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Autore: IoNarrante    28/02/2013    13 recensioni
Ven, aspirante avvocato, ragazza determinata, ligia al dovere, trasferitasi a Londra con un unico obiettivo: diventare socia di uno dei più grandi studi legali della capitale.
Il sogno per cui ha lasciato la sua famiglia a Tivoli, salutato tutti i suoi amici, riducendosi a vivere in un piccolo monolocale vicino a Regent Park.
La fortuna però gira dalla parte di Ven, perché le verrà affidato un caso importante e allo stesso tempo spinoso, che la costringerà a collaborare con un avvocato brillante e terribilmente sexy ma che allo stesso tempo rispolvererà alcune sue vecchie conoscenze.
Non è necessario aver letto Come in un Sogno
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Se il Sogno chiama...'
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CAPITOLO 16

betata da nes_sie

Mi svegliai sul divano del salotto, con alcuni pop-corn incollati alla perfezione sulla guancia, quasi come tatuati, feci colazione e mi vestii per andare al lavoro.
La bufera era passata, anzi, sembrava non ci fosse nemmeno stata.
I Bobcat spalavano la neve ad un ritmo costante, liberando le strade della capitale inglese. Tutto funzionava alla perfezione.
Passai davanti alla stanza di Simone. La porta era ovviamente sigillata.
Né Celeste, né Leonardo erano rincasati a causa della tempesta. La mia migliore amica non mi aveva fatto sapere più nulla e sperai che avessero trovato una qualche sistemazione, anche improvvisata.
Invece tu te ne sei stata al calduccio, nevvero?
Il mio Cervello, di prima mattina, sapeva essere tedioso come pochi. D’accordo, era impossibile rimuovere ciò che era successo la notte prima, quello che aveva fatto.
Avevamo…
Sì, giusto. Quel “noi” che mi perseguitava.
Strinsi il colletto della camicia con forza, mi aggiustai la gonna, mentre l’odore del caffè riempì la cucina. Ero in orario. Presto mi sarei diretta verso l’ufficio della Abbott&Abbott e avrei inseguito il mio sogno.
Con la S minuscola.
Erano finiti i tempi dei giochi. Quella sera avevo oltrepassato un limite che mai mi sarei aspettata di varcare ed era arrivato il momento di metterci una bella pietra sopra, un freno.
Prima che fosse troppo tardi.
Feci colazione e ricontrollai i documenti che James mi aveva chiesto di esaminare durante le vacanze, poi vidi gli appuntamenti nell’agenda.
I passi di Simone riecheggiarono nel corridoio facendomi venire la pelle d’oca.
Non riuscii ad alzare lo sguardo dal telefono. Avevo paura che se avessi incontrato di nuovo quegli occhi, i miei buoni propositi sarebbero sfumati.
Lui d’altro canto non disse nulla. Si limitò a circumnavigare l’isola della cucina e tirò dritto verso il caffè, versandosene un po’ nella tazza.
Lo sciabordio del liquido versato fu l’unico rumore che si udì nella stanza.
Cercai di concentrarmi sul meeting che avrebbe avuto luogo quella mattina stessa, prima del nuovo anno. Affrontare il 2013 senza essere nemmeno riuscita a riesaminare il caso, non era certo una buona prospettiva.
Inoltre, era chiaro come il sole che Mr. Abbott aveva la chiara intenzione di stracciare St. James accaparrandosi il Caso dell’anno – qualora fosse stato reso noto.
Un brivido mi attraversò la schiena.
Quella mattina avrei incontrato il mio collega, nonché ex-presunto-fidanzato, e con quale faccia sarei riuscita a parlargli?
Il suo braccialetto è ancora nella sala hobby, dopo che te la sei svignata mentre il bello addormentato sonnecchiava.
Sentii la gola improvvisamente ricoperta di sabbia.
Ci eravamo addormentati dopo averlo fatto, lì, su quel divano di fronte al fuoco che stava lentamente spegnendosi. Verso le due del mattino, mi ero svegliata e mi era sembrato più che logico tornarmene nella mia “stanza” provvisoria.
Simone aveva fatto lo stesso.
Se Celeste e Leonardo fossero tornati all’improvviso, cosa avrebbero detto altrimenti?
E così me l’ero svignata di soppiatto neanche fossi stata l’amante di qualcuno.
Posai il cellulare sul ripiano della cucina e cominciai a cercare il mio mazzo di chiavi, per poi uscire dalla porta dritta filata, senza nemmeno alzare lo sguardo.
«A che ora torni?» mi chiese lui con noncuranza.
Cazzo.
Perché se ne usciva con quelle domande idiote proprio quanto stavo facendo di tutto per evitarlo?
Frugai nella ciotola delle chiavi, facendo volontariamente rumore.
«Non lo so,» risposi distrattamente. «Ho una riunione.»
Sperai che non indagasse ancora, altrimenti avrei ceduto. Era maledettamente difficile comunicare con qualcuno senza guardarlo negli occhi.
Quegli occhi che mi avevano bruciata viva.
«Mh…» sbuffò e lo sentii succhiare volontariamente il caffè dalla tazza.
Alle volte si comportava come un bambino, senza alcuna difficoltà. Inoltre, quelle maledette chiavi non ne volevano sapere di essere trovate.
«Le tue chiavi sono lì,» disse Simone improvvisamente.
D’istinto, senza riflettere, alzai lo sguardo su di lui e lo vidi indicarmi il divano. Il mazzo di chiavi era finito tra le pieghe dei due cuscini e non lo avrei trovato nemmeno volendo.
Ciò non toglieva nulla alle iridi del calciatore che ora mi scrutavano soddisfatte.
«Che vuoi?» risposi brusca, afferrando il mazzo con una mano e la valigetta con l’altra.
Ora mancava soltanto il cappotto e sarei stata libera.
Lo indossai proprio quando Simone iniziò a mangiare un Ringo. Dio, soltanto lui poteva mangiare un dannato biscotto in quel modo.
Guardò prima il biscotto con attenzione, quasi contemplandolo, poi fece un po’ di pressione, ruotandolo leggermente, e separò le due metà. Mangiò subito il biscotto senza ripieno, leccandosi le labbra e godendo di quel piccolo piacere.
Dannato, dannato, dannato!
Quel piccolo infido maledetto bastardo sapeva che lo stavo guardando! E stavolta non si trattava nemmeno di un sogno.
In seguito si dedicò all’altra metà del biscotto, leccando via tutta la cioccolata e sporcandosi gli angoli delle labbra. Quando passò al secondo dolce, decisi che o me ne sarei andata di lì in fretta e furia, oppure tanto valeva che chiamassi l’ufficio.
«Nemmeno saluti?» commentò, non appena posai la mano sul pomello della porta.
Ero rigida come un pezzo di ghiaccio. «A dopo, ciao,» tagliai corto.
In un soffio mi fu dietro. Sentii lo spostamento d’aria e quel suo profumo che mi riportò a quella notte appena passata senza nemmeno bisogno del teletrasporto.
Simone mi voltò con impeto, bloccandomi ogni via d’uscita.
«Intendevo un saluto come si deve,» ghignò, carezzandomi il labbro inferiore con il pollice.
Voleva che facessi la prima mossa. Subdolo figlio di puttana.
E poi lo sguardo mi cadde su quelle macchie di cioccolato all’angolo della sua bocca. Ne aveva anche un po’ sul mento.
Fu quel particolare che mi fece perdere del tutto la ragione.
Al diavolo il lavoro, al diavolo la riunione, chissenefrega di Celeste o Leonardo, oppure di James che mi avrebbe giudicata. Poco m’importava.
Con una lappata gli portai via la cioccolata sul mento, poi mi appropriai di nuovo delle sue labbra.
Riuscii ad arrivare allo studio con dieci minuti di ritardo.
Ed eri in orario.
 
«Passate bene le vacanze?» trillò la voce acida ed odiosa di Yuki.
Per l’occasione, indossava una gonna a scacchi rossa e una camicetta bianca. Sembrava appena uscita da un manga.
«Benissimo,» le risposi.
James mi affiancò subito, salutando la giapponese e richiedendo immediatamente la mia presenza con la massima urgenza. Cosa aveva da dirmi?
Un “bip” mi avvertì del messaggio appena ricevuto sul cellulare. Ebbi il tempo di leggerlo appena prima di entrare nell’ufficio di James.
 
stamattina ti sei fatta perdonare.
sappi che nessuno molla simone sogno sgattaiolando alle due del mattino.
 
-simonator
 
Rimasi allibita. Era davvero così cretino?
Ma soprattutto, si era davvero firmato Simonator?
Pregai tutti i santi in paradiso che avesse sbagliato numero, poi nascosi il cellulare in fretta e furia prima che James se ne accorgesse. Ci mancava solo una brutta figura con lui.
«Come va?» mi chiese sorridente, scartabellando tra alcuni fogli.
Feci spallucce. «Bene.»
Considerando che hai appena fatto sesso con colui che dovresti difendere.
Si udì un fruscio di carta. «Hai passato al meglio il Natale? Io a Liverpool mi sono annoiato.» Sghignazzò. «Quando si ha una famiglia numerosa, è sempre un gran trambusto.»
Oh, lo so benissimo.
Visto e considerato che casa Sogno era stata invasa da tutti i suoi elementi in una sola giornata.
«Già. Comunque è andato tutto benissimo, grazie.»
«Sono contento,» sorrise.
Quel gesto mi scaldò il cuore. Per quanto odiassi me stessa per quei pensieri così puerili, per quel comportamento che lentamente mi stava facendo somigliare alle persone che più odiavo al mondo, mi ritrovai a pensare quanto James fosse importante per me.
E molto.
Un altro “bip” mi riportò alla realtà.
 
quando torni, prendimi una ciambella.
 
Perlomeno questa volta non si era firmato. Un notevole passo avanti.
Mi sentii in dovere di rispondergli un Non sono la tua serva. Scendi e compratele da solo. quando la segretaria ci annunciò che la riunione stava per iniziare.
Bene. Almeno avrei avuto la scusa per spegnere il cellulare.
Mr. Abbott era già nella sala, mentre all’appello vidi che mancavano alcuni soci importanti dello studio. James mi aveva detto che era di routine fare un meeting prima del nuovo anno, una sorta di bilancio del 2012 che se ne andava.
«Accomodatevi,» ci disse il signor August, rivolgendo un sorriso bonario al nipote.
Nervosa mi sedetti vicino a James, senza proferire parola.
Non avevo idea degli argomenti che sarebbero stati trattati, eppure mi sentivo come se stessi affrontando uno degli esami di Sheperd, a Cambridge.
«Siamo in attesa di Mark e Carl,» sorrise Mr. Abbott. «Nel frattempo, posso chiedervi come sta andando con il caso di Mr. Sogno. Ci tengo particolarmente, visto che Marco è un mio carissimo amico, anche se non lo sento da tempo.»
E ci credo bene. Non sapeva nemmeno che suo figlio fosse citato in giudizio!
James prese la parola. «Miss Cloverfield ha fatto sapere, tramite il suo avvocato, che non intende scendere ad alcun tipo di patteggiamento. Ha detto che vuole la paternità del piccolo e ha aggiunto che Mr. Sogno deve prendersi la responsabilità di ciò che ha fatto.»
Rabbrividii.
Lentamente la possibilità che Simone fosse davvero il padre del bambino cominciò a insinuarsi dentro di me, facendomi tremare.
Dovevo tagliare i ponti il più presto possibile. Ero ancora in tempo, in fondo avevamo scopato solo una volta.
Ecchessaràmai!
Mr. Abbott annuì pensieroso. «Mh, capisco. C’era da aspettarselo,» commentò, poi alzò quegli occhi azzurri su di me. «Lei cosa ne pensa, Miss Donati. Come dovrebbe agire lo studio?»
Ed ecco la mia occasione.
C’era chi aspettava da una vita di riceverla, chi ci sperava ogni giorno. Prima facevo parte anche io di quella cerchia. Finalmente era giunto il momento per riscattarmi, ma era caduto nel periodo sbagliato. Proprio quando le “vacanze” mi avevano portato via del tempo per rivedere gli appunti.
«Beh…» arrancai, cercando James. «Miss Cloverfield è stata chiara. Non credo si possa giungere ad un accordo.»
«Questo lo sapevamo, vada avanti,» mi spronò l’avvocato.
La verità era che non sapevo cosa dire. Gli avrei potuto raccontare dell’arrivo di Celeste, del timballo di melanzane di nonna Annunziata, della quantità infinita di Barbie di Susanna e di quanto fosse bella Londra dalla ruota panoramica.
Del caso, invece, sapevo poco e niente.
«Forse…» tentò di salvarmi James in corner.
Mr. Abbott alzò una mano interrompendolo. «Lascia parlare la ragazza,» s’impose.
E il silenzio ripiombò nuovamente nella sala riunioni. Mi sentii come quando fui interrogata per la prima volta, alle elementari. Avvertii lo stesso groppo alla gola, le parole che si aggrappavano alla faringe senza riuscire ad uscire.
Potevo anche dire addio al posto nello studio, ora.
«August, eccoci,» disse Carl, salvandomi.
I due soci arrivarono proprio nel momento adatto, distraendo Mr. Abbott e facendogli momentaneamente perdere la concentrazione. Avvertii immediatamente la mano di James stringersi alla mia e infondermi forza.
Era fredda.
Dopo qualche secondo non riuscii più a sopportarla.
«Vado un attimo alla toilette,» gli sussurrai, a riunione iniziata.
James annuì distrattamente, troppo concentrato ad ascoltare ciò che i suoi colleghi avevano da dire sul piano annuale dello studio.
Corsi a perdifiato per l’edificio, alla ricerca di ossigeno. Scesi le scalette e mi riversai in strada, sentendo un forte peso che mi opprimeva il cuore.
Caddi sulle ginocchia, con le calze di nylon a stretto contatto con la neve fredda.
Cercai il cielo solo per sfuggire da quella morsa che lentamente mi stava offuscando anche la vista. Avevo rischiato troppo per la mia negligenza. Lentamente e senza quasi accorgermene stavo mandando a rotoli tutto ciò per cui avevo lavorato con tanta fatica.
Per cosa poi?
Nemmeno una relazione seria sarebbe valsa il sacrificio. Quella con James non era nemmeno cominciata e con Simone… era solo sesso.
«Ehi…»
Una voce familiare mi riportò alla realtà, così alzai lo sguardo e trovai gli occhi azzurri della mia migliore amica.
«E voi cosa ci fate qui?»
Leonardo rispose per lei, sorridendo. «È da quando siamo arrivati che vuole vedere dove lavori. Visto che il locale di ieri sera era qui vicino, ce l’ho portata.»
Ovviamente.
«Che bella sorpresa, non sapevo conoscessi l’indirizzo dello studio,» dissi, rialzandomi in piedi e aggiustandomi il tailleur.
Celeste sorrise. «Infatti, non lo sapevamo, ma abbiamo incontrato Simone da Starbucks, che comprava una ciambella.»
Che fortuna sfacciata.
«Eccolo che arriva,» sbuffò Leonardo, con le mani in tasca.
La mia migliore amica mi fissò con occhi brillanti. «Ci ha accompagnati fin qui, è stato carino. no?»
«Adorabile,» grugnii scettica, mentre il sorriso di quel demente si allargava da orecchio a orecchio.
Simone fece il suo solito ingresso trionfale, col petto in fuori e quell’espressione sul viso che diceva solamente “ammiratemi”.
Che razza di pallone gonfiato.
Mi fissò con sufficienza, ingurgitando la ciambella da cui uscivano chili e chili di burro. Ma dove metteva tutta quella roba?
«Alla fine sono dovuto uscire,» bofonchiò acido.
«Ti facesse male…» borbottai.
Neanche l’avessi programmato, non appena fummo tutti impalati di fronte al mio ufficio, sentii la porta cigolare e un paio di scarpe eleganti che si muovevano frettolosamente sul selciato. Mi voltai e James mi restituì uno sguardo preoccupato.
Non disse nulla. Aveva visto Simone.
«Ero venuto a vedere come stavi,» sospirò, cercando di ignorare il calciatore. «Sei scappata via nemmeno la stanza avesse cominciato a bruciare.»
Avvampai di colpo. Non mi ero resa minimamente conto dell’effetto che avevo dato scappando via così, magari Mr. Abbott c’era rimasto di stucco.
«Avevo bisogno d’aria,» risposi.
«Tu devi essere James,» disse Celeste, avanzando di qualche passo e tendendo la mano al bell’avvocato. «Ho sentito un tuo messaggio in segreteria.»
Da gentleman qual era, James si fiondò a stringere la mano alla mia migliore amica, sorridendole con garbo. Più lo guardavo e più sembrava un uomo d’altri tempi.
«Piacere mio,» sorrise, mentre Leonardo lo linciava da lontano. «Tu sei…?»
«Celeste, la migliore amica di Ven,» sorrise, lanciandomi uno sguardo furbo.
Vidi i due cugini Sogno sul ciglio della strada innevata. Stavano mangiando le rispettive ciambelle con sincronismo e non la smettevano di fissare James con l’aria di chi lo avrebbe ucciso a morsi. Quei due erano terribilmente simili, mi trovai a pensare, ma non mi sarei mai azzardata a dirlo ad alta voce, altrimenti avrei scatenato l’inferno sulla terra.
Leonardo si decise a muoversi. «Io so’ Leonardo. Er ragazzo suo,» grugnì in un forte accento romano.
James ci mise un po’ a decifrare, ma tutto sommato capì. Era un uomo dalle mille risorse.
«Oh, sei l’altro calciatore!» disse innocentemente.
Simone sghignazzò, mentre Leonardo diventò davvero color aragosta. Decisi di intervenire prima di ritrovarmi senza un avvocato che potesse spalleggiarmi durante il caso Sogno-Cloverfield.
«Dobbiamo tornare in riunione, ci vediamo a casa,» dissi, prendendo James sottobraccio. Quel mio gesto non sfuggì allo sguardo scuro di Simo.
S’irrigidì tutto d’un tratto ed io provai un profondo brivido, come se mi sentissi in colpa.
Okay, avevamo fatto sesso una volta – forse due –, e il nostro rapporto si era evoluto, ma nessuno aveva parlato di legami.
Eppure sentivo come un fastidio.
Ignorai Simone e salutai la mia migliore amica, tornando a lavoro.
Dovevo darmi una svegliata, altrimenti c’era il rischio che davvero mettessi in secondo piano il lavoro. Prima c’era stato James a distrarmi, ora Simone. Si rincorrevano l’un l’altro nei miei pensieri, mandandomi ai pazzi.
Li lasciai a guardarmi rientrare lì nel vicolo, su un marciapiede sporcato dalla neve di quella notte. Una notte che difficilmente avrei dimenticato.
James si fermò nell’atrio. «Dovremmo parlare,» disse ed io rabbrividii.
«Mi servirebbe un incontro con Mr. Sogno. È arrivato il momento di rimboccarci le maniche e lavorare sul serio, fino a tardi, coi libri del college sotto mano. Non ci hanno ancora fissato il giudice al processo, ma penso che col nuovo anno arriveranno altre brutte notizie.»
Feci un mentale sospiro di sollievo, perché James si riferiva al caso, ovviamente.
«Hai ragione. Le cose mi sono sfuggite di mano ultimamente.»
Diciamo che di mano, non ti è sfuggito poi tanto.
James sorrise. «Non preoccuparti, è vacanza. Ti capisco,» mormorò, gentile come sempre. «Però ho come la vaga impressione che Mr. Sogno abbia una certa confidenza con te, forse sarei di troppo?»
Deglutii a fatica. «Macché!» sbottai, mettendo le mani avanti. Possibile che avessi scritto in faccia “Hofattosessoconuncalciatore”? «Figurati se io e quello lì potremmo mai andare d’accordo.»
Fuori dal letto.
Sì, nessuno è perfetto.
«Okay, mi fido,» sorrise, posandomi una mano sulla spalla.
Sembrava imbarazzato, come se volesse dirmi qualcosa ma non sapeva se fosse il momento o il luogo adatto. Gli afferrai gentilmente il polso.
«C’è qualcosa che vuoi chiedermi?» lo incitai.
James sgranò quei grandi occhioni blu che mi fermarono il cuore. «Beh, veramente…» soffiò imbarazzato. Era raro che perdesse il controllo. «La notte di San Silvestro, mia zia organizza un party. Zio August mi ha chiesto se volevo invitarti e beh…» temporeggiò ancora.
L’ossigeno sparì in tre nanosecondi.
«Io vorrei invitarti,» concluse, fissandomi serio.
Mayday, mayday, mayday. Schianto previsto tra un minuto.
Non sapevo cosa dire, né cosa rispondere. Celeste stava organizzando quella notte da tempo, erano addirittura rimasti intrappolati in quel disco-pub pur di andare ad informarsi, con Sofi, ed ora io mi trovavo ad un bivio.
Sapevo che Simone non aveva alcuna voglia di passare il Capodanno fuori, non ora che non poteva trombarsi tutto ciò che si muoveva, ma non avevo idea di quali fossero i suoi programmi.
Davvero ti interessa?
No.
Bugiarda.
«Volevo passare il Capodanno con Celeste. Lei il giorno dopo tornerà a Roma,» spiegai, cercando di non ferirlo.
James abbassò lo sguardo. «Capisco.» Poi cercò di nuovo il mio. «Nel caso potremmo raggiungerli verso le ventidue, così abbiamo la scusa perfetta per mollare la noiosissima festa di zio August.» E sorrise.
Bellissimo.
Non potei fare a meno di vedere soltanto lui in quel contesto. «Perfetto. Allora possiamo andare alla festa dai tuoi, poi passare dai miei amici,» ricapitolai.
Soltanto dopo averlo detto, mi accorsi che suonava molto da fidanzatini. Ormai era troppo tardi per tirarsi indietro.
Il sorriso di James mi scaldò il cuore. «Sarà una serata stupenda,» poi aggiunse sotto voce. «Perché ci sarai tu con me.»
Ven, sei una zoccola.
Amen.
 
La trama fitta della carta da parati non era mai stata così interessante come in quel momento. Avevo sparsi sul divano tutti i fogli riguardanti il caso di cui dovevo occuparmi, compresi i file di Miss Cloverfield che James si era fatto passare dal suo avvocato.
Ovviamente il compromesso ormai era da escludere. L’importante sarebbe stato arrivare al processo senza ulteriori scandali, sia per la carriera della ragazza che per quella di Simone.
Se non si fosse raggiunto un accordo, ci sarebbe stato il test del DNA. Era l’ultima spiaggia a cui potevamo appellarci e sia io che James contavamo sulla risoluzione del caso molto prima di quell’asso nella manica.
Persa in questi pensieri, mi ero ritrovata a fissare i ghirigori della carta da parati e a riflettere su quanto era successo in quegli ultimi giorni.
C’era stato un bacio, poi un altro, infine c’era stata una pioggia di baci, carezze, effusioni. Infine c’era stato il sesso.
Ora però mi trovavo schiacciata tra due fuochi, senza avere la minima idea di cosa fare. Ero partita dall’Italia con la chiara intenzione di fiondarmi di petto nel lavoro, senza lasciare spazio a tutto il resto, poi però avevo incontrato James e poi Simo.
Simone che mi era entrato dentro e si era rannicchiato in un piccolo angolino, proprio lì vicino al cuore.
James, invece, c’era sempre stato.
Ed ora? Farai la fine di Bella o delle classiche eroine dei romanzi d’Ammmore?
Il problema non era il classico triangolo di cui aveva parlato anche Renato Zero. La verità era che non c’erano le basi per costruire chissà quale idea.
I fatti erano presenti, d’accordo. Mi era piaciuto fare sesso con Simone, due volte, e l’avrei rifatto. Era solo attrazione fisica, nient’altro.
James, invece... tutt’altro paio di maniche. Era come se finalmente fossi riuscita a trovare qualcuno che mi completasse, ma non potevo starci insieme.
Non fin quando il processo non si fosse concluso.
Mi ero cacciata in un bel guaio accettando l’invito per Capodanno, soprattutto perché avrei dovuto trovare il coraggio di dirlo alla mia migliore amica. Una serata tutta per noi, che io avrei diviso con un uomo.
Non era mai successo che ci separassimo per un ragazzo.
Ero stata proprio una sciocca.
«Ehi.»
La voce di Sofia mi sorprese, così balzai a sedere senza nemmeno accorgermene. I suoi occhi azzurri, grandi come due piattini da caffè, erano talmente limpidi che mi ci potevo specchiare dentro.
«Ehi,» le risposi, sorridendo.
Sofia si accomodò vicino a me, spostando qualche scartoffia sul tavolino.
«A quanto ricordo, questo divano è stato sempre scomodo. Come fai a dormirci?» mi domandò incuriosita.
Scrollai le spalle. «Dopo un po’ ci si fa l’abitudine,» smozzicai, rimettendo in ordine i documenti prima che li perdessi un’altra volta.
Sofia guardò con interesse ogni mio movimento. La sua pelle era così chiara e le sue labbra così rosa che pensai fosse davvero la Biancaneve bionda delle mie favole di bambina.
«Sai che è come se ci fosse qualcosa di nuovo in te?» mi sorprese. «Come un taglio di capelli, un nuovo profumo addosso… una ventata di novità, insomma.»
Rabbrividii. Se Sofia avesse lavorato per Scotland Yard, l’FBI o la CIA, a quest’ora non ci sarebbero più terroristi in giro per il mondo.
Cercai di cambiare discorso, o almeno ci provai.
«Sarà l’arrivo dell’anno nuovo?» ridacchiai nervosa.
Sofia mi sorrise divertita, nonostante avesse ancora quella luce furbesca negli occhi.
Cadde il silenzio e mi sentii in dovere di cominciare pur da qualcuno, così parlai e decisi di vuotare il sacco, almeno per liberarmi da quel “peso”.
«James mi ha invitata ad un party per Capodanno,» sputai tutto in una volta.
Era un sollievo riuscire a dirlo finalmente, almeno prima di affrontare direttamente la mia migliore amica. La biondina mi fissò allibita. «E tu cosa gli hai risposto?» chiese poi.
Guardai verso il basso, le mie dita intrecciate che torturavano un lembo del pullover.
«Ho accettato,» smozzicai imbarazzata. «Però ha promesso che andremo via per le ventidue. Vi raggiungeremo prima della mezzanotte,» aggiunsi immediatamente, come se mi sentissi in dovere di dare delle spiegazioni.
Sofia però non smise quell’aria sorpresa. «Ah,» disse. Si afferrò una ciocca di capelli biondi e se la rigirò tra le dita, nervosa.
Era strano vederla così seria, lei che aveva sempre stampata l’ombra di un sorriso in volto.
Abbassò lo sguardo. «Beh, contavamo molto sulla tua presenza,» mormorò. «Ero riuscita a convincere anche Simone, dicendo che venivi. Ora non penso voglia più partecipare.»
Mi sentii doppiamente in colpa dopo quella confessione, quasi come se avessi commesso chissà quale grave reato. Mi diedi mentalmente dell’idiota e mi maledetti per aver accettato quello stupido invito.
«Sono ancora in tempo per disdire…» smozzicai, dispiaciuta.
Sofia scosse la testa e ritrovò il sorriso, anche se era forzato. «Alla fine è giusto che James ti abbia qualche volta, in fondo è il tuo principe azzurro,» spiegò cheta.
James non era di sicuro un principe, ma sia i modi che il suo aspetto lo facevano somigliare molto ad un nobile d’altri tempi.
«Tenterò di convincere Simo,» aggiunse infine.
In quel momento mi sentii come sotterrata da un masso. Una pietra gigante che mi schiacciò l’animo e mi fece assomigliare ad una vera merda.
«Ci parlo io con Simone,» dissi di punto in bianco, come se quello avrebbe cambiato le cose.
Già mi immaginavo la scena del “Ciao Simo, vieni alla festa di Capodanno che io vi raggiungo con James a braccetto prima della mezzanotte. Giusto in tempo per slinguazzarci di fronte a te!”
Fantastico.
Gli occhi di Sofia brillarono di felicità. «Davvero lo faresti? Sarebbe fantastico… non passiamo un Capodanno insieme da anni,» soffiò amareggiata.
Era chiaro. Simone non si sarebbe perso una festa nemmeno per tutto l’oro del mondo e di sicuro non l’avrebbe passata con sua sorella, o con la sua famiglia.
Tutto ciò prima del caso in cui era stato citato.
Capivo benissimo come poteva sentirsi Sofia, com’era doloroso stare lontano dalla propria famiglia in quel clima di festività. Se poi il “lontano” era inteso in senso metaforico, il dolore raddoppiava. Era evidente che il calciatore non si rendeva conto della sofferenza che infliggeva agli altri, soltanto un occhio esterno come il mio poteva accorgersene.
E ormai ero legata a quella famiglia in un modo che mai avrei immaginato.
«Ci proverò,» le dissi sorridendo.
Mi erano entrati dentro con la forza, tutti quanti. Erano riusciti a penetrare questo muro di cinismo, di ostilità e vi si erano annidati. Erano degli inquilini abusivi.
A partire dalla piccola Susanna e col finire con nonna Annunziata. Tutti quanti.
Forse sarebbe stato più semplice separarmi da loro, rinunciare a tutto quello. Dire addio a James, troncare tutto, lasciare indietro Simone e vederlo unicamente per il tribunale.
Forse sarei dovuta tornare al monolocale, riprendere in mano la mia vecchia vita. Forse avrei dovuto dire “basta” prima che fosse troppo tardi per tornare indietro.
«Cosa state confabulando?»
La voce di Simone mi fece sobbalzare.
E poi incontravo quegli occhi ed era difficile ragionare con la mente lucida.
Sofia prese la cosiddetta palla al balzo e si alzò in piedi. «Si è fatto tardi, Ruben mi passerà a prendere tra poco, quindi vi lascio a questioni ben più importanti.» E mi fece l’occhiolino.
Un occhiolino davvero insistente.
Quella scenetta da sit-com poteva davvero sembrare divertente ad un occhio esterno, peccato però che stavo raggiungendo l’apice dell’imbarazzo.
Simone poi, con quel sorrisetto arrogante stampato in faccia non aiutava per niente.
«Che hai da sghignazzare?» gli feci inviperita.
Lui scosse la testa e si spostò distrattamente i capelli dal viso. Gesù, quel gesto era sempre da infarto. Ogni. Singola. Volta.
«Niente,» borbottò. «Mi piace quando sei in imbarazzo.»
Lo disse così, senza curarsene, ma non avrebbe mai immaginato che il mio cuore facesse un doppio salto mortale carpiato all’indietro. Odiavo questa sua spontaneità, il suo essere così maledettamente diretto.
Come un bambino.
Un poppante.
Un marmocchio.
Bamboccione.
«Smettila!» gli dissi, nascondendo l’imbarazzo e cercando di fare qualsiasi altra cosa. Qualsiasi!
Mi alzai diretta in cucina e cominciai a rovistare tra gli scaffali. Sentivo il suo sguardo addosso che mi accarezzava quasi fosse tangibile, ed io ci stetti troppo male.
Come faceva ad influenzarmi tanto facilmente?
Sospirai, tanto per scacciare quei brutti, bruttissimi, pensieri. Cercai il suo sguardo che subito si allacciò al mio, quasi come due calamite.
«Dobbiamo parlare,» dissi di punto in bianco.
Era meglio tagliare la testa al toro subito, prima di rimuginarci troppo sopra. Sarebbe stato controproducente e non avrebbe portato da nessuna parte.
Chiaro e tondo: James, io, Capodanno. Stop.
Simone sulle prime non mi prese sul serio. Si avvicinò come un predatore avrebbe fatto con un succulento boccone e mi posò le mani sui fianchi. Rabbrividii immediatamente a quel contatto. Mi mancavano troppo quelle mani.
Avrei davvero voluto cedere, permettergli di fare di me quello che voleva, ma avevo fatto una promessa a Sofia. Via il dente, via il dolore. La sua presenza al party di Capodanno era fondamentale, anche per la sottoscritta.
Ero un’egoista, e lo sapevo bene. Li volevo entrambi la notte di San Silvestro, tutti e due sotto lo stesso tetto.
Gli bloccai le mani che nel frattempo erano andate a solleticare la pelle sotto il pullover.
«Davvero, dobbiamo parlare,» dissi decisa, guardandolo con serietà.
Simone allora capì che c’era qualcosa di fondo in tutta quella storia, così sorrise e mi baciò la punta del naso. «Dopo. Prima devo portarti in un posto,» disse, in tutta naturalezza.
C’erano volte in cui pensavo di aver inquadrato un tipo come Simone, un ragazzo giovane, bello, che aveva tutto dalla vita. E poi c’erano volte in cui agiva così, d’istinto, e mi trascinava dentro il suo vortice senza che io potessi sottrarmi.
«Promesso che dopo parliamo?» gli chiesi a conferma. Tanto non mi sarebbe sfuggito.
Lui mi guardò con quelle iridi scure e profonde. Due opali. «Promesso. Vieni.»
Mi prese per mano e mi condusse fuori dall’appartamento, verso la sua cinquecento blu metallizzata parcheggiata in garage.
Il tempo non era dei migliori, ma i meteorologi non avevano messo nevicate in programma per quella serata. Il viaggio fu piuttosto lungo, anche perché sembrava ci stessimo dirigendo fuori città, oltre la periferia di Greenwich. C’erano tanti quartieri alla periferia di Londra, posti che avevo visto soltanto sul pullman quando ero arrivata dall’aeroporto di Gatwick.
Case in mattoni rossi, a schiera, con piccoli giardini sul retro e sul davanti. I comignoli accesi che fumavano, le loro strutture sviluppate in altezza, il rosso scuro dei mattoni che spiccava in contrasto con la neve candida.
Sembrava quasi il quadro perfetto, degno di una cartolina.
«Dove stiamo andando?» chiesi.
Era legittima come domanda, visto che l’ultima volta in macchina con lui mi ero buscata un bel raffreddore da dimenticare. Simone teneva gli occhi incollati alla strada. Quegli occhi che più volte mi avevano mangiata viva.
Mi morsi il labbro e tentai – davvero, ci provai con tutta me stessa – di non pensare a quello che avevamo fatto, ma per ovvie ragioni i ricordi si riversarono nella mia mente come uno tsunami.
«Aspetta e vedrai,» disse misterioso, ed io incrociai le braccia.
Perché doveva tenermi nascoste le cose? Sapeva che non riuscivo a resistere dal curiosare, era più forte di me!
«Mi stai portando al mare? Ad un ristorante? Alla villa dei tuoi antenati morti?» provai, anche se quella mia ultima uscita lo fece sorridere.
Mi guardò tenendo le mani sul volante. Sorrise. «Non te lo dico. È inutile che insisti,» soffiò, avvicinandosi pericolosamente.
Eravamo su una strada secondaria, ma pur sempre una strada. Cosa diavolo gli era venuto in mente? Possibile che fosse così ritardato?
«Guarda davanti a te,» gli dissi, preoccupata.
Lui tolse una mano dal volante e la posò sulla mia gamba fasciata dai jeans. «So guidare, Lil’Elf,» mi ricordò.
Lo fissai di traverso. «Anche se non metto in dubbio il livello di preparazione della motorizzazione anglosassone, già l’idea di essere sul lato sbagliato della strada mi mette a disagio…» mi lagnai.
Okay, la mia metà cagasotto stava uscendo fuori senza alcun controllo.
Simone scoppiò in una fragorosa risata e tornò a guardare la strada con più attenzione. «Certe volte mi spiazzi proprio,» commento tra una risata e l’altra.
Inclinai la testa da un lato, non afferrando pienamente il suo riferimento. «Cosa ho fatto, si può sapere?» chiesi irritata.
Ed ecco che ci guardammo di nuovo. Se qualcuno avesse cronometrato il tempo delle nostre occhiate, ero sicura che sarebbe trascorso pochissimo tra un battito di ciglia e l’altro.
Due calamite che si rincorrevano.
«Qualche volta è come se ti avessi inquadrato,» disse, cambiando marcia e accelerando un po’. «Poi è come se avessi un’altra persona davanti a me. Sei come un camaleonte,» concluse.
Sorrisi. In fondo era una specie di complimento ed io pensavo quasi la stessa cosa di lui. «Prima mi chiami vecchia, poi piccolo elfo, nanetta ed infine camaleonte… si può sapere quanti soprannomi ho?» borbottai, fingendo di fare l’offesa.
Era divertente stuzzicarlo in quel modo. Non ero mai riuscita a fare lo stesso con James.
Simone scrollò le spalle. «Tanti, suppongo.»
«Anche io te ne ho affibbiati tanti,» realizzai. «E pensare che non ho mai dato soprannomi a nessuno, se non una semplice abbreviazione di un nome.»
Il calciatore accelerò ancora, facendomi voltare verso la strada. «Nemmeno io ne ho mai dati,» concluse conciso.
C’erano tante cose che a mano a mano stavamo facendo diventar nostre e forse era sbagliato. Niente era giusto di quello che stavo combinando con Simone. Dal sesso, alla frequentazione, al rischio di mandare tutto il lavoro e il tirocinio all’aria.
E quei maledetti soprannomi, poi.
«Allora ce la vogliamo far arrivare la nave in porto, Capitano?» sorrise lui, guardandomi complice.
Purtroppo era impossibile resistere. «A vele spiegate, Marinaio,» risposi.
 
***
 
Arrivammo ad Aton prima del previsto e gironzolammo un po’ per trovare un parcheggio che non desse troppo nell’occhio. Simone aveva in mente un posto preciso, perciò cercò di posteggiare la Cinquecento il più vicino possibile.
Ancora non sapevo dove mi stesse portando o cosa volesse mostrarmi.
Era un continuo enigma passare il tempo con lui, soprattutto quando non mi trovavo nel suo ambiente. Le partite erano un conto, gli allenamenti anche, ma a tutto questo non ero abituata.
E poi faceva dannatamente freddo.
In campagna, o periferia, senza lo smog che creava una specie di “cappa” sulle case, i meno cinque gradi di quella giornata si sentivano tutti perfettamente. Rabbrividii subito e mi rannicchiai nel cappotto.
Allora Simone afferrò una delle mie mani e la strinse, infilandosela nella tasca del piumino.
Lo guardai stranita.
«Che c’è? Non posso essere gentile?» ironizzò, fissandomi divertito.
Non poteva comportarsi così. No! Era scorretto! «Mi dici dove stiamo andando?» chiesi stufa di tutti quei suoi giochetti da marmocchio.
Simone continuò a camminare, poi m’indicò con un cenno del capo un piccolo parco recintato.
Ci avvicinammo ed entrammo in un cancelletto nero, in ferro battuto. C’era una pace in quel posto da sembrare quasi una finzione.
«E questo sarebbe…?» dissi, tentando di cavargli le parole fuori dalla bocca.
Era più difficile di quanto pensassi, soprattutto per una che avrebbe dovuto fare l’avvocato.
«Un posto,» mormorò lui.
Arrivammo fino ad un campetto da calcio dall’aria trasandata. L’erba era incolta, poco curata e la neve aveva ghiacciato la maggior parte dell’area.
C’era una panchina abbastanza pulita su cui potersi sedere.
Rimanemmo in silenzio a sentire il vento che frusciava tra le fronde degli alberi. Di tanto in tanto passava un barbone, o un senzatetto, con un fagotto dei suoi averi che ci ignorava.
Simone teneva ancora la mia mano nella sua tasca e l’accarezzava. Mi sentii a disagio in quel momento, con quella verità che ancora dovevo svelargli.
«Senti…» tentai di dire, visto che ormai non c’era quasi più tempo.
«È qui che è cominciato tutto,» disse lui, interrompendomi.
«Tutto?» chiesi.
Simone annuì e sospirò. «Dove ho scoperto che un pallone poteva dare mille emozioni diverse.»
Un pallone… dove aveva scoperto che il calcio era la sua vita.
«Prima abitavate qui,» realizzai in ultimo.
«Sì, all’inizio non eravamo una famiglia piena di soldi e di successo. Più o meno come il papà di Leonardo. Si tirava avanti,» raccontò.
Non sapevo perché mi stesse confidando tutto quello, per quale motivo avesse deciso di aprirsi con me di punto in bianco. Fatto sta che non lo fermai, non ne ebbi il coraggio né la voglia. Dovevo sapere più di lui, dovevo abbattere quel muro o perlomeno provare a scalarlo.
«Quel pallone che ho in camera, quello rovinato che Sofia ha miracolosamente salvato dal tuo tornado di pulizie,» ridacchiò guardandomi. «Sì, me l’ha detto,» aggiunse.
«Quel pallone è stato il primo che mio nonno mi ha regalato, anzi, ci. A me e a Leonardo, un Natale di non so quanto tempo fa. È l’unico ricordo che abbiamo di lui ed è come un portafortuna.»
«Anche Leonardo ne ha uno uguale?» chiesi.
Lui annuì. «Almeno dovrebbe. Non so se l’ha conservato o se l’ha gettato via. Sono passati dieci anni da quando nonno è morto.»
Sì, Celeste me ne aveva parlato qualche tempo fa. Nonna Annunziata era rimasta vedova abbastanza giovane e non si era mai risposata. Una donna dal carattere forte e davvero ammirevole.
«Quindi, questo campetto è una specie di rifugio per te?» gli domandai, sentendo le sue carezze affievolirsi fino a smettere del tutto.
Si prese un po’ di tempo per elaborare il tutto. C’era un Simone diverso di fronte a me, un Simone che credevo non potesse esistere.
«Diciamo che è dove ho capito cosa volevo fare della mia vita,» mi corresse lui.
«E cosa c’entra il pallone?» domandai ovviamente.
Lui si alzò in piedi e cominciò a camminare verso le porte da calcio, con le reti scucite e penzolanti. C’era tutta la ruggine sui pali, dove un tempo spiccava la vernice bianca. Ormai vi erano rimasti soltanto dei residui cadenti e semi-incrostati.
Lo seguii perché era chiaro che voleva dirmi dell’altro.
Si infilò le mani in tasca e trotterellò lungo tutta la linea del campo, seguendo il bordo dell’area. Mi misi dietro di lui, come i vagoni di un treno sulle rotaie.
Il cielo si preannunciava sempre più nero e in lontananza si sentivano i tuoni squarciare il cielo.
«Mio nonno è stato come un padre per me e per Leonardo. Era l’unico che riusciva a tenerci uniti e il calcio, in uno strano modo che ancora non so spiegarmi, ci ha aiutato anche in questo.»
«Ma se vi linciate in campo!» sbottai, incredula.
Simone si voltò soltanto un pochino, giusto lo spazio per guardarmi. «Si fa quel che si può,» rispose con un sorriso simile ad un ghigno.
Continuammo a girare in tondo per un po’ di tempo, mentre Simone continuava a cianciare roba sul suo passato. Anche se tra lui e il cugino non correva buon sangue, ne avevano passate di avventure quei due. L’unica cosa che avevo compreso a fine discorso, era l’importanza di nonno Sogno e di quel pallone scucito.
«E così mi hai portato qui perché finalmente posso immedesimarmi in quella tua testolina e comprenderti?» gli chiesi sorridendo.
Lui mi guardò sincero. Quel tipo di sguardo che leggeva l’anima. «No,» rispose tranquillo. «Ti ho portato qui soltanto per farti vedere il mio mondo da un’altra prospettiva. Non il successo, non le donne, non gli autografi o gli sponsor. Soltanto io, un pallone e un vecchio campetto da calcio.»
In quel momento pensai che se fossimo stati in un altro luogo, in un altro momento, se lui non fosse stato Simone Sogno ed io non avessi la sua causa per dubbia paternità che oscillava pericolosamente sulla mia testa… beh, forse se non fossimo stati noi, avrei potuto amarlo.
Forse.
Iniziò a piovere in quel momento, proprio quando c’era l’occasione per parlare, per dire qualcosa e finalmente affrontare il famoso discorso del Capodanno. Evidentemente nemmeno madre natura era dalla mia parte.
«Cazzo!» imprecò Simone, coprendosi con il bavero del cappotto.
«Dobbiamo tornare alla macchina!» urlai.
Lui mi afferrò la mano e cominciammo a correre, ma in direzione opposta a dove avevamo parcheggiato la Cinquecento.
Non sapevo dove mi stesse portando e non avevo nemmeno il fiato per chiederglielo. La pioggia aveva cominciato a penetrare sui vestiti, bagnandomi fin dentro le ossa. Corremmo sotto l’acqua, slittando con gli stivali sulla neve e sul ghiaccio che c’erano ancora per la strada, finché non imboccammo un vicolo.
La stretta di Simone era sempre forte, ma il fiato cominciava a scarseggiare.
Avevo i capelli appiccicati al viso e l’acqua che mi galleggiava nelle scarpe. Odiavo essere così bagnata ma vivendo a Londra da quasi quattro mesi, ci avevo fatto un po’ l’abitudine.
«Ehi… aspe-aspetta!» esalai, cercando un modo di farlo fermare. D’accordo che lui era allenato, ma io non muovevo un passo dal liceo ormai.
Simone rallentò, ma continuò a camminare tirandomi dietro. «Siamo quasi arrivati,» disse.
«Ma dove?» sbottai io, stufa.
Dopo aver girato a destra due volte e un’ultima a sinistra, in un piccolo vicolo poco illuminato ma grazioso, c’era una locanda. Le gocce di pioggia erano poche, i tetti fitti, ma l’umidità e la temperatura di quella giornata mi fecero rabbrividire.
Simone mi sorrise e mi condusse all’interno del locale.
Un caldo tepore mi invase appena misi piede lì dentro, avvolgendomi come un abbraccio caldo di una madre. Il campanello tintinnò al nostro ingresso, così una donna corpulenta e piuttosto bassa, con le tipiche guance rosse anglosassoni ci accolse con un sorriso sincero.
«Benvenuti alla Blue Rose,» disse accogliente. «Cosa posso fare per voi?»
Notò subito le condizioni pietose in cui eravamo, così si adoperò immediatamente per portarci due calde coperte di pile.
«Oh Cielo, questo tempaccio!» protestò, attizzando il fuoco con qualche altro ciocco di legna. «Non ci voleva proprio un temporale così, soprattutto con la neve dell’altro giorno!»
«Le previsioni non avevano detto…» intervenni.
«Tesoro, ormai noi inglesi non diamo più retta a quello che dice il televisore,» ridacchiò.
Rimasi sorpresa. «Come fa a sapere che non sono di qui? È per l’accento?»
Simone mi guardò sorridente, senza aggiungere nulla.
«Senza offesa, tesoro,» mormorò la donna. «Ma in settantadue anni di vita, so riconoscere la mia gente. Inoltre, il tuo inglese è perfetto. Penso sia una questione di pelle, non so come spiegarlo. E poi le abitudini…»
«Invece lui è inglese?» chiesi, indicando Simone.
Non sapevo se la donna seguisse il calcio, oppure avesse visto Simo su qualche rivista. Tentai ugualmente.
La signora rotondetta mi sorrise. Una volta aveva i capelli rossi, i suoi tratti somatici me lo suggerirono anche attraverso quella semi-oscurità.
«Sei così dolce, tesoro. Mr. Sogno è fortunato ad averti trovato,» sorrise.
«Allora lo conosce!» esclamai, riferendomi al fatto che probabilmente lo avesse visto in televisione, anche se aveva detto che non seguiva molto i programmi.
Sentii la risata di Simone uscire così sincera e limpida, da riscaldarmi.
«Da quando aveva due anni, credo,» sospirò la donna. «E anche allora era un piccolo sciupafemmine!»
Rimasi lievemente perplessa. «Vuol dire che…?» azzardai.
Finalmente Simone si sentì in dovere di intervenire. «Ti presento mia nonna Eleonor.»
La donna subito mise le mani sui fianchi. «Quante volte ti ho detto di non chiamarmi nonna? Mi fai sentire vecchia, ma sono nel fior fiore dei miei anni!» trillò estasiata.
Quindi era l’altra nonna di Simone, quella materna. La nonna inglese.
«Tanto piacere. Io sono Venera,» dissi, porgendole la mano.
Lei me la strinse e mi invitò ad abbracciarla. Mi sentii lievemente in imbarazzo, ma non mi sottrassi a quel gesto, non potevo. Io che i nonni non li avevo più.
«Tanto piacere, Vennie,» ridacchiò l’anziana signora. «Che ne dite di fermarvi qui, eh? L’inverno Aton diventa un posto desolato e alla Rosa Blu non c’è quasi mai nessuno. Inoltre è quasi buio ed è pericoloso tornare a Londra con il maltempo.»
Stavo per protestare, quando Simone bloccò le mie parole sul nascere.
«La solita stanza?» sorrise.
La donna gli restituì lo stesso gesto con malizia. «La numero sei.» E andò a prendergli un mazzo di chiavi dall’aspetto piuttosto vecchio.
Con “solita” cosa aveva voluto dire? Che ci portava tutte le sue sgualdrinelle? Che sua nonna coprisse le scopate clandestine che si faceva con le giraffone per non destare scandalo?
Il mio Cervello cominciò a farsi i peggiori filmini. Nemmeno Federico Fellini lo avrebbe eguagliato.
Salutai la nonna e ci incamminammo verso una stretta rampa di scale. Diciamo che la visuale del sedere di Simone che ondeggiava davanti al mio visto, aveva momentaneamente dissipato ogni problema precedentemente sorto.
Tra cui il famoso Capodanno.
«Questo posto cos’è? Il locale segreto dove porti le tue amanti?» chiesi, provocandolo volontariamente.
Simone non rispose. Si limitò a infilare la chiave nella toppa e a girarla, aprendo la porta e facendomi entrare. Nel mentre, tirai fuori il cellulare dalla borsa per avvertire Celeste che non saremmo tornati.
Aprii la casella dei messaggi, ma mi bloccai.
Cosa avrei potuto scriverle? Era ovvio che tutto ciò sembrasse fin troppo ambiguo, proprio quando la mia migliore amica aveva conosciuto James.
Fu di punto in bianco che Simone mi afferrò il cellulare. «Ehi!» protestai.
Lo spense e se lo infilò in tasca. «Non manderai messaggini romantici a quel baccalà in giacca e cravatta.»
Roteai gli occhi al cielo. «Stavo avvertendo Celeste che non saremmo rientrati, testone!» ringhiai. A volte era proprio un moccioso.
Simone ghignò ugualmente. «Meglio se non lo sanno, così si faranno strane idee su di noi,» mi provocò.
Arrossii d’istinto, ma abbassai prontamente lo sguardo per nasconderlo.
«Tra noi non c’è nulla, e nulla da nascondere,» dissi chiara.
Ovviamente lui nemmeno mi ascoltò. Anzi, si tolse la coperta, il cappotto e cominciò lentamente a spogliarsi. Un po’ troppo lentamente.
E mi fissava.
«Hai capito male,» misi subito le cose in chiaro. Non poteva rapirmi, farmi conoscere sua nonna e dopo pretendere di fare sesso senza che nessuno sapesse dove fossimo.
E dovresti dirgli anche di James.
Ecco!
«Io mi sto solo spogliando per fare una doccia calda e rilassante. Vuoi unirti?» mi chiese.
«No!» ringhiai, poi mi misi seduta di peso sul letto –che ovviamente era matrimoniale.
Simone allora si liberò del maglione, della maglietta sottostante, appoggiandoli ad una poltrona, poi cominciò a slacciarsi i jeans.
Anche se le sue nudità non erano una novità per la sottoscritta, ed era dura anche ammetterlo, riusciva sempre a colpirmi. Era perfetto, in ogni cosa. Nemmeno Michelangelo con il suo marmo e il suo scalpello avrebbe potuto riprodurre qualcosa di meglio.
«Lo rivuoi, il tuo telefono?» mi chiese, facendomelo dondolare davanti agli occhi.
Era rimasto in boxer. Quelli arancioni a pois viola che gli aveva regalato Sofia per Natale. Il pensiero di aver riconosciuto i suoi indumenti intimi per un nanosecondo mi terrorizzò.
«Dammelo,» gli intimai.
Simone sfoderò quel sorriso sghembo che tanto odiavo, poi allargò l’elastico dei boxer e ci fece cadere dentro il blackberry.
Ero ufficialmente fottuta.
«Ora vienilo a prendere,» sghignazzò ed io maledissi quel tempaccio di merda fino alla fine dei miei giorni.
   


Bene, bene, bene!
Ce l'ho fatta a pubblicare! #dovevaabdicareilpapaperchéciriuscisse ma ce l'ho comunque fatta! Dopo mesi e mesi di estenuante attesa, ora potete sapere cosa è successo ''dopo'' il fattaccio dello scorso capitolo. Mi sono anche prodigata a rispondere a tutte le recensioni arretrate #bravaragazza, nonostante ho dovuto smollare una marea di esami e recuperare gli episodi delle millemila serie tv che seguo ù_ù
*magari se ne seguissi di meno*
*magari se ti facessi gli affaracci tuoi*
Dopo questo teatrino, mi ritiro prima che mi internino al manicomio più vicino. Sono davvero felice che nonostante i miei ritardi (mentali) nel pubblicare voi fanZZ-tunZ vi fate comunque sentire, sia qui, sia nel gruppo facebook (Crudelie). Grazie davvero.
Mi ritaglio un ultimo pezzettino *angolo pubblicitario* per segnalarvi due storielle pubblicate di recente:

   
 
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