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Autore: Callie_Stephanides    17/07/2011    10 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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4.
Polvere al cielo

Colpa del fuoco, senz’altro delle lacrime: davanti alla pira di Lukas, le mie guance bruciavano e gli occhi erano pieni di aghi.
Per ogni scintilla che saliva al cielo, nel mio sguardo senza sguardo fioriva un ricordo: l’odore pungente di sole, polvere e sudore del nostro primo abbraccio si mescolava a quello dolce e stordente del bacio che mi aveva reso donna.
Un battito di ciglia e mi sembrava ancora d’essere la brutta bambina dalle trecce rosse che aspettava in finestra l’invasore.
Una lacrima e sognavo tra le sue braccia, i capelli sciolti come un tramonto tra fili d’erba.
All’improvviso mi pareva di aver vissuto un giorno solo, e quel giorno non mi era bastato. Avevo da poco superato la mia seconda decade, ma mi sentivo vecchia, perché l’amore saliva come polvere al cielo.
 
Immagina: per settimane hai spiato l’orizzonte oltre le guglie, sognando un letto di rose, e quel che resta è il lezzo ammorbante della carne bruciata.
 
Quell’odore mi rimase incollato addosso per giorni, come una maledizione.
Lukas era tornato dall’Eisenthar steso su una lettiga.
Il suo corpo, avvolto nelle pelli, era un fagotto informe.
Dissi mille volte a me stessa che no, non era lui.
Come me scossero il capo altre cento, mille donne, fedeli a uomini che non avrebbero più riabbracciato.
 
A darmi la notizia fu mio padre: mi chiamò nel suo studio, mi ingiunse di sedermi e poi me lo disse.
“Lukas è caduto, Leya. Si è battuto come un leone per Eleutheria, ma non è sopravvissuto.”
Aprii la bocca, ma non dissi niente.
Il mio volto non bello e non morbido divenne la maschera grottesca di uno stupore senza rimedio.
“È morto? Lukas non c’è più?”
Leonar abbassò lo sguardo, mortificato da un’impotenza di cui non aveva colpa: non puoi opporti al Destino, quando la clessidra piange l’ultimo grano. Quella di Lukas era piccola e delicata. Ne avevo inghiottita la sabbia a manciate, divorandola dalla sua bocca. Avevo preso tutto quel che poteva darmi e non ne avrei avuto ancora.
Non riuscivo ad accettarlo.
Cominciai a urlare: come un demone delle falesie, come una pazza, ossessa, disperata oltrepassai la porta di casa gridando.
 
Che il Cielo mi sia testimone, Dendre.
Che tu possa sentire il mio male e morirne avvelenata.
Maledetta, maledetta.
 
Imprecavo contro la dea, ma ero io a marcire, intossicata da un’infezione che non ammette conoscenza se non attraverso l’esperienza: la perdita.
Che vuol dire che un amore muore?
Che il tuo futuro sbiadisce. Che i tuoi sogni perdono colore. Che il tuo corpo non ha equilibrio, perché il desiderio di un uomo ha levigato ogni spigolo e ti ha reso incompleta nell’assenza.

 

Urlavo e mi stringevo con braccia che non mi avvolgevano come le sue. Il capo reclinato contro la clavicola, cercavo l’impronta di un odore che avrei perduto.
Avrei dimenticato la sua voce, i suoi colori, il suo sorriso. Poco a poco, forse, avrei ripreso a respirare, ma tutto quello che chiamavo vita saliva al cielo in un filo di fumo.
E io ero polvere.
 
Le fiamme trasformavano le lacrime in bave salate.
Pietrificata, non vedevo niente, se non l’ombra scura di un fantoccio che era stato un tempo un uomo.
Il mio.
La Capitale tutta era in lutto, ma il dolore mi aveva resa sorda alla compassione. Incredula e ferita, mi concedevo ancora il lusso di pensare che la morte fosse un affare personale, un oltraggio a Leya di Trier.
A restituirmi il senno fu mio fratello Rael.

*

Narratrice egoista e autocentrata, ho detto sinora di lui ben poco, consegnandolo alla storia come una creaturina poco graziosa, perseguitata da una sorella maggiore umorale e petulante.
È evidente, dunque, che la sua pagina debba ancora essere inaugurata.
Chi era davvero Rael?
Un dracomanno, potrei dire, e tanto basterebbe.
Rael non era uno di noi. A differenza di quanto Freil aveva sperato, affidandolo a mio padre quand’era ancora piccolissimo, non si sarebbe mai adattato del tutto alla vita di Trier: la voce del sangue gridava più forte di qualunque ingiunzione educativa.
Fino ai sette, otto anni, era stato un bambino silenzioso e passivo. Viveva in un mondo dal lessico segreto, aperto alla sola Melian. Mi amava – e come me amava Leonar – con una devozione dal sapore canino, ma sospetto che non ci abbia mai considerati la sua vera famiglia. Sapeva di essere un pezzo unico, ma questa consapevolezza, anziché renderlo rabbioso o insicuro, lo rafforzava. Era figlio di un nemico, ma Trier l’aveva accolto: per Trier era pronto a combattere e a morire.
Fu Ruben, un vecchio soldato amico di famiglia, ad accorgersi del suo incredibile talento bellico. Se ne stava in cortile a calibrare la gittata di una balestra a piè di capra, quando un dardo, accidentalmente, partì.
Rael ne interruppe la corsa, trattenendolo tra due dita.
“Ma… Come hai fatto?” gli chiese Ruben, che da veterano rotto a mille guerre era poco propenso a farsi impressionare dai pivellini.
“Io sento,” replicò mio fratello. “Sento l’aria, quando si muove.”
Ruben batté le mani come un bambino entusiasta di un nuovo giocattolo.
“E cos’altro sai fare?”
Mio fratello si strinse nelle spalle; lo sguardo vacuo abbracciava il cortile, senza indugiare su alcun dettaglio. “Catturo le rane. E i serpenti.”
Mio padre arrossì. Dopo una femmina bruttina e manesca, vantava un maschio strambo, caudato e sibillino: per essere un accademico stimato in tutta Eleutheria, non aveva avuto una grande fortuna con la prole.
“Davvero riesci a catturarli, Rael?” lo incalzò Ruben.
“Sì. Con una mano sola. Vuoi vedere?”
E fu così che guadagnò un maestro d’armi.
 
“Ma se sei tanto bravo,” esordii polemica qualche giorno dopo, gelosa dell’improvvisa popolarità del ranocchio di casa, “perché quando quel tipo ti ha tirato i sassi, le hai prese?”
Mio fratello portò su di me gli inquietanti occhi gialli e sorrise. “Perché c’era Melian. Non volevo farle male.”
Aprii la bocca, ma non dissi niente.

 

“Se vuoi, ora puoi provare a tirarmi una pietra.”
“Scusa?”
Eravamo seduti davanti alla porta di casa. Il cielo scolorava a ovest, annunciando la sera. Rael mi porse un grosso sasso.
“Ma…”
“Ti faccio vedere!”
Ero ancora una bambina, per di più curiosa. Se gli rompo la testa, pensai, potrei sempre dire che è stato qualcun altro.
Aspettai che mi desse le spalle – vigliacca fino in fondo – per caricare il braccio e lanciare il proiettile.
La coda di Rael, fulminea, frustò l’aria, trasformando la pietra in una pioggia di minuscole schegge.
“Hai visto?”
Avevo visto, ma non credevo ai miei occhi.
“Lo rifacciamo?”
 
Fu in quel momento, credo, che cominciai a comprendere come i nomi non fossero etichette ma storie. Non potevi mutarli in modo arbitrario, né mistificarli, perché la sostanza profonda sarebbe sempre riemersa.
Potevi chiamare un veleno profumo, senza che le esalazioni ti ulcerassero la pelle?
No.
Non potevi domare un dracomanno chiamandolo eleutheride. Non potevi incatenare Rael di Trier.

*

A tredici anni, mio fratello cominciò a crescere come se non dovesse più fermarsi.
“Freil era un bestione,” rideva mio padre. “Dovrò far allargare le porte.” C’era davvero tutto l’amore di un padre, in quelle parole, la fierezza di qualcuno che non imputava al sangue quel che toccava invece al cuore.
L’aveva cresciuto lui, Rael: era figlio suo.
“Sarà,” mugugnavo contegnosa, perché non volevo dargli la soddisfazione di capire che sì, anch’io ero fiera di essere sua sorella.
Quando se ne andava in giro per Trier, la spada sempre in spalla e la lunga coda scagliosa a spazzare il lastricato, non potevi fare a meno di notarlo. I suoi occhi gialli avevano qualcosa d’inquietante, ma su tutto vinceva la maestà di un corpo che stava sbocciando. Che si stava preparando alla guerra.
 
“Tuo fratello ha molte pretendenti, lo sai?” mi provocava Lukas – giocava con la mia gelosia di sorella, con il mio egoismo di sovrana di un castello di folli e di eroi.
“E chi lo vorrebbe? È un ranocchio!”
Invece diventava ogni giorno più bello, e lo sapevo.
I capelli neri, che gli arrivavano quasi al coccige, incorniciavano un viso affilato, dai lineamenti virili e decisi. Aveva un naso perfetto – lui – e quegli occhi straordinari possedevano il fascino pericoloso dell’inatteso. La sua pelle aveva un colore mieloso, che virava al bruno in corrispondenza della coda.
Le ampie placche cornee, che da bambino rendevano la sua schiena simile a quella di un rettile o di un anfibio, si erano come ritirate poco a poco, lasciando spazio alla muscolatura potente del lottatore.
 
Le leggende del mio popolo avevano coperto di orrore i dracomanni, accentuandone le peculiarità sino a farne dei mostri grotteschi. Quando vidi Rael e Vinus combattere dall’alto delle torri, il brivido di un piacere insano mi corse lungo la pelle: mio fratello e il mio peggior nemico meritavano sì di appartenere al mito, ma come le creature più belle dell’Eumene.
 
 
Rael era consapevole del suo nuovo status?
Aveva vissuto per tanto tempo ai margini, in fondo, che non poteva non notare il cambiamento.
I ragazzi lo salutavano con calore e gli si rivolgevano con deferenza. Le ragazze arrossivano o si slacciavano i corsetti, invitandolo maliziose a una guerra mille volte più spietata e pericolosa di un torneo.
“Ma tu guarda le galline!” sibilavo inviperita.
Lukas mi baciava la tempia, intrecciava i palmi ai miei, carezzandomi ogni falange, mentre mormorava a fior di labbra la verità. “Non è uno stupido, tuo fratello. Non è facile incatenarlo.”
 
No, non era facile, ma solo perché aveva già deciso di amare una sola volta e per tutta la vita.

*

Aveva sedici anni, quando me lo disse.
Fu l’unica occasione in cui mi chiese aiuto. L’ultima in cui mi permise di sentirmi la sorella maggiore.
 
“Come si conquista una ragazza?”
 
Il naso immerso in un paio di enormi tomi di mio padre, studiavo quanto, un lustro più tardi, avrebbe portato alla mia elezione come Makemagistra, signora dell’esercito e Primo Ygeo del Consiglio di Guerra.
Allora non immaginavo d’essere a un passo dal glythanium, la lega di adamanto e argento con cui avrei forgiato le corazze dell’armata della mia vendetta, né, probabilmente, avrei trovato quel dato rilevante, vista la domanda fraterna.
 
“Che?”
Rael – ormai una statua di carne di oltre sei piedi – sedette sul tavolo dopo aver spazzato via compassi, pergamene e calamo.
“Come ha fatto Lukas a baciarti?”
Aprii la bocca. “Scusa… Tu chi saresti?”
 
Da quando il ranocchio parlava di donne?
 
Rael mi fissò malissimo – occhi come i suoi sapevano come metterti a disagio.
“D’accordo, cominciamo dal principio. Di preciso, cosa vorresti da me?”
“Sei una femmina, no?”
“ Una donna, Rael. Se vuoi che una qualche poveretta ti prenda in considerazione, comincia a chiamarla come si deve.”
Rael roteò gli occhi. “D’accordo, sei una donna. Come ha fatto Lukas a conquistarti?”
Gli risi in faccia. Di gusto.
“Be’?”
Socchiusi le palpebre, intenerita. “Ma tu sei davvero convinto che siano gli uomini a conquistare le donne?”
Rael aprì la bocca, per non dire niente.
“La fortunata?”
Era una domanda retorica: forse lo immaginavo dai giorni in cui, tra le braccia di Luthien, si contendevano i baci della cuoca.
“Melian.”
“Banale. Hai poca fantasia come nostro padre.”
Incerto sul tenore della sentenza, Rael mi fissava pieno d’ansia.
“La prossima volta, al fiume… Non parlarle di rane, ma baciala, stupido. Non aspetta altro.”
 
E poi anche Rael partì: non lo fermò il solido buonsenso di Leonar, né vinsero le lacrime della sua donna.
A minacciare la nostra pace era un dracomanno? Ebbene: un dracomanno avrebbe combattuto per noi.
 
All’epoca Rael era troppo giovane per mettere in difficoltà uno come Vinus – più vecchio, scaltrito, rovinato dalla guerra – eppure trovò il modo di farsi notare dal terribile principe bianco.
Sebbene quella campagna ci avesse visto soccombenti, rappresentò per mio fratello un clamoroso successo personale: fu lui, nei fatti, a uccidere Gordon, il Drago Nero.
Quel che non poteva immaginare, né avrebbe potuto anticipare alcuno, è che la rabbia di Vinus sarebbe esplosa da quel momento in poi letale e incontrollata.
 
Gordon non arrivava al mezzo secolo, quando morì. A vincerlo, prima ancora dell’eccezionale abilità guerresca di Rael, la sorpresa di aver incontrato un fantasma sul campo di battaglia, tanto mio fratello somigliava al vero padre.
Per Vinus, Gordon era tutto: gli si era aggrappato con l’ansia disperata di un cucciolo; gli aveva obbedito persino quand’era evidente che gli apparteneva un potere mille volte più distruttivo.
Non voleva essere un principe: si accontentava di avere un padre.
 
Come il corpo di Gordon cadde nella polvere, Vinus gli fu sopra, mosso dall’ansia di trarlo in salvo. Non appena realizzò, nondimeno, che il suo spirito era stato restituito ai draghi, gli sfilò l’elmo e lo indossò.
“Il Drago Nero non muore mai,” ruggì, lanciandosi di nuovo nella mischia.
Due giorni più tardi avrebbe ammazzato Lukas.

*

Davanti alla pira del mio uomo, memorie e rimpianti mi sferzavano senza pietà.
Preferivo morire e spegnermi, che non vivere un’altra ora di quell’agonia.
Rael, tuttavia, s’inginocchiò al mio fianco e mi porse un pugnale. Lo guardai con gli occhi pieni di lacrime, senza capire.
Mio fratello mi offrì la gola. “Vendica Lukas con il sangue di un dracomanno.”
Gli tremava la voce, ma non si mosse.
L’arma nella mia mano pesava come non aveva mai pesato nulla prima. Chiusi gli occhi e sospirai: solo allora lasciai cadere il taglio. La prima ciocca non toccò neppure terra, dispersa dal vento della sera. La seconda bruciò con i resti mortali di Lukas. La terza si accese come una stoppia fumante. Infine smisi di contare, ma non di tagliare.
 
Rael mi fissava inorridito, mentre mi privavo della mia unica bellezza con diabolico accanimento: non poteva immaginare cosa il suo gesto mi avesse svegliato dentro.
Era mio fratello ed era pronto a regalarmi la vita.
La mia gente piangeva, ma non me n’ero accorta.
Un intero mondo era condannato, eppure mi compiangevo.
 
“Che fai, Leya?”
 
Dalla cute tagliata sgorgava sangue; scivolava lungo le guance, sostituendosi alle lacrime. Fissavo la pira con occhi nuovi – occhi asciutti.
Avevo perso l’amore ma guadagnato una missione.
 
“Lukas di Kimali, ti piango e m’incateno a te per la vita e per la morte. Con un giuramento ti onoro e ti saluto, fratello e sposo: io, Leya di Trier, avrò il cuore del Drago. Io, Leya di Trier, restituirò alle falesie i suoi demoni. Io, Leya di Trier, ripudio il mio ventre e mi consegno di nuovo vergine al Collegio.”
 
Delle tre promesse che feci allora, solo le prime due trovarono compimento.
La terza, lo so, mi è stata perdonata.
 
Una settimana più tardi, il petto bendato, la testa nuda e addosso un sacco informe, attraversai Trier perché tutta la città mi vedesse e fosse testimone del mio sacrificio.
Avevo rinunciato a essere una donna. Come figlia di un Ygeo, avevo per sangue il diritto di sottopormi all’esame dei Decani.
Lo superai.
A ventiquattro anni, ero una Ygeia come sognava mio padre e, assumendo il controllo dell’oligarchia di Trier (io, una donna), inauguravo il Secondo Evo.
Il capitolo più sanguinoso della nostra storia.

   
 
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