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Autore: Tenar80    01/02/2019    2 recensioni
Corea 2018. Olimpiadi invernali.
Una leggenda alla propria ultima gara.
Un campione in cerca di conferme.
Un atleta di valore, di uno stato periferico.
Una giovane promessa alla propria prima olimpiade.
Il tutto complicato dai sentimenti, dallo scandalo doping, da un calendario gare studiato apposta per accanirsi sui pattinatori, dalle rivalità sportive e gli infortuni.
Genere: Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Stagioni'
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Eccoci con il terzo capitolo.
Tanto per cambiare, quando ho scritto questa storia non ho pensato a una divisione in capitoli, ma questa volta abbiamo delle scansioni temporali abbasatanza nette.
L'olimpiade vera e propria non è ancora cominciata. Eccoci all'ultimo giorno di preparativi, prima della partenza della gara a squadra e della cerimonia di apertura (che per qualche follia organizzativa è avvenuta a gare già iniziate).
Il capitolo è breve, ma è il respiro prima del grande tuffo.



   – Vai pure a pranzo con i tuoi compagni di squadra – disse Victor.

    Non lo voleva. Voleva mangiare con lui, sentirsi guardare come fosse il centro dell’universo e poi andare da qualche parte, soli, sdraiarsi con la testa sulle gambe di Yuuri e sentirlo leggere ad alta voce qualche poesia giapponese che non capiva. In modo da avere la scusa per chiedergli spiegazioni e sentire ancora il suono della sua voce.

    Passare anni nel cercare di aprilo al mondo e rimpiangere di esserci riusciti… L’amore non pensavo potesse rendermi meschino.

    – Ma figurati, poi possiamo andare un po’ in camera mia, Ken starà dal massaggiatore per un po’ – replicò Yuuri.

    – Grazie.

    Gli lasciò un bacio leggero sulle labbra.

    – Evitiamo di farlo davanti alla mensa, ti va? – gli chiese Yuuri.

    Victor seguì il suo sguardo.

    C’erano alcuni atleti russi che non conosceva, forse della squadra di hockey, a giudicare dalla stazza, che li stavano guardando come fossero due insetti orribili. Sospirò.

    – Non è solo per questo che ce l’hanno con me – disse. – Ma potresti aver ragione.

    – Come va la caviglia? – gli chiese Yuuri.

    – Zoppico?

    – Un po’, quando pensi che non ti stia guardando.

    Victor sospirò. 

    – Due microfratture – non era ancora del tutto abituato a questo aspetto della vita di coppia. Non essere  obbligato a mostrarsi sempre forte. – Ma è tutto ancora al suo posto e sembra reggere.

    – Stai scherzando?

    No, non avrebbe dovuto dirglielo. Yuuri sembrava sconvolto.

    – Te l’ho già detto. È il tuo fisico che non è umano. Alla mia età è il minimo. Dopo le olimpiadi dovrò fermarmi, tutto qui. Sono queste le mie ultime gare, invece che il mondiale. A Milano sarò al cento per cento il tuo allenatore.

    Yuuri sembrava sul punto di piangere. In mezzo alla mensa. Victor non aveva idea di come rassicurarlo. Abbracciarlo non era una buona idea, considerato il contesto.

    – Come posso aiutarti? – chiese invece il giapponese, cercando di recuperare il controllo su di sé.

    – Standomi vicino e non facendomi sentire troppo vecchio e ridicolo.

    – Victor, ti ho appena visto fare un salto che si riteneva impossibile, vecchio un corno.

    – Però non riesco a caricare bene sulla gamba destra…

    – Victor, sarai meraviglioso in gara.

    – Mah… Potrei essere davvero imbarazzante, domani, nel corto della prova a squadre. Forse per una volta dovrei preparare il piano b, nel caso sbagliassi un salto.

    – Non sbaglierai nessun salto, domani. E non cercare scuse per non far vincere l’oro alla tua squadra.

    Victor sorrise. Era bello crogiolarsi nell’ammirazione di Yuuri. Avrebbe voluto, però, che fosse un poco più giustificata.

    Proseguirono verso il pranzo. La logistica non era l’aspetto migliore di quell’olimpiade. Per carità, funzionava tutto ed era anche giusto, entro certi limiti, non dare un’impressione di opulenza agli atleti. Ma quel tipo di organizzazione finiva per ricordare troppo a Victor alcuni momenti della propria infanzia.

    Non ce la farei, senza Yuuri.

    Il cibo non era male. O, almeno, dopo l’allenamento era abbastanza affamato per non badarci. Si trovarono un posto tranquillo.

    – Qui non va bene – disse qualcuno, in russo, mentre Victor stava per sedersi. – L’odore di checca traditrice arriva fino al nostro tavolo.

    Victor si girò sforzandosi di sorridere e allo stesso tempo di mettersi tra Yuuri e l’interlocutore. Certo che quelli dell’hockey erano delle montagne umane. Quello, in particolare, era quasi dieci centimetri più alto di lui e a occhio pesava almeno il triplo.

    – Scusa? – disse.

    – Vai con la tua amichetta da qualche altra parte, Nikiforov.

    Ecco, quella era una situazione interessante…

    La verità è che non ho idea di come dovrei reagire.

    – Venite a sedervi, prima che si raffreddi tutto – si inserì qualcun altro, in inglese.

    Era Otabek, apparso chissà come proprio al suo fianco. Rispetto all’energumeno dell’hockey era comunque uno scricciolo, ma aveva quel fare da soldato che ha visto la morte in faccia in grado di mettere soggezione.

    – Arriviamo – gli disse.

    Salvato come una ragazzetta…

    – È per il bacio di prima? – mormorò Yuuri, mortificato, mentre seguiva Otabek.

    – No. Hanno le loro ragioni per avercela con me – sospirò Victor.

    Prima o poi dovrò imparare a pensare alle conseguenze dei miei colpi di testa…

    – Però fammi un favore, Yuuri. Non girare da solo per il villaggio olimpico.

    Se dovesse succederti qualcosa per colpa mia ne morirei.

     Otabek li scortò fino al tavolo che occupava insieme a Yuri. Da come questi li guardò non era per nulla contento del loro arrivo.

    Appestato. Bello scoprire il pieno significato di una parola…

    – Secondo me vogliono davvero tagliarti la gola, Victor, stessi in te starei attento – commentò Otabek, sedendosi.

    Victor si strinse nelle spalle.

    – Mi sono perso un passaggio – disse Yuuri.

    Il suo omonimo, invece, si era chiuso nel mutismo e mangiava come se non conoscesse i suoi compagni di tavolo.

    – Il casino del doping da quale laboratorio medico è partito? – domandò il kazako.

    Victor guardò intensamente il proprio piatto di riso.

    Potevi anche tacere, Otabek.

    – Da quello del medico che mi ha riempito di schifezze – disse Yuri, suo malgrado, quasi ragionando tra sé. – E la stessa persona che ha passato le mie analisi a Yakov…

    Alzò lo sguardo di colpo e Victor si preparò a una sfuriata.

    Invece il ragazzo aveva gli occhi spalancati, come se lo guardasse per la prima volta da tempo.

    – Ti ha quasi ucciso come atleta. – replicò Victor, rivolto al riso. – Hai fatto delle gare talmente imbottito di antidolorifici da non renderti conto del male che ti facevi. Ne ho visti abbastanza di fenomeni del pattinaggio costretti a ritirarsi dopo un paio di stagioni e non volevo che capitasse a te. Yakov non poteva esporsi, ma io ormai cosa avevo da perdere? Quindi ho denunciato il laboratorio all’antidoping… Certo non ho causato io tutto questo e non mi aspettavo che la Federazione Russa venisse di fatto esclusa dalle olimpiadi… Metà dei titolari dell’hockey non hanno potuto partecipare e il loro era un oro sicuro…

    Victor scosse il capo e tornò a guardare il proprio piatto di riso.

     Quella era solo una parte della storia. Quella che voleva, al limite, che gli altri conoscessero. Quella del Victor migliore. Che non era del tutto falso, ma era solo una parte del Victor reale. Con un brivido, ripensò alla sua casa di San Pietroburgo in quei terribili giorni dopo il mondiale. Alle fiale sul tavolo della cucina. Al se stesso diviso in due. Quello che fotografava e registrava le telefonate, curando di archiviare tutto e quello che pensava a come assumere quegli stessi farmaci senza che Yakov potesse sospettare… Allo sforzo di dirottare entrambe le parti di sé verso il frigorifero e una scelta alcolica che sembrava ancora la più sicura… 

    Erano stati quei documenti, le prove che quel medico aveva cercato di spacciare farmaci proibiti a lui, non a Yuri, che Victor aveva passato all’antidoping. Quello che aveva detto era vero. Yuri era stato avvicinato all’insaputa di Yakov, proprio come era successo a lui, ma Yuri era un ragazzo di sedici anni, terribilmente solo, la cui vita ruotava interamente intorno al pattinaggio e senza neppure le basi per capire i danni che stava procurando al proprio fisico. Ma sarebbe stato altrettanto vero dire che la sua era una vendetta personale nei confronti della federazione. Una vedetta in cui esiti erano diventati imprevedibili.

    – Victor… – la voce di Yuuri lo riportò al presente.

    – Si?

    – Ricordami di non farti mai arrabbiare davvero.

    Questo lo fece sorridere.

    – Non credo sia possibile – rispose.

    Che cosa ne sarebbe stato di me, se non ti avessi trovato al termine di quella strada?

    –Victor… – disse invece Yuri. – Mi aiuteresti con il libero?

*

    – Credo che il concetto che dovresti esprime sia la fiducia. L’affidarti in modo totale a qualcuno o a qualcosa, come un neonato con la madre.

    – Io non mi fido di nessuno – replicò Yuri.

    Che situazione del cavolo. Lavorare ancora in quel modo con Victor, come quando aveva quindici anni, era umiliante. Era troppo grande per aver bisogno d’aiuto. E poi Victor, che lo volesse o no, gli complicava sempre la vita. Persino con Otabek.

    – Si può sapere perché ci hai messo tanto a chiederglielo? Ha sempre voluto esserti amico – era sbottato il kazako, dopo pranzo.

    Lui aveva sbuffato, mentre uscivano dalla mensa. Gli scocciava dire che in realtà lo ammirava. E lo metteva a disagio. E lo faceva sentire inadeguato. E che le effusioni che si scambiava con Yuuri lo rendevano troppo consapevole del proprio corpo. E…

    – Non ti è ancora passata la cotta che avevi per lui? – aveva continuato Otabek.

    E lui era rimasto per alcuni secondi a guardarlo inebetito.

    – Eh? …Io non sono come lui.

    – Russo? Biondo?

    – Gay.

    Otabek lo aveva guardato come se avesse appena detto una barzelletta di pessimo gusto e Yuri aveva avuto l’istinto di graffiargli quella faccia troppo bella e sarcastica. Se ne era andato per non esplodere. Ed era finito a sentire il pippone sulla fiducia di Victor…

    – Non mi fido di nessuno – ripeté.

    Neppure di Otabek.

    – Infatti si vede come pattini – sospirò Victor. – Devi anche tornare anche a fidarti di te stesso e del ghiaccio, non puoi saltare avendo paura di cadere.

    Questo era un colpo basso.

    – Io non pattino…

    – Sì, lo fai. Ma ci siamo passati tutti, dopo il nostro primo infortunio serio.

    – Non è vero che capita a tutti.

    Ma a lui sì. C’era un momento preciso, nel programma libero, quando iniziava ad essere stanco, in cui era sicuro che avrebbe sbagliato l’atterraggio del salto. C’era una cosa che Yakov diceva sempre, in allenamento. Non si può aspettare di capire se il salto è venuto per preparare l’atterraggio. Se ci pensi, se ti fai prendere dal panico, sei già caduto. E il panico, nel libero, arrivava sempre. Se lo sentiva in tempo, semplificava il salto. Se arrivava un istante dopo, cadeva.

    – Ero nella stessa situazione durante la mia prima olimpiade – disse Victor. – A settembre mi ero rotto la caviglia, la prima volta che mi facevo male sul serio, ma ormai avevo recuperato del tutto. Avevo anche pattinato decentemente, ma arrivato a Torino non mi sono più sentito all’altezza delle mie prime vittorie, avevo il terrore di osare e farmi male di nuovo, paura di perdere Yakov. Ho pattinato da schifo, prego Dio che non ci siano i video su internet, e sono tornato a casa pensando di mollare tutto. 

    Yuri lo guardò scettico. Lo stava dicendo solo per farlo sentire meno male. Perché diavolo lo faceva? Non sarebbe stato più facile se Victor lo avesse trattato male e lui avesse potuto incolparlo di tutto?

    – Come ne sei uscito? – chiese, suo malgrado.

    – Ci ho messo un po’ – ammise Victor. 

    – E sei finito a letto con qualcuno per migliorarti l’umore – sbuffò Yuri.

    Se c’era una cosa sicura, con Victor, era che cercava sempre di risolvere tutto con sesso.

    – Sì, anche. Quello aiuta – ammise infatti l’atleta più anziano, con un lampo di divertimento negli occhi. – Sopratutto se è qualcuno di cui abbiamo stima a ritenerci desiderabili. Ma ho ragionato su me stesso e alla fine ho preso il cane. A lui non importa niente se pattino bene o male. Tutti abbiamo bisogno di qualcuno che si fidi di noi e di fidarci di qualcuno.

    Io ho perso anche la fiducia di mio nonno. O forse lui ha perso la mia. Perché persino lui può sbagliare. Ma, anche se sbaglia, non voglio comunque deluderlo.

    – E il qualcuno migliore che hai trovato è stato un cane? – la buttò sul sarcastico.

    Victor si strinse nelle spalle.

    – Mai detto di essere l’esempio migliore che puoi trovare. Solo che ci sono passato anch’io. Iniziamo?

    Yuri sbuffò. Ma il suo libero faceva schifo. Era una cosa oggettiva da cui non poteva nascondersi.

    – Ok.

    – Iniziamo con un esercizio semplice – propose Victor. – Ti lasci cadere all’indietro e io ti prenderò. Sai che lo farò. Tu intanto dovrai pensare a chi potresti affidarti, se dovessi cadere davvero.

    Yuri lo guardò scettico.    

    – Sicuro di reggermi?

    – Devi fidarti.

    Yuri sospirò.

    Si mise in piedi davanti al compagno di squadra. Chiuse gli occhi e… Rimase immobile.

    – Sto aspettando – disse dopo un attimo Victor.

    Lasciarsi cadere con la sicurezza di essere salvato… Ci sono persone che vogliono salvarmi. Yakov, il nonno… Ma io non voglio essere salvato… Forse preferisco essere solo…

    Senza pensarci davvero, si buttò all’indietro, ma di lato. Al diavolo tutto.

    Sentì una mezza imprecazione, ma due mani forti lo afferrarono sotto le ascelle.

    – Non ti lascerò cadere – gli disse piano Victor, all’orecchio.

    Perché, nonostante tutto, sento il bisogno di sentirmelo dire?

    

   
 
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