suono che sapeva di vita. Troppa era la morte che avevano incontrato i suoi occhi quella notte, più di quanta il suo corpo potesse sopportarne. Aveva bisogno di espellerla, di allontanarla da sé, ma più ci provava e più la nausea, quel malessere diffuso, quel senso di oppressione si impadronivano di lei, ravvivati da quegli inarrestabili sensi di colpa che sicuramente era ancora troppo presto per lasciare andare.
A ogni nome senza più futuro, a ogni volto ormai pallido e privo di calore, le contrazioni e gli aggrovigliamenti del suo stomaco si facevano più decisi, dolorosi, e la tormentavano.
Desmond, Vittoria, Remus, Tonks, la signora Edwards: credeva di poterli sentire, uno a uno, con i loro commenti di biasimo e i loro sguardi fissi su di lei, come se al suo posto ci fosse una bambina ingenua e inadatta a vivere, mentre davanti a lei persino l’immagine del cranio rotto di Rookwood la portava a chiedersi se in realtà non fosse ella stessa un mostro. In fondo, aveva pur sempre ucciso un altro essere umano: un essere umano spregevole, privo di qualsiasi umanità, ma pur sempre un essere umano; qualcuno che magari aveva una madre, una famiglia che l’avrebbe pianto allo stesso modo in cui lei, adesso, stava piangendo suo padre e sua nonna.

Fu solo quando Fred emise un piccolo lamento strozzato che Margaret si accorse di aver conficcato le unghie sulla sua spalla. Allentò la presa, scusandosi, ma non passò molto prima che si allontanasse totalmente da lui e si alzasse dal letto.
«Ho bisogno di... di bere e di prendere un po’ d’aria» rispose, sofferente, alla sua espressione interrogativa e per ovvi motivi preoccupata.
Si trascinò a piedi nudi fino al bagno, e una volta dentro si richiuse la porta alle spalle e s’inginocchiò vicino al gabinetto, legandosi rapidamente i capelli con l’elastico che teneva al polso. La verità era che quella nausea non le dava tregua; stava male, terribilmente male, e mentre i conati la scuotevano, quasi non dandole la possibilità di fermarsi un solo istante e respirare, l’unica speranza che poteva avere era di riuscire in tal modo a liberarsi anche un po’ del suo dolore.

Quel bruciore alla gola era quanto di più fastidioso fosse obbligata a sopportare subito dopo. Provò a darle un po’ di sollievo concedendosi un sorso d’acqua fresca, non prima di aver sciacquato la bocca e il viso, poi premette entrambe le mani sul bordo del lavandino e si costrinse a guardare la sua immagine riflessa allo specchio. Tante volte, per un motivo o per un altro, aveva dovuto farci i conti, ma quella era senz’altro la più dura. Ogni piccola cicatrice, ogni bruciatura, ogni livido e persino quelle occhiaie date dalla stanchezza le riportavano alla memoria quanto accaduto quella notte, e lei non poteva fare altro che chiedersi se le sue spalle sarebbero state sufficientemente forti da reggerne il peso.
I suoi occhi corsero ai capelli ancora attaccati, incolti e pesantemente trascurati: quasi non ricordava quanto fosse passato dall’ultima volta in cui era riuscita a dar loro una forma. Probabilmente un mese, o forse due. Comunque, non ci rimuginò per molto, poiché non perse tempo a sciogliersi la coda fatta poco prima e ad acconciarne un’altra, stavolta un po’ più bassa. Aveva dimenticato la bacchetta sul comodino della camera da letto, ma non si crucciò ed estrasse un paio di forbici dal secondo cassetto del mobile posto affianco al lavabo; fu allora che, senza pensarci troppo – onde evitare di cambiare idea –, diede un taglio netto all’altezza dell’elastico e circa trenta centimetri di capelli caddero sul pavimento.
Non si premurò di raccoglierli, né di degnarli di un ulteriore sguardo. Semplicemente, posò le forbici al loro posto e uscì dal bagno con gli stessi passi silenziosi di quando vi era entrata.

Stavolta, però, non tornò in camera; piuttosto, si mosse in direzione delle scale e, scalino lentamente calpestato dopo scalino, raggiunse il piano inferiore.
Il corridoio era deserto, e le uniche voci che vi giungevano provenivano dalla sala da pranzo e non erano più di un incomprensibile mormorio indistinto, filtrato dalla porta chiusa. Margaret non si preoccupò di verificare a chi appartenessero, dato che era quasi certa che si trattasse di Abigail e George; si mosse dunque verso l’ingresso e, una volta varcata la soglia, si lasciò investire dal fresco odore di salsedine di quel pomeriggio di maggio.
La sabbia era timidamente scaldata da un sole che, seppur mite, spiccava in un cielo stranamente terso che a tratti sembrava sorriderle. Le piaceva percepire il contatto della pelle con i granelli; le faceva ricordare di quando era piccola e delle vacanze al mare con i suoi genitori, nonché di quell’abitudine che mai aveva perso di arricciare le dita dei piedi per trattenervi la sabbia in mezzo. Sentì una fitta di nostalgia, mentre l’acqua fredda le bagnava le caviglie appena lasciate scoperte dai jeans e le procurava i brividi.
Pochi istanti dopo, si sedette sulla battigia e si abbandonò all’indietro, respirando a pieni polmoni quell’aria pulita che le avrebbe asciugato il viso, e non le importava dell’umidità che le impregnava i vestiti e che presto le avrebbe attraversato la pelle per arrivarle alle ossa.
Forse, in fondo, non le importava quasi più di niente.
 


***

 
States are crumbling, walls are rising high again
It’s no place for the faint-hearted
But my heart is strong ‘cause now I know where I belong
It’s you and I against the world, we are free
 
 

L’acqua sul fuoco stava già bollendo, ma ci vollero circa due minuti prima che George se ne accorgesse.
Vagava con lo sguardo al di là della finestra socchiusa della cucina, assente, quando il fischio della teiera lo costrinse a tornare in sé.
Spense distrattamente il fornello e filtrò il liquido in due delle intoccabili tazze di porcellana della cognata, certo che quello sarebbe stato il più trascurabile dei suoi problemi, poi le prese e le portò nell’adiacente sala da pranzo, chiudendosi la porta alle spalle con una spinta del piede. Le posò entrambe sul tavolo; una dove di lì a poco lui stesso avrebbe preso posto, come lasciava intendere quella sedia vuota e appena scostata, e l’altra esattamente di fronte, vicino al gomito che Abigail teneva pressato contro la superficie per sorreggersi la testa.
George notò che non si era mossa: era in quella posizione, con le spalle ricurve e un braccio mollemente abbandonato davanti a sé, da quando una decina di minuti prima l’aveva lasciata sola per andare nell’altra stanza. La mano poggiata sul tavolo disegnava su di esso, con lentezza e pigrizia, dei cerchi concentrici con l’indice, mentre il palmo della sinistra le sosteneva la fronte e le dita si aprivano e chiudevano ritmicamente tra i capelli.
Osservandola, al ragazzo venne da pensare che un banalissimo tè non poteva essere sufficiente. Prese allora una bottiglia di Whisky Incendiario dalla credenza a vetri che occupava buona parte della parete ovest della sala e ne versò una dose generosa in entrambe le tazze.
Quando si sedette, fu stupito nel vedere le labbra di Abigail incresparsi appena in un piccolo, quasi invisibile sorriso.
«Tu sai sempre cosa fare» commentò lei, a bassa voce, lisciando con cura le pieghe della vestaglia in seta verde che indossava.
Erano le prime parole che gli rivolgeva da quando la Battaglia era finita.
Avevano preferito comunicare con i soli sguardi, come in un tacito accordo, facendo regnare il silenzio sulle loro labbra sigillate, e si erano comunque capiti. Era stato piuttosto facile, tutto sommato, comprendere le rispettive intenzioni affidandosi unicamente al semplice contatto visivo e alle più invadenti percezioni.
Non si era infatti rivelato difficile, per lui, interpretare i gesti di Abigail quando quest’ultima gli si era stretta al petto, di ritorno nella camera degli ospiti che da mesi li ospitava, e lo aveva guardato fisso con un paio d’occhi inumiditi da poche lacrime che, una volta versate, si erano mischiate sulle sue guance un po’ pallide alle gocce d’acqua che le ricadevano addosso dai capelli bagnati. Le braccia aggrappate alle sue spalle cercavano un sostegno, un appiglio che le consentisse di non affondare, allo stesso modo della bocca che nella sua si appropriava di quel tanto di ossigeno che le bastava per sentirsi nuovamente respirare.
Senza chiederlo, senza rifletterci, senza domandarsi se in quel momento fosse giusto o meno, si erano ritrovati nelle loro fragilità a fare l’amore come unico antidoto a quel dolore, e forse era stato solo allora che erano riusciti a vedersi veramente per la prima volta senza alcuna impalcatura, oltre i lividi e le ferite, nella loro genuina e pura essenza.
Era stato in quell’istante che George si era reso pienamente conto di quanto avesse rischiato di perdere quella notte.

«Come stai?» le chiese, indugiando sulla fantasia floreale che impreziosiva la sua tazza.
Lei si sistemò meglio sulla sedia e trasse un profondo respiro, scostando i capelli di lato. «Sono viva. Siamo vivi. Mi basta questo, al momento» rispose, mentre nel frattempo stirava di poco le labbra in un sorriso stanco quanto triste e tornava a trafiggerlo con i suoi occhi grigi. «Tu?»
George parve rifletterci per qualche secondo, ricambiando il suo lungo sguardo, ma alla fine annuì. «Stessa cosa.»
Bevve un sorso del tuo tè corretto, ignorando il bruciore inferto all’esofago dal passaggio del Whisky; in quell’ultimo mese la necessità di rilassare i nervi era stata così impellente da spingerli a ricorrere a quel rimedio casalingo tanto spesso che quello adesso rischiava di rivelarsi quasi inefficace.
Abigail, invece, continuava a rigirarsi la tazza tra le dita, soffermandosi di quando in quando per sfiorarne i bordi con i pollici. Le piaceva imprimere i polpastrelli su quel raffinato strato di ceramica e percepirvi il confortevole calore della bevanda attraverso: era una sensazione che sapeva di famiglia, di quotidianità, di autunni vissuti a osservare la pioggia dalle finestre, di pigri pomeriggi delle domeniche trascorsi a scaldarsi le mani cercando una comoda sistemazione sul divano; sapeva di casa, di memorie malinconiche che facevano tremare il cuore, di sorrisi silenziosi e speranze taciute. Era tutto troppo prezioso perché lei non gli riservasse la giusta importanza e il giusto tempo.

«È finita per davvero?» si ritrovò a chiedere, portandosi la tazza alle labbra per concedersi finalmente un sorso di tè.
George, d’altra parte, non batté ciglio, per nulla stupito di sentirsi porre quella domanda. «Sì, Gail. È tutto finito.»
«Cosa ci assicura che non ci saranno altre ripercussioni? Cosa ci rende tanto certi che altra gente non morirà per le stesse assurde ragioni?» ribatté prontamente la ragazza, rianimandosi; dalla vestaglia appena scostata si poteva intravedere il soffione che aveva deciso di farsi tatuare diversi mesi prima. «L’ho già vissuto, George, ed è per questo che lo chiedo. Erano passati sei anni dalla fine della Prima Guerra Magica, io ne avevo otto. Ne sono trascorsi altri undici, e ancora non so chi abbia ucciso mio padre, quel maledetto 10 marzo del 1987, né tantomeno perché.»
L’altro tornò a guardarla, e stavolta negli occhi con cui la inchiodava la sorpresa era lampante. Aveva sempre creduto che Matthew Thompson fosse morto in un qualche incidente, o a seguito di una qualsiasi malattia; non l’aveva mai sfiorato il pensiero che la sua scomparsa potesse essere stata un assassinio, e d’altronde lei non ne aveva mai fatto accenno se non molto vagamente. «Io... Tu non...»
«Non te ne ho mai parlato, lo so. Forse perché fa ancora troppo male farlo.»
«Non devi, davvero.»
«No, hai il diritto di sapere» gli disse Abigail, prendendogli la mano che teneva sul tavolo, a poca distanza dalla sua, in una stretta rassicurante. Sarebbe stato difficile, e lo sapeva, affrontare il suo passato, riportare a galla quella sofferenza che mai come durante quella notte era tornata a farsi sentire in maniera così viva, ma si trattava di una sfida che era disposta a intraprendere. «Andrew e John erano a Hogwarts, quando è successo. Mamma era tornata presto dal lavoro e aveva deciso di preparare una bella torta di meringhe, la sua preferita... era il loro anniversario di matrimonio.»
Si costrinse a bere un altro sorso di tè, dato che la voce si era appena incrinata su quelle ultime parole.
George si era premurato di accarezzarle con gentilezza il dorso della mano, intuendo e giustificando il suo disagio, e con lo sguardo sembrava suggerirle di prendersi tutto il tempo di cui avvertisse la necessità.
Lei lo ringraziò in silenzio, intensificando la presa, e dopo aver inspirato a fondo si decise a proseguire con il suo racconto. «Era bello aspettare che papà tornasse a casa, e a dire il vero era una delle cose che preferivo fare durante il giorno. Apriva la porta e insieme ai suoi sorrisi entrava il buonumore, i problemi li lasciava tutti fuori.» Un’espressione intenerita s’impossessò dei suoi lineamenti, ma fu subito oscurata dall’ombra che prontamente le attraversò il volto. «Quel pomeriggio il suo turno finiva alle sei. Come ogni anno sarebbe passato dal fioraio a comprare le camelie per la mamma, motivo per cui i primi dieci, quindici minuti di ritardo non ci sorpresero più di tanto. Presto, però, quei dieci minuti divennero trenta, poi un’ora, dopo ancora due... Fu solo alle otto e mezza che qualcuno si degnò di bussare alla porta per farci sapere cosa fosse accaduto. A volte riesco ancora a sentire le urla strazianti di mia madre.»
«Gail, può bastare. Non devi farlo per forza» la interruppe George, avendo notato un certo nuovo rossore tormentarle gli occhi. Non pensava sarebbe riuscito a sopportare di vederla piangere di nuovo.
Lei, però, gli sorrise dolcemente un’altra volta, avendo apprezzato quel suo fare tenacemente premuroso. «Ce la faccio» lo rassicurò, protendendosi un po’ di più verso il suo viso per lasciarvi una tenera carezza. L’altro chiuse le palpebre, volendo bearsi appieno di quel tocco gentile che gli solleticava la guancia, poi le catturò la mano nella sua e se la portò alle labbra per imprimervi un bacio sul palmo.
Abigail non ne fu stupita; da quando stavano insieme, George non si era mai risparmiato dal dispensarle quei gesti d’affetto, quelle piccole attenzioni che profumavano di essenziale e che più di ogni altra cosa riuscivano a rimetterle in sesto il cuore quando il suo peso iniziava a gravare troppo sulle costole. La sua presenza era la sola di cui in quei momenti avesse realmente bisogno.
«Quattro mesi dopo ci trasferimmo a Roma. Mia madre accettò quel lavoro di insegnante di Difesa contro le Arti Oscure alla Scuola di Magia italiana e i miei fratelli terminarono gli studi lì, io li iniziai due anni dopo. Adesso come allora mi chiedo perché l’abbiano ucciso, e non so darmi una risposta. Ciò che però non mi ha mai dato pace è quel testamento scritto esattamente cinque giorni prima della sua morte... un po’ come se in fondo se lo sentisse, un po’ come se sapesse che la fine era vicina.»
Il ragazzo abbassò lo sguardo sulla sua tazza per metà vuota e un pensiero terribile gli attraversò la mente. «Siamo... Siamo sicuri che si sia trattato di un omicidio? Non potrebbe essere stato un... che so...»
«Un suicidio? No» negò Abigail, che al contempo scuoteva la testa. «L’hanno colpito alle spalle, in un vicolo. Non hanno neanche avuto il coraggio di guardarlo in faccia, prima di ucciderlo... prima di privare tre figli di un padre» aggiunse, e stavolta la rabbia e l’amarezza erano ben udibili nelle sue parole.

Abbassò lo sguardo sulla superficie del tavolo, e lo stesso fece anche George; si sentiva a disagio, fuori posto alla stregua di un intruso o di un ladro di ricordi, tanto inadeguato quanto pensava sarebbe stata qualsiasi cosa avesse detto in quel frangente. Persino il banale e in quei contesti profondamente abusato «Mi dispiace» che le sussurrò subito dopo gli parve così sfacciato da non potersi considerare accettabile.
Lei, però, non risultò dello stesso avviso, poiché tornò a guardarlo con amorevole riconoscenza.
«Lo so, e a me dispiace di averti sovraccaricato di una sofferenza che in fin dei conti non ti appartiene. Adesso, però, sai perché ti ho fatto quella domanda» disse, terminando il suo tè senza mai rompere il contatto visivo; trovavano sempre il modo di scavarsi dentro a vicenda. «Cosa mi assicura che domani, tra un mese, fra tre anni, mentre starò rientrando a casa dal lavoro o starò semplicemente passeggiando, qualcuno non mi punterà una bacchetta contro e non mi ammazzerà come un cane? Come faccio a ritenermi certa che nessuno busserà mai alla porta di casa, della nostra casa, e mi dirà che qualcuno di cui non si conosce l’identità ti ha appena ucciso? Come possiamo illuderci che finalmente potremo ricominciare a vivere facendo finta che tutta questa merda non ci sia mai finita addosso?»
«Non possiamo, è semplice» convenne lui, pensieroso; dopo quanto gli aveva appena raccontato sarebbe stato assurdo contraddirla. «Non ci resta che andare avanti; provarci, almeno, o non ne usciremo più. Ed io sono convinto per davvero che stavolta sia tutto finito, o meglio voglio crederci: dopo stanotte non posso accettare che non sia così.»
«Vorrei anch’io essere tanto ottimista» commentò Abigail, scivolando un po’ più giù sulla sua sedia per appoggiare la testa al bordo superiore dello schienale. Il breve silenzio che seguì fu debolmente disturbato dal rumore dello scatto che la porta d’ingresso fece nel richiudersi. «Era Meg, vero?»
George annuì lentamente, soffermandosi a osservare le tende delle finestre, pur sapendo di non poter intravedere nessuno sulla porzione di spiaggia da lì appena visibile. «Sono preoccupato per lei.»
«Pure io» sospirò l’altra, contraendo i lineamenti del volto in un’espressione sconsolata. «Ma la capisco, George. Mio zio era un uomo pieno di spigoli e di contraddizioni, ma non ha mai mancato di dimostrarle quanto incondizionatamente la amasse... Persino con me, che sono... ero sua nipote, si è spesso comportato più come un padre che come un qualsiasi altro parente. So quanto male faccia, so cosa si prova, e non posso biasimarla... E non dobbiamo neanche dimenticare che ha accidentalmente ucciso una persona; più ci penso e più mi ripeto che avrei dovuto farlo io, al suo posto.»
Il ragazzo si mostrò immediatamente turbato da quell’ultima constatazione. Si mise a sedere in maniera più composta e corrugò leggermente la fronte, poi puntò un gomito sul tavolo e poggiò la guancia sul palmo aperto della mano. «Perché dici questo?»
Lo sguardo di Abigail divenne grave, le labbra si arricciarono. «Lei non voleva farlo, e mai avrebbe voluto; lei combatteva per difendersi, per difenderci, per sopravvivere. Io avrei combattuto per ucciderlo.»
«Abbie, smettila» mormorò lui, non celando negli occhi appena sbarrati lo stupore suscitato da quella confessione.
Lei, invece, prese a fissarsi le unghie, mentre ancora si tormentava le dita, e scosse di poco la testa in un lento movimento da destra verso sinistra, e viceversa. «Perché dovrei? È la verità» disse, piano, mordicchiandosi una pellicina attorno all’unghia del pollice. «Prima di ammazzare Rookwood, Meg non aveva capito cosa fosse accaduto... io sì. È stato così straziante che io... se lei non si fosse rialzata, se non avesse ripreso a combattere, e se solo io avessi avuto la forza di rimettermi in piedi al posto suo, penso non mi sarei fatta alcuno scrupolo di coscienza. Non avrei avuto pietà, né inutili sensi di colpa, esattamente come lui non ne avrebbe avuti uccidendo una ragazza di vent’anni con un’intera vita davanti, o un padre di un bambino di appena due mesi» spiegò, e nel frattempo lanciò una rapida occhiata al passeggino dove, a poca distanza da loro, il piccolo Richard sonnecchiava tranquillamente, salvo poi reindirizzare la sua attenzione sul ragazzo che, seduto di fronte a lei, la scrutava con un pizzico di velata apprensione. «Non voglio che tu pensi che io sia una potenziale assassina, George, perché non lo sono. Sono solo una donna impulsiva, e forse per questa ragione un po’ immatura, che detesta le ingiustizie e che quando ne vede commettere una non ci riesce proprio a non comportarsi di conseguenza. Probabilmente... Probabilmente avrei continuato a vivere avvertendo perennemente questo marchio sulla pelle, ma almeno avrei vissuto con la consapevolezza di aver fatto la cosa che per me e in quel momento era la più giusta. Mia cugina, invece, ha degli ideali tali che per lei sarebbe stato impossibile convivere con le conseguenze morali di un simile gesto... un po’ come te, ed è per questo che ti ho chiesto cosa intendessi fare quando ho creduto che volessi far fuori quell’inutile Mangiamorte, in quel corridoio. Ecco perché dico che avrei preferito esserci io, al suo posto: questo è un peso che Margaret non potrà mai accettare di sopportare.»

George non smise di osservarla, silenzioso, mentre lei si alzava e si avvicinava alla finestra per aprirla quel che bastava a fare entrare un po’ di aria pulita e rimaneva lì, con lo sguardo un po’ perso a fissare un punto imprecisato al di là dell’inferriata, lasciandosi solleticare il viso da una dolce folata di vento che le mosse i capelli ancora un po’ umidi. Non era certo di sapere cosa le passasse per la testa, cosa si nascondesse oltre quel cipiglio indecifrabile e dietro quelle dita che nervosamente tamburellavano sul marmo color sabbia del davanzale, ma credeva di poterlo intuire; la percepiva, quell’insistente necessità di farsi giustizia che sapeva lei stesse provando e che probabilmente si portava dietro da metà della sua vita, e in fondo la giustificava, perché sarebbe stato un ipocrita se avesse detto di non condividerla e di non sentirla ormai un po’ anche sua. Lo sbigottimento aveva già lasciato il posto a un’empatica e rassicurante comprensione.
«Non penso che tu sia una potenziale assassina» le disse, riprendendo le parole che lei stessa aveva utilizzato poco prima, in un invito a focalizzarsi di nuovo su di lui. «Io non... non credo te ne avrei fatto una colpa. Sento di capire perché lo avresti fatto, al di là del desiderio tutto sommato nobile di proteggere tua cugina, e più ci rifletto e più mi dico che non avrei mai potuto giudicarti per questo. Nessuno ha mai pagato per la morte di tuo padre... forse era arrivato il momento che tu stessa ti prendessi quella rivincita che ti spettava.»
«Forse sì» annuì lei, spostando lo sguardo sul parquet del pavimento. Ammetterlo le era costata più forza di quanta pensava le fosse rimasta. «Voglio chiudere questo capitolo, George, ricominciare da capo. Voglio farlo già da domani, perché sono esausta... e perché non credo di poter continuare a vivere così.»
«Ci riuscirai. Ci riusciremo. Stavolta non ti lascio sola.»
«Lo so» fece ancora Abigail; le prime timide lacrime le avevano già rigato il viso fino al mento. «E voglio che ci riesca anche lei. Mia nonna Vittoria non... non avrebbe voluto che ci riducessimo così. Ci diceva sempre che una vera donna affronta il dolore a testa alta, con la schiena dritta e le spalle che non s’incurvano per darla vinta alle intemperie. Io lo so, lo so, che tutta questa sofferenza è fisiologica, che non possiamo farci niente, che è troppo presto per pensare di rialzarci, ma come faccio a...» esitò per qualche secondo, strizzando le palpebre per provare a resistere al pianto, ma sarebbe stato un tentativo vano quello di combattere il magone che aveva in gola. «Come... Come faccio ad accettarlo?»
George non perse tempo e le andò incontro, stringendola in un abbraccio forte e intenso che fu l’unica ragione per la quale la ragazza riuscì a restare in piedi nonostante le gambe avessero iniziato a tremarle, troppo dolenti e troppo stanche di quell’angosciante peso che non erano più in grado di portare.
Le passò una mano dietro la nuca, intrecciando quel groviglio di capelli biondi tra le dita, e poté sentirla rilassarsi appena mentre gentilmente abbandonava la testa sulla sua scapola. Era difficile, a tratti destabilizzante, vederla tanto fragile, così impotente contro i suoi tormenti, oltre le inevitabili e sempre più larghe crepe di quell’ostinazione a fingere che tutto le sarebbe facilmente scivolato addosso. Più volte si era creduto certo di amarla soprattutto per quegli aspetti più duri e testardi della sua personalità, per quegli spigoli terribilmente interessanti da scoprire ed esplorare ma troppo ardui da smorzare, quando la verità era che mai come negli istanti in cui ogni maschera e ogni ingombrante armatura veniva sfilata via e messa da parte si sentiva così profondamente e pienamente connesso con lei.
«Fidati di me» le sussurrò all’orecchio, cullandola nel calore di quella stretta rasserenante, salvo poi prenderle il volto tra le mani e accarezzarlo con rinnovata dolcezza, dal mento alle tempie, passando per gli zigomi, soffermandosi infine su quel taglio che le attraversava in altezza il sopracciglio destro e del quale si sentiva in parte responsabile; si disse pure con un pizzico di ingenuità che avrebbe potuto fare di più perché di quegli ematomi e di quell’occhio tumefatto non ci fosse traccia.
Abigail intercettò i suoi pensieri oltre quel repentino mutamento di espressione – divenuta un po’ più cupa e corrucciata – e uno sguardo le bastò per svincolarlo da ogni inesistente colpa; si asciugò il viso con la manica della vestaglia, sfoggiando una piccola smorfia di finto disappunto quando le dita finirono per toccare superficialmente la stessa ferita che qualche istante addietro aveva rapito l’attenzione del ragazzo. «La cicatrice non andrà più via, lo so. Mi troverai meno interessante, adesso?» scherzò, inchiodandolo con uno sprazzo di irresistibile malizia nelle iridi grigie e nell’angolo della bocca solo vagamente incurvato.
Lui accolse con piacere e con velata speranza quell’inaspettato spiraglio di luce e, mettendo per un attimo da parte lo stupore iniziale, le sorrise di rimando. «Ti troverei interessante anche se fossi ricoperta di pustole.»
Anche lei sorrise, solo più dolcemente, e finalmente un lieve rossore le andò a colorare le guance pallide, restituendo loro un po’ di vita. Iniziò a carezzargli le spalle, sentendosi stringere di nuovo. «Provo a riposare un po’. Tu vieni?»
«Ti raggiungo subito» le assicurò, allentando la presa per lasciarla andare. Lei, però, non si mosse; non prima, almeno, di essersi sporta verso di lui e averlo baciato in una sorta di muto ringraziamento.
«Ti amo, George» gli disse, piano, sulle labbra, forse indecisa se imprimervi addosso ancora una volta le sue o se lasciarle libere di decidere quale sarebbe stata la mossa successiva.
«Ti amo anch’io, Abigail

La seguì con lo sguardo fino a quando la sua figura non sparì oltre la porta della sala da pranzo; avrebbe continuato a farlo anche al di là di questa, imitando quei passi lenti e certo che ci sarebbe stato un po’ di spazio anche per i suoi, se solo tutte quelle nuove emozioni che chiedevano di essere metabolizzate non fossero state così pressanti.
Si appoggiò con entrambe le mani al bordo del tavolo, chinando il capo per fissarne la superficie. Erano ore che voleva farlo; ore durante le quali si era imposto di mettere un po’ da parte i suoi tormenti per dedicare la giusta attenzione a un dolore sicuramente più grande.
Adesso, solo in quella stanza, tutto ciò che voleva era il vuoto; un vuoto che anestetizzasse i sentimenti, o che almeno li rendesse meno intensi, e che fosse in grado di fermare per un istante il tempo e restituirgli in quell’attimo di immobilità l’equilibrio che sentiva di aver perso. Che poi, forse, quello che davvero gli serviva era proprio che il mondo si prendesse una pausa di un minuto. Sessanta secondi di eterno in cui annullare le leggi spazio-temporali e le percezioni, in cui non ci fosse posto per pensieri e riflessioni, in cui fosse possibile semplicemente ridimensionare le colpe e le responsabilità, gli “avrei potuto” e i “se solo avessi fatto”; perché a nulla sarebbe servito nutrirli ancora, se non a dar loro le giuste armi per abbatterlo.
Ma il mondo non aveva alcuna intenzione di fermarsi. Andava avanti, insensibile, non disposto a dispensare attimi di tregua, e George – per quanto ci provasse – quella testa non ci riusciva proprio a spegnerla; era pesante, sovraffollata, quasi sadica nell’affliggerlo con mille e più ricordi, nell’alimentare quell’angosciante dubbio che gli faceva chiedere a se stesso se forse non avrebbe potuto dare qualcosa di più durante quella notte.

Furono i lamenti di Richard, che da appena udibili divennero presto più insistenti, a salvarlo da un’introspezione che certamente si sarebbe rivelata tragicamente deleteria.
Si approssimò al passeggino e prese in braccio il bambino, stringendoselo al petto; profumava ancora di quel bagnoschiuma alla vaniglia che lui e Abigail, in uno slancio di improvviso istinto genitoriale, avevano usato per fargli il bagnetto prima di cena. Gli lasciò un bacio sulla testolina, mentre le braccia lo cullavano quasi automaticamente allo stesso modo in cui più volte aveva visto suo fratello tentare di rasserenare Alexander ogniqualvolta qualcosa lo turbasse. Per un istante si chiese se sapesse, si chiese se capisse cosa stava accadendo e se fosse proprio questa la ragione del suo malessere.
«Andrà tutto bene» gli sussurrò, chiudendo gli occhi. Era un mantra che si ripeteva ormai da ore, tanto spesso da averlo trasformato in una reale e ferma convinzione.
Dubitava, però, che le cose sarebbero state così semplici, e i suoi tentennamenti non facevano che intensificarsi a ogni secondo trascorso con quel neonato stretto al cuore. Un neonato che sarebbe cresciuto chiedendosi dove fosse suo padre, in un primo momento troppo piccolo per comprendere che non sarebbe mai tornato e successivamente troppo consapevole per accettarlo; un bambino che non aveva nessuna colpa, se non quella di essere nato in un’epoca atrocemente sbagliata che così tanto gli aveva tolto e che tanto presto l’aveva fatto. Gli piaceva pensare che, se davvero esisteva una via d’uscita da tutta quella merda, loro l’avrebbero trovata anche e soprattutto per lui.

«Fate un bel quadretto» esordì la voce di Fred, inattesa, riportandolo al presente.
Il fratello stava entrando esattamente in quel momento nella sala da pranzo dalla porta della cucina, portando con sé un biberon appena riscaldato; aveva un’espressione che voleva fingersi quasi spensierata, ma la sofferenza e la stanchezza erano ben visibili nelle sue occhiaie.
George non aveva minimamente prestato attenzione ai rumori che poco prima avevano animato la stanza accanto; concentrato com’era nel cullare Richard, ogni suono diverso da quello dei suoi pensieri era totalmente passato in secondo piano, compresi gli ancora insistenti lamenti del bambino.
«Penso proprio che questo potrebbe esserti utile» aggiunse Fred, porgendogli il biberon, ma esitò un istante prima di lasciarglielo. «Sai farlo, vero?»
George inarcò le sopracciglia, un po’ risentito, e si appropriò di quel piccolo contenitore. «Scherzi, vero?» domandò, retorico, prendendo posto e sistemandosi meglio il piccolo tra le braccia. «Quasi non ho fatto altro per un anno intero.»
«Hai ragione» convenne Fred, stavolta in un sorriso accennato, sedendosi anch’egli. «Ma così non va bene, devi sollevargli la testa.»
«Lo so» bofonchiò l’altro, correggendo immediatamente la postura per non darla vinta al gemello, che già se la rideva sotto i baffi. «Non tutti possono essere bravi come te, papino
«Sono d’accordo. È difficile eguagliare la perfezione, ma ti ci puoi comunque avvicinare» scherzò Fred, incapace di resistere alla tentazione di una battuta così accuratamente servita su un piatto d’argento, e non si meravigliò troppo quando si accorse di essere riuscito a strappargli un sorriso. Era sempre stato semplice, tra loro, trovare le parole giuste; non sarebbero di certo state le ferite di una guerra a permettere il contrario. «Come ti senti?»
«Prova un po’ a indovinare» lo invitò George, restituendogli uno sguardo abbastanza eloquente.
L’altro si finse pensieroso e prese a scrutare il soffitto. «Stupido, tremendamente inadeguato, inutile?» iniziò dunque a elencare, contando ogni aggettivo con l’ausilio delle dita.
Il fratello annuì, palesemente sconsolato. «Non avrei saputo dirlo meglio» convenne, spostando distrattamente qualche ciuffo di capelli dalla testolina di Richard, che dal modo in cui ciucciava soddisfatto il biberon non poteva certo considerarsi sazio.
Fred chinò la testa e cominciò a tormentarsi le unghie, avendo ben chiara in mente e sulla pelle quella sensazione. «Provo le stesse cose anch’io» ammise, tornando a guardare quella sua perfetta copia seduta dalla parte opposta del tavolo; erano identici persino in quel dolore. «Ho visto Abbie, però, prima di venire qui.»
«Oh» fece George, incupendosi; improvvisamente, iniziò ad avere paura di ciò che avrebbe potuto ascoltare.
Tuttavia, Fred colse subito il suo disagio e non tardò a rassicurarlo, rivolgendogli un’espressione benevola. «Mi è sembrata più tranquilla. Esausta, certo, ma qualcosa mi dice che aveva solo tanto bisogno di sfogarsi, e tu le hai dato l’opportunità di farlo. Non devi sentirti inutile; le fai più bene di quanto immagini.»
«Io non ho fatto proprio niente» lo contraddisse il fratello, scuotendo la testa, mentre posava il biberon quasi vuoto sul tavolo e si portava nuovamente il bambino al petto, dandogli dei leggerissimi colpetti sulla schiena. Arricciò le labbra, per nulla convinto, anche se in fondo non poteva che sperare che il gemello avesse un po’ ragione.
Questi, d’altra parte, sollevò le sopracciglia, scettico. «Non posso credere che sia solo opera del Whisky Incendiario.»

L’altro, ancora una volta, si ammorbidì, come facevano ben notare i suoi lineamenti appena più rilassati. «Sai che può fare miracoli» si giustificò, distendendo le labbra in un mezzo sorriso, poco prima di piegare la testa di lato e fare spallucce. «Lei... Lei è forte, meravigliosamente forte, e ha coraggio da vendere. Lei non lo sa, ma riuscirebbe ad affrontare tutto questo casino anche da sola. Io voglio unicamente starle accanto e farle da promemoria quando crederà di non esserne in grado; sarà difficile, ma dopo che ho rischiato di perderla non sarà una crisi – per quanto delicata possa essere – a spaventarmi.»
«Vorrei poter dire la stessa cosa» confessò Fred, istintivamente, quasi vergognandosi di quel sussurro in cui una piccola, infinitesimale parte delle sue paure aveva finalmente trovato uno spiraglio che le consentisse di farsi ascoltare con maggiore attenzione.
Poggiò entrambi i gomiti sul tavolo e si portò la testa tra le mani, socchiudendo gli occhi; si sentiva sotto attacco, vulnerabile, troppo stanco per elaborare uno straccio di strategia che potesse considerarsi accettabile, inondato da un flusso inarrestabile di pensieri e di preoccupazioni. Si era sforzato di far finta che fosse tutto sotto controllo, di essere in grado di gestire quel sovraccarico emotivo, persino che non gli pesasse; erano bastate quelle poche parole di suo fratello a mandare in frantumi quell’illusione che da quando aveva lasciato la camera da letto si era impegnato a costruire.
George lo osservò, adesso ragionevolmente preoccupato, ma era convinto di sapere quale fosse il motivo di un tale sconforto. «È così terribile?» gli chiese, e lo sguardo tetro che ricevette in risposta lasciava ben poco spazio alle speculazioni.
«Un disastro» ammise il gemello, quindi, in ogni sillaba marcata di frustrazione. «Ha pianto per ore, e più provavo a stringerla e più lei tremava. Qualunque gesto sembrava fuori luogo, qualsiasi parola era sbagliata. Mi sono sentito l’essere più inutile dell’Universo... mi sento l’essere più inutile dell’Universo.»
«È normale, Fred. Noi non possiamo neanche immaginare quello che sta provando. Ha perso suo padre, ha perso sua nonna, ha ucciso Rookwood... e la Cruciatus subita, il peso di dover guardare sua madre negli occhi e darle quel dolore atroce... Cosa vogliamo saperne noi?»
«Nulla, ma era forse troppo sperare di non risultare così ridicolo?» ribatté Fred, che nel frattempo prese una coda di capelli castani dalla tasca della felpa e la gettò con riluttanza sulla superficie di fronte a sé.
George vi indugiò per qualche istante, a metà tra il sorpreso e lo sconvolto, salvo poi reindirizzare l’attenzione sul fratello, sconcertato almeno quanto lui. «Sono suoi?»
«Li ho trovati in bagno» spiegò quest’ultimo, spostando il peso della testa su una sola mano per permettere all’altra di seguire distrattamente le venature del legno del tavolo. «Ho anche fatto un salto al secondo piano... volevo accertarmi di come stesse Gloria, ma non ho neanche avuto il coraggio di bussare alla porta. Piangeva così disperatamente che mi sono sentito morire.»
«Povera donna...» commentò George, amareggiato, stringendo Richard un po’ più forte a sé in un gesto istintivo, parzialmente dettato da un rinnovato bisogno di allontanare quanto più possibile quelle angosce e quelle riflessioni che ancora una volta tornavano a minacciare di invadergli la mente.
Fred annuì lentamente, come a volersi prendere un altro po’ di tempo per soppesare quanto sentiva l’insistente bisogno di dire; erano ore che si chiedeva se avrebbe avuto la faccia tosta di ammetterlo, ma mai come in quegli istanti la risposta gli era parsa così nitida e sfacciata. «Io non... Io non penso di essere in grado di affrontare tutto questo.»
«Prego?» fece l’altro, basito. Certamente non l’avrebbe biasimato, ma non riusciva a credere che quella potesse davvero essere la verità.
«Non so cosa fare, George. Non so come comportarmi, non so cosa dirle, e lo so che serve tempo e che non sarebbe facile per nessuno... ma è come se, anziché difficile, per me fosse proprio impossibile aiutarla.»
«Ma certo che puoi aiutarla, Fred. È stata una notte orribile per tutti noi... e tu sei molto stanco. Non dovresti darti colpe che non hai.»
«Non è solo questo, non è solo stanchezza» obiettò Fred, massaggiandosi delicatamente l’angolo interno degli occhi con il pollice e l’indice. «La guardo ridotta in questo stato e riesco soltanto a stare male. Meg meriterebbe di meglio di qualcuno che non è neanche capace di starle accanto e di darle conforto.»
«Stai esagerando, questo lo sai?» controbatté George, corrugando la fronte con fare turbato. «Devi avere più fiducia in te stesso e in lei. Queste prime settimane saranno terribili, ma la conosciamo; saprà come rialzarsi, e a quel punto sono convinto che sarai pronto a porgerle una mano.»
«Lo so, è che...» s’interruppe, non avendo effettivamente idea di come e se sarebbe stato possibile, per loro, giungere a un traguardo tanto auspicabile quanto apparentemente inarrivabile. Sospirò, abbandonandosi contro lo schienale della sedia, giusto prima di destinare al fratello uno sguardo quasi supplicante. «Tu cosa faresti?»
Questi sgranò impercettibilmente gli occhi, colto alla sprovvista. «Io?» mormorò, facendosi seguire da un leggero colpo di tosse. «Be’...» provò, ma nulla di minimamente intelligente parve passargli per la testa in quel momento. Si morse il labbro inferiore, in evidente difficoltà, ma proprio quando l’altro stava per fargli cenno di lasciar perdere, la soluzione accorse in suo aiuto nella migliore delle sue vesti. «Portala via.»
«Portarla... via?» commentò il gemello, scrutandolo con un’aria interrogativa un filino comica.
«Sì, accidenti, portala via. Lascia passare il compleanno di Alexander e poi costringila a fare quella maledetta valigia e andatevene. Venti giorni, un mese lontani da tutto questo schifo. Volevate andare in Grecia, per la luna di miele, o sbaglio?»
«Sì, ma... non penso sia una buona idea. Cioè, potrebbe esserlo, ma lei...»
«Lei cosa?» lo fermò George, stupito. «Ne ha bisogno – e ne hai bisogno anche tu – e non solo per via di quanto accaduto stanotte. Negli ultimi mesi non ha fatto altro che chiudersi a riccio, rimuginare e lasciarsi divorare dal nervosismo. Quando è stata l’ultima volta che ha dormito per tutta la notte, senza svegliarsi ogni due ore in preda agli incubi e assicurarsi che tu fossi ancora vivo?»
«Febbraio, credo.»
«Bene, allora eccoti la risposta che cercavi: andatevene

Fred non aveva ben chiaro cosa dire. Contrasse i lineamenti del viso, ovviamente pensieroso, e si perse a fissare le linee del parquet. Rifletté che, tutto sommato, l’idea del fratello non era certo da considerarsi malvagia: parecchie volte, in tempi abbastanza recenti, lui e Margaret si erano ritrovati a fantasticare su quante di quelle cose avrebbero potuto fare una volta che la guerra fosse finita, spesso nel tentativo di scacciare quell’ombra fitta e ingombrante in cui trovavano condensazione molte delle loro paure più indicibili; quel viaggio, programmato dal primo all’ultimo e più piccolo dei dettagli, non aveva mai mancato di riempire le loro conversazioni lente, consumate in dei sussurri per timore di disilludersi se il volume della voce avesse superato quello dei pensieri.
«Dobbiamo riaprire il negozio. Ci sono troppe cose da sistemare, non puoi farcela da solo.»
«Prima è meglio lasciare che le acque si calmino, penseremo a tutto quando sarai tornato» lo rassicurò George, con tanto d’occhiolino. «Quanto ad Alexander, ci penseremo io e Abigail.»
«Neanche per sogno» si oppose, però, il fratello, sollevando le sopracciglia; sovraccaricarli di una responsabilità così grande avrebbe unicamente contribuito ad alimentare i suoi già troppo invadenti sensi di colpa. «Non è giusto che voi vi occupiate del bambino mentre noi ci prendiamo una vacanza. Meritereste anche voi un po’ di riposo.»
«Ehi, è pur sempre del mio nipotino preferito che stiamo parlando. So già che ce la spasseremo alla grande, con lui... potrebbe persino essere terapeutico!» puntualizzò l’altro, ora più allegro, suscitando nel suo interlocutore una sana e a tratti divertita perplessità.
«Vestire i panni di genitori per un paio di settimane?»
«Perché no?»
«Non ne uscirete vivi» sentenziò Fred, quindi, mostrando le mani in segno di resa. Sapeva perfettamente che non sarebbe finita bene – le probabilità che andasse tutto liscio come l’olio erano pressoché inesistenti –, ma cominciava a trovare terribilmente allettante la prospettiva di testare fino a che punto suo fratello e Abigail sarebbero stati in grado di resistere. D’altra parte, una sola parola e sua madre non avrebbe esitato a correre in soccorso di quei due poveri sciagurati.
«Ci sottovaluti un po’ troppo, sai?» commentò George, fingendosi risentito, ma ebbe proprio il tempo di terminare la frase che Richard, in un tempismo eccezionalmente perfetto, gli rigurgitò sulla maglietta.
Sollevò il bambino, scrutando quella macchia di vomito sulla spalla con disgusto; un disgusto che, ovviamente, s’intensificò non appena le sue narici furono invase da uno sgradevole odore imputabile al pannolino sporco.
Fred scosse la testa di serena rassegnazione, distendendo finalmente il viso in un sorriso. «Confermo: non ne uscirete vivi.» 

 

From this moment, from this moment
You will never be alone
We’re bound together, now and forever
The loneliness has gone
 


- Angolo dell'autrice

Miei cari, che dirvi? Ben ritrovati!
Io – dovete credermi – non so più come scusarmi per queste imperdonabili e indecenti attese. Sono passati altri sei mesi; sei mesi in cui io non ho scritto praticamente nulla, per poi ridurmi a buttare giù tutto in due settimane scarse, una volta terminata la sessione invernale.
E il risultato – disastroso – si vede, perché questa roba non mi convince per niente e una volta terminata la stesura avrei solo voluto cestinare tutto. Se devo essere sincera, l’unica parte che mi soddisfa è quella centrale, con il dialogo George/Abigail; per il resto, è tutto un grande, enorme, gigantesco “MA PERCHÉ FA TANTO SCHIFO, SANTO MERLINO!”.
Soprattutto la parte Fred/George: quella mi rifiuto persino di rileggerla.

Perché ho postato, allora, direte voi? Perché sono passati sei mesi, perché avendo qualcosa pronto sarebbe stato indegno farvi aspettare ancora e perché credo proprio che meglio di così, purtroppo, non riuscirei a produrre niente. Non in questa fase della mia carriera da studentessa, almeno: la combo mortale Università + tirocinio continua a sortire i suoi catastrofici effetti; se poi vogliamo anche parlare del mio tutor identico a Brad Pitt, direi che è evidente che le mie probabilità di farcela in questa vita sono pari allo zero. ZERO. *chiama un’ambulanza*

Dunque, mi prostro dinanzi a voi e vi chiedo umilmente perdono. Avrei potuto fare infinitamente di meglio, me ne rendo conto.

Ma direi che adesso è arrivato il momento di parlare, più nello specifico, di questa oscenità di questo capitolo.
Come vi avevo anticipato la volta scorsa (anche se dubito che ci sia qualcuno tra voi superstiti che lo ricordi), il povero Desmond non è stato l’unico a lasciarci le penne. Qualcun altro ci ha lasciato, e come avrete notato questo qualcuno è proprio nonna Vittoria.
Ora, io lo so che mi odiate, perché anch’io mi detesto per aver preso questa orribile, tremenda decisione, ma dovevo. Certo, nessuno stava qui a puntarmi una pistola alla testa, ma una parte di me ha sempre saputo che le cose non potevano andare diversamente. E mi piange il cuore, lo giuro, se penso che non potrò più scrivere di lei, delle sue sbroccature, della sua divertita disapprovazione nei confronti dell’incoscienza dei gemelli, del modo incredibile in cui riusciva a rimettere tutti in riga con quella sua personalità battagliera e incontrastabile. È un personaggio che, in particolar modo negli ultimi capitoli, ho amato e che spero di aver fatto amare anche a voi. Ha avuto i suoi memorabili momenti di gloria, e sono certa che sarà difficile dimenticarli. ♥

Quanto ai nostri sopravvissuti, personalmente ho molto poco da aggiungere. Posso dire, però, che scrivere dei loro sentimenti è stato veramente difficile, anche perché – per fortuna! – non ho idea di cosa si provi, di come ci si senta in delle circostanze tanto destabilizzanti, di quali siano i pensieri che attraversano la mente e di come si possa reagire a un tale dolore. Ognuno di loro lo affronterà in maniera diversa, assolutamente personale, anche se ancora non so precisamente quali saranno questi modi. Saranno loro stessi a suggerirmelo quando arriverà il momento di scrivere nuove – e, mi auguro, migliori – righe (spero molto, molto presto).
Proverò a mettermi al lavoro subito – sessione di aprile permettendo (anche se, in compenso, sto per finire il tirocinio... e allora mi toccherà iniziare a pensare alla tesi. #vdm). Il prossimo è un capitolo che già esiste nella mia testa e che adoro; il problema, come sempre, è riuscire a trovare un modo decente per trasformare queste idee in parole, e qualche volta capita che molta della magia si perda in questa trasposizione.

In teoria, anche stavolta non ho nulla da lasciarvi come anticipazione. Tuttavia, qualche tempo fa ho avuto un improvviso lampo di ispirazione e ho annotato una piccolissima scenetta, quindi penso proprio vi lascerò quella (anche se, ovviamente, non posso sapere se nella stesura finale rimarrà invariata o subirà qualche modifica; di base, però, dovrebbe restare immutata).

Detto ciò, ringrazio:

7_always_7AlileFreedomAngel_Maryaurora weasleyAzar, Beatris Humble, bridilepo, brunettes, Daniela_97, Deader, Delta_MiDoraBaggins, eott56, EzraScarlet, Fanny_Weasley, FedeSerecanie, Fenicestrega31367, FranChan, hufflerin, huntingwithwolvesIce_DP, JeckyCobainjuly95, KariWhiteKatherineThomas06, Krista Kane, ladyw, lulaan, maryanne armstrong, Meissa AntaresMichela_WonSik, Moon95Orma_, pintoisreal, Quella che ama i BeatlesSabry_Ace_Will_Never_Die, Secretly_SSoleil Jonestenna96, Tia Weasleyvalepassion95, Vivi_AB, WikiJoe, winterlover97Zvyagintsevaely, _LenadAvena_, _Sherry_, __Lunatica, che seguono la storia;

And RiddleEmmaDiggory15, feathersx, FedeSerecanie, Fenicestrega31367GoodbyeStregatto, JeckyCobain, Jilliana, lililisa_jb69, lolcioppiLollie, Martillaaa, MaryWeasleyMeissa Antaresorange_weasleyPretty_little_psychosara9703Shaula_alyssa, soxsmile, Spark_, sweet years_giuly_, Vivi_AB, Welcome to the darksideZarael_Lola_Uzumaki_, che hanno inserito la storia tra le preferite;

7_always_7, Azazel_Frederique Blackhuntingwithwolves, IpseDixit, Leeyum_isMyBatmanMaia3_93, maryanne armstrongmax85MelodySong99Orma_, che l’hanno inserita tra le ricordate;

La cara Angel_Mary, che ha recensito il capitolo precedente. ♥ E anche la cara Meissa Antares, che ha anche lei recensito il capitolo precedente, ma – siccome il mainagioia è perpetuo – l’ha fatto proprio in uno di quei giorni in cui – non so se lo sapete – c’è stato quel problema del disallineamento dei server, per cui la sua recensione è andata perduta e ancora non si sa quando – né se – verrà recuperata. Fortunatamente, sono riuscita a leggerla in tempo, e quindi non posso che ringraziarla delle bellissime parole spese. ♥

Per quanto riguarda, invece, gli immancabili credits: il titolo sono andata a pescarlo direttamente dalla 2x05 di Grey’s Anatomy, mentre la canzone che accompagna l’intero capitolo è anche per questa volta un pezzo dei Muse e si chiama Aftermath. ♥

Non mi resta, dunque, che salutarvi. Spero di tornare quanto prima possibile, e vi garantisco che ce la metterò tutta; nel frattempo, se volete farmi compagnia durante quest’attesa con i vostri sempre bene accetti (e fondamentali) pareri/consigli/commenti, sappiate che siete i benvenuti. ♥
Vi mando un calorosissimo abbraccio, e scusatemi ancora.

Con immenso affetto,
Jules  ♥


- Dal prossimo capitolo:
 
Quel giorno, però, George una cosa l’aveva imparata: mai lasciare la bacchetta incustodita se in casa si trova un piccolo criminale di dodici mesi assetato di caos e distruzione.
Non era stata una bella scena quella in cui lui e Abigail, terrorizzati, erano stati costretti a nascondersi dietro ai divani, onde evitare che una qualche combinazione potenzialmente letale di incantesimi lanciati da quel Signore Oscuro in miniatura li stecchisse.
Tenuti sotto ostaggio da un bambino di appena un anno: condizione tanto paradossale quanto terrificante e per niente auspicabile che forse, se qualcuno avesse visto quella scena dall’esterno, sarebbe riuscito a smettere di ridere solo una settimana più tardi.


«Ha finito?» aveva chiesto Abigail, speranzosa almeno quanto stravolta, udendo un improvviso e inquietante silenzio prendere il posto degli strilli divertiti di Alexander a ogni oggetto del salone frantumato.
George, occhi sgranati dal terrore, aveva annuito lentamente con fare incerto. «Forse.»
«Ho paura.»
«Anch’io, ma dobbiamo verificare» aveva osservato lui, ricevendo in risposta uno sguardo atterrito da parte della ragazza. «Calma e sangue freddo. Ci solleviamo un po’, con estrema cautela, e vediamo cosa sta succedendo.»
«Va bene. Se ha posato la bacchetta, tu te la vai a riprendere ed io, nel frattempo, lo distraggo da qui» aveva proposto Abigail, allora, ottenendo il suo consenso.
I due, quindi, dalla loro posizione accucciata, si erano poi messi in ginocchio e avevano raddrizzato la schiena, facendo spuntare pian piano le teste da dietro lo schienale del sofà. Con incredibile lentezza, avevano abbassato lo sguardo verso il pavimento, incontrando poco dopo gli occhioni azzurri e fin troppo malandrini di quel piccolo, spaventosamente dispettoso mini Fred, che non aveva perso altro tempo e aveva ricominciato a ridere sonoramente, agitando con gioia i pugnetti paffuti – che, disgraziatamente, tenevano ancora ben salda la bacchetta.
«GIÙ!» aveva subito urlato George, mentre afferrava Abigail per i capelli e la trascinava insieme a lui per terra, giusto in tempo per evitare che quel nuovo getto di luce li colpisse in pieno.
Lei gli aveva stretto un braccio e aveva sospirato flebilmente, mordendosi il labbro. «Moriremo tutti.»

 
   
 
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