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Autore: Mercurionos    27/04/2020    2 recensioni
ULTIMO CAPITOLO: Alba e Cenere:
E lì, nell’ombra silenziosa e fredda,
sotto lo scampanellio della pioggia,
Vegeta volse lo sguardo alle proprie spalle,
e la vide.
L'Impero Galattico di Freezer, tirannico dittatore di tutto ciò che esiste: un periodo oscuro e inenarrato. Il rinnovato nucleo dell'impero attende tre guerrieri saiyan, gli ultimi della propria specie, predestinati a mostrare il proprio valore all'Universo. A partire dagli ultimi giorni del Pianeta Vegeta, fino a quel fatidico 3 Novembre, e oltre, nel massimo rispetto del magnifico Manga di Akira Toriyama.
Parte di "Dragon Ball: Sottozero", la vita dell'eroe che non abbiamo visto crescere.
Genere: Avventura, Comico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Freezer, Nappa, Nuovo personaggio, Radish, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Dragon Ball - Sottozero'
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Cuore Puro di Rabbia II – Febbraio/Marzo 765 del Calendario Terrestre
 
Erano ormai passati svariati giorni da quando Vegeta aveva lasciato la Terra: nei momenti in cui non si allenava, il saiyan prendeva in mano i controlli dell’astronave, spingendo il vascello per l’Universo in cerca di pianeti che conosceva, come anche di terre inesplorate. L’assidua ricerca di un obiettivo da raggiungere diveniva di giorno in giorno più difficile da sostenere e, dopo qualche settimana, smise di essere entusiasmante. Quando il sistema di bordo lo avvisava di aver rilevato un pianeta abitato, Vegeta decideva di raggiungerlo quanto prima, richiamato da una curiosità insita nel suo animo che mai seppe come giustificare: voleva sapere cosa ne era stato dell’Impero di Freezer. Ma ovunque lui andasse, incontrava sempre gli stessi volti, sentiva sempre le stesse storie e odorava la fragranza di qualcosa che non aveva mai posseduto davvero.
 
Ora che finalmente aveva ottenuto la libertà che per decenni gli era stata negata, non sapeva che cosa farsene. Una vita vissuta tra il bianco e il nero di ciò che Freezer gli aveva permesso di fare e pensare si era tramutata in un mondo vivo, pieno di colori nuovi, ma che non sapeva apprezzare. E così la sua quotidianità si colmava del grigiore che aveva contaminato la sua anima. Avrebbe potuto conquistare il potere con la forza, usurpare il trono che aveva sempre odiato, ma non lo fece. Non gli interessava, come del resto in modo analogo gli sembrasse privo di scopo qualsiasi pensiero avesse occupato la sua mente, in quel periodo. Su alcuni pianeti venne accolto come un semplice forestiero, mentre su altri, comprensibilmente, la gente fuggì non appena aveva visto la splendente armatura che portava. Cominciò a comprendere la voragine che separa l’essere temuti e l’essere odiati.
 
Perché mai Bulma aveva fabbricato quell’uniforme? Perché, dato che non gli piaceva, Vegeta non aveva esplicitato il proprio ribrezzo all’idea di indossare nuovamente l’abito che più gli sembrava una prigione di tessuto? Continuò a vagare di pianeta in pianeta anche in cerca di questa risposta, ma, dopo tanti tentativi, accettò la coscienza di non avere altro se quella divisa, quel simbolo che ormai non valeva più nulla. Perlomeno, in alcune città, dei folli paladini della giustizia e amanti della repubblica si offrivano come volontari per essere menati a sangue.
 
Forse, sotto sotto, covava in segreto il desiderio di trovare resti del suo popolo, qualche fiero saiyan che fosse sfuggito all’epurazione. Era pronto a raccontare ai sopravvissuti della sua lotta contro Freezer, di come finalmente il popolo saiyan avesse ottenuto vendetta, avrebbe potuto rivelare la verità sulla scomparsa del loro pianeta, e… E poi? Lo avrebbero ascoltato? Avrebbero gioito delle imprese del loro principe o lo avrebbero rinnegato? Forse vedendolo si sarebbero chinati tacendo, con gli occhi incollati al terreno. Sarebbe bastato così poco per ottenere il loro rispetto? Era rimasto qualcosa di ammirevole nel principe dei saiyan? Chiunque avesse vissuto abbastanza a lungo da ricordare le prime imprese del giovane Vegeta, si sarebbe anche ricordato di come l’immenso orgoglio del popolo, il prodigio della razza guerriera, fosse stato consegnato in mano al tiranno che li aveva soggiogati. Non era stato altro che un gioco lui, per Freezer. Vegeta IV, il principe dei saiyan, animale da compagnia dell’imperatore del cosmo.
 
Vegeta faceva sempre più fatica a prender sonno. Sudato, confuso, lanciava la bianca coperta giù dal letto, si levava la camicia di dosso, solo per ricoprirsi qualche istante dopo, assalito dal gelido brivido dei suoi ricordi. Continuava a chiedersi cosa mai potesse significare per lui essere un principe, se non il ricordo di un periodo di assoggettamento. Aveva osservato in silenzio suo padre mentre chinava tremolante il capo, quando per l’ultima volta gli aveva teso la mano senza ricevere risposta; aveva ascoltato indifferente la notizia riguardo la scomparsa del proprio pianeta; aveva permesso che i suoi compagni crollassero in un buio vortice di confusione e, quando ne aveva avuto la possibilità, aveva deciso di non aiutarli; aveva mandato Radish in una missione all’apparenza banale, ma che si era infine rivelata suicida; aveva abbandonato Nappa, il suo tutore, forse l’unica persona che davvero aveva tenuto a lui, nell’ombra del proprio disprezzo e del proprio disinteressamento; e infine, aveva concesso ad un guerriero di infimo livello, uno scarto gettato ai confini dello spazio, di superarlo e di impossessarsi della leggenda che tanto aveva sognato di incarnare.
 
Una notte, scrutando nell’oscurità del cosmo, Vegeta lasciò sfuggire tutti quei pensieri confusi dalla sua mente, sostituendoli con la figura che da quando era partito era sempre rimasta sullo sfondo dei suoi ragionamenti. Non riuscì a scacciare la viva immagine dei suoi occhi brillanti, della chioma che coronava il suo capo come le fronde di un albero agitato dal vento; la vedeva di fronte a sé, mentre si chinava in avanti in maniera provocante, come per ricordargli che era più alta di lui. Poi però se la immaginava accanto, coricata sul tavolino in quella posizione scomoda, mentre le sue labbra venivano accarezzate dal suo respiro, credette di sentire il profumo della sua morbida pelle. Vegeta non seppe come giudicare quegli scomodi pensieri. Era fuggito da Bulma nello stesso modo in cui stava fuggendo da sé stesso e, analogamente, sentiva la mancanza della terrestre nella medesima maniera in cui percepiva un vuoto dentro al suo cuore, un abisso che non comprendeva come colmare.
 
Vegeta si alzò. Era stanco, le sue membra tremavano esauste, ma decise di continuare con l’allenamento. Se non riusciva a prender sonno, tanto valeva irrobustire il corpo. Scese al piano inferiore della nave, poi scattò subito attraverso la stanza, invisibile. La furia e la sensazione di inadeguatezza in quei giorni gli davano la forza di perpetrare l’assurda routine, ma anche quella notte non poté non demoralizzarsi più e più volte nel folle inseguimento di Goku, quell’immagine che sempre si vedeva davanti, quel miraggio che ogni giorno gli appannava la vista e scombussolava i suoi pensieri. Poi vide nuovamente gli occhi della donna. I suoi muscoli si contrassero, confusi, Vegeta non seppe più controllare il proprio movimento, continuò a volare fulmineo per la stanza e l’inerzia ebbe la meglio, scagliandolo contro una parete. Vegeta si accasciò al suolo esanime, ma finalmente riuscì a concedersi un attimo di riposo.
 
“Figlio.”
Vegeta si voltò. Il fresco vento della sera attraversava dolce la sua chioma nero pece, agitandola come una fiamma ravvivata da nuova legna. Sgranò gli occhi, posando lo sguardo sullo scintillante castello, le sue immense torri, le cupole cromate, le guglie che s’incagliavano nel cielo.
“Perché sei ancora qui? È tardi, domani devi partire.”
Vegeta si guardò intorno. Il tramonto purpureo stava per svanire all’orizzonte oltre le rossastre alture di pietra. L’acqua del lago sotto di loro riposava tranquilla, accarezzata soltanto dalla miriade di lucciole che danzavano sulla sua superficie. Poi si voltò di nuovo, chiamato da quella voce familiare.
“Sii devoto al tuo compito.”
 
Incrociò lo sguardo dell’uomo che gli stava parlando. Alto, elegantemente agghindato in un mantello sanguigno, egli si abbassò per guardare meglio in volto Vegeta.
“Vieni. Non ti ho mai preso in braccio, da quando sei nato.”
Vegeta lasciò che l’uomo lo prendesse tra le mani. Venne sollevato da terra: l’uomo lo portò vicino al volto, osservando ancora una volta i suoi occhi lucidi e neri, poi lo mise a sedere sulla sua spalla sinistra, tenendolo saldo con una mano. Vegeta poggiò una mano sulla testa dell’uomo, affondando le dita nella capigliatura tanto simile alla propria. Restarono ancora a guardare l’orizzonte mentre il crepuscolo veniva sostituito dalle ombre della notte. Le stelle si presentarono nel cielo con la loro flebile ma eterna luce, coronando di scintille le lune del pianeta.
 
L’uomo riprese a parlare: “Vegeta, prestami ascolto: anche se il mondo intero dovesse mettersi contro di te, ricorda chi sei davvero. Tu sei il prodigio della nostra gente, qualsiasi cosa ti venga detto, tu sei l’immenso orgoglio del nostro popolo. Quando l’universo pianterà i piedi e ti assalirà, piegandosi al volere dei tuoi nemici, ricorda: sei il guerriero più spietato e temuto del cosmo, cinico, privo di compassione e, quando dovesse servire, sii malvagio. Non smettere mai di crescere, sii sempre la migliore incarnazione di te stesso e ricorda, sei il principe dei saiyan.”
 
Vegeta rabbrividì: ad un tratto gli splendidi colori della sera svanirono. Il terreno cominciò a tremare, a spezzarsi agitato da un’immensa furia; il palazzo stridette agonizzante, attraversato da lunghe incrinature si sfracellò al suolo. Il cielo si illuminò a giorno fenduto da titaniche fiammate e si tramutò in un galleggiante oceano di fuoco. Vegeta guardò in volto l’uomo che tanto gli somigliava, ma vide soltanto un guscio vuoto dal viso atterrito trasformarsi in polvere. Colonne di luce eruttarono dalla terra, squarciando il suo mondo; il balcone venne dilaniato dall’esplosione e Vegeta cadde all’indietro, cadde sempre più in basso, sempre più aggrovigliato in quell’oscurità che stava appannando la sua vista, poi dolore, stramazzò nel buio crollando sulla schiena, portò una mano al cuore e vide una cavità incunearsi sul suo petto, la mano si lordò di sangue, cominciò a sentire il suo gusto in bocca e cadde ancora, la sua testa toccò il terreno e finalmente si svegliò.
 
Vegeta balzò in piedi. A denti stretti esaminò con gli occhi offuscati dal torpore la navicella: era vuota, ovviamente. Poggiò una mano sulla parete, tentando di sorreggere le gambe attraversate da incontrollabili spasmi. Respirò, contrasse le guance e aprì la bocca, riempì sempre di più i polmoni fino a sentirsi scoppiare.
 
Poco dopo Vegeta riuscì a calmarsi. Diede un’occhiata all’orologio sul cruscotto della nave e decise che fosse arrivata l’ora di mangiare. Dentro di sé, e non vi diede troppo peso, ringraziò Bulma di avergli fornito tanto cibo. Restò per qualche minuto chino sul tavolo a guardare oltre le circolari finestre della navicella, meditando sulle immagini evocate dalla propria mente: gli aveva detto di crescere, ma proprio lui non lo aveva cresciuto, nemmeno gli era stata lasciata l’occasione di farlo. L’unico che gli avesse mai consigliato di migliorare, che gli avesse dato l’opportunità di combattere, l’infinita libertà che solo una gabbia dorata avrebbe mai potuto concedere, era stata anche la persona che più di tutte aveva odiato nella sua vita. Gli erano stati donati potere, autorità e rispetto al semplice e gravoso prezzo di un inchino. Vegeta si portò le mani alle ginocchia, ricordando le innumerevoli volte in cui queste si erano poggiate al terreno in gesto di rispetto, un ossequio falso e forzato che lui tanto detestava quanto l’altro lo adorava.
 
Ma non era il solo ad aver sofferto lo stesso destino. Un tempo, qualcuno gli aveva detto di essersi sottomesso per aver salva la pelle, proprio come aveva fatto lui stesso, ogni giorno lo aveva salutato con quel falso sorriso, aggredendolo con quelle occhiate vacue e penetranti. E Vegeta non era stato il solo bersaglio di quello sguardo. Voleva soltanto essere considerato un suo amico, dopotutto, e il saiyan aveva accettato.
 
Vegeta tornò alla console dei comandi dell’astronave. Il design scelto da Bulma e da suo padre non differiva tanto dalle leve e dai pulsanti che anni prima si era abituato a maneggiare. Non riuscì a trattenere uno stretto risolino, che in fretta tentò di cancellare dalle proprie labbra. Si sedette, impostò una nuova rotta, poi afferrò la manetta della velocità e la spinse in avanti, e il vascello svanì tra le stelle.

 
   
 
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