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Autore: Alaska__    22/12/2014    2 recensioni
• Yasha Ivanov/Sawyer Mason • OCs ~ District 7 • 69th Hunger Games/post!71st Hunger Games/post!Mockingjay •
«Spero solo che anche mia sorella e nonna non siano così fragili. Spero che siano cartone e non carta velina. E anche le tue sorelle. E il ragazzo di tua sorella. E tu».
«Io?»
«Tu. Ho paura che ogni cosa che si avvicini a me faccia una brutta fine. Ma tu sei forte, eh? Tu non mi abbandoni e nemmeno Anya. Siete di cartone».
Sawyer gli rivolse un sorriso radioso e Yasha si ritrovò a pensare che quella definizione gli calzava a pennello: era forte, lui, difficile da rompere, proprio come il cartone.
«Me lo prometti? Non voli via da me?»
«E tu? Che intenzioni hai?»
L’albino strinse le labbra, facendosi ancora più piccolo. «Io… voglio essere di cartone, ma mi sento di carta velina» concluse. «Ma se mi metto sopra un sasso, forse non volo via» concluse, sorridendo.
«Tu sei cartone, Yasha. E io e te saremo sempre amici».
«Non voli via, allora? Promesso?»
«Promesso».
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Sparks • Picking up the pieces. '
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Piccola premessa: i personaggi qui presentati sono OCs. Yasha Ivanov è un mio OC, mentre Sawyer Mason - yep, il cognome non mente: è il fratello di Johanna! - è un OC di Kary91
La one-shot è divisa in quattro parti: due in cui i protagonisti hanno cinque anni e mezzo e dieci anni, ambientata durante i sessantanovesimi Hunger Games; una ambientata poco dopo i settantunesimi Hunger Games, quelli vinti da Johanna, e infine un'ultima parte post!Mockingjay.
Prima di cominciare vorrei fare una precisazione, o meglio, chiedervi un favore: vi pregherei di non avere pregiudizi riguardo il comportamento di Yasha, che potrebbe risultare molto strano per un bimbo di neanche sei anni. Ma comunque, vi spiegherò tutto in fondo. Eventuali errori di grammatica nello scambio di battute tra i due bambini sono volute: sono entrambi piccoli, non parlano come macchinette. Anche se Yasha azzecca i congiuntivi, ma fa niente. xD
Più in fondo vi spiegherò altre cose perché ci sono numerosi salti temporali. 
Buona lettura!

 
Questa storia partecipa all'iniziativa "Caro babbo Sirenetto..." indetta dal gruppo facebook The Capitol con prompt Sawyer Mason/Yasha Ivanov: «Mi fai un origami?»






 
• Paper trees •
 
 
« La città era di carta, i ricordi no. »
-John Green; “Città di carta”
 

La piazza del Distretto 7 non era mai particolarmente gremita, salvo durante l’annuale appuntamento con gli Hunger Games, quando molte persone si dirigevano nel centro della fazione dei falegnami per vedere come proseguivano i Giochi. I più erano anziani sprovvisti di televisore, che, non sapendo come riempire le giornate, passavano le giornate lì, a chiacchierare dei tributi.
Proprio in uno di quei momenti – in cui la piazza si andava riempiendo di gente – un bambino con i capelli bianchi passeggiava mano nella mano con una ragazza a lui molto somigliante.
Il piccolo lanciò uno sguardo al maxischermo posto su una delle balconate del Palazzo di Giustizia, dinnanzi al quale diverse persone si erano appostate per guardare un uomo dai capelli di un vivace rosso fuoco che parlava, sorridente, di quanto fosse importante quella giornata per tutti i partecipanti agli Hunger Games. Di lì a poche ore, infatti, sarebbero stati resi noti i voti dati loro dagli Strateghi nel corso delle loro sessioni private, e tutto il Distretto 7 si stava raccogliendo lì per sapere come stavano andando i giovani compaesani che erano stati spediti a Capitol City.
Il bambino cercò di dirigersi verso lo schermo, trascinando la sorella per il braccio. Era curioso di vedere cosa avrebbero trasmesso, ma né la ragazza che teneva per mano, né la nonna – tutrice di entrambi – gli permettevano di guardare la televisione in quei momenti, sostenendo che il programma trasmesso non era adatto a un bambino di neanche sei anni come lui.
Sbuffando, la ragazza ricambiò la spinta del fratellino, ma nella direzione opposta, impedendogli di proseguire nel suo cammino. Il bambino si voltò, lanciandole un’occhiata torva. Era curioso. Voleva vedere più da vicino il signore con quegli strani capelli rossi, perché aveva l’aria simpatica – malgrado il suo sorriso mettesse abbastanza paura, questo doveva ammetterlo.
«No, Yasha…» sospirò la giovane, con aria affranta, come se glielo stesse ripetendo per la millesima volta in una giornata. In effetti, era già successo che il piccolo Yasha Ivanov si impuntasse su certe cose, ma la sua sorellona non demordeva.
«E dai, Anya…» il piccolo spalancò gli occhi azzurri, cercando di assumere un’aria supplichevole – sapeva che le ragazze non resistevano quando i bambini facevano certe facce, «… voglio andare a vedere quell’uomo dai capelli rossi!»
«No, pulcino». Anya prese il fratellino dalla maglietta bianca, trascinandolo lontano da lì. «Ti ho già detto mille volte che non voglio che tu guardi certa roba. Non è adatta ad un bambino della tua età».
Il piccolo sbuffò, tirando un calcio ad un sassolino lì vicino. «Però mi costringi a venire con te in giro a fare compere» bofonchiò, ficcando le manine nelle tasche dei pantaloncini neri.
Anya aggrottò la fronte. «È diverso» fu la sua scarna giustificazione. «E poi io mica ti costringo. Ti ho solo detto che se volevi potevi venire, pulcino bugiardo». Un sorriso increspò le labbra della tredicenne, che arruffò i capelli candidi del fratellino.
Yasha si costrinse a fare un sorrisino. Era colpa sua davvero: Anya doveva uscire a comprare delle cose per la nonna e lui aveva preteso di uscire, nella speranza di lanciare un’occhiata allo schermo o di sgattaiolare nei boschi, per farsi una passeggiata. Avrebbe tanto voluto chiederglielo, ma sapeva che Anya gli avrebbe detto di no – malgrado fosse già capitato che il piccolo fosse andato nella pineta da solo. Gli era bastata una sola passeggiata lì in compagnia della sorella per imparare il percorso a memoria e ormai, ci scommetteva, avrebbe potuto farlo ad occhi chiusi.
«Senti, Anya…» azzardò, toccandole la schiena con una mano per attirare la sua attenzione, «… posso andare a fare una passeggiata in pineta?»
«Da solo?» La reazione della tredicenne fu quella che il piccolo si aspettava. La sua voce, infatti, trasudava preoccupazione.
«Da solo» confermò Yasha, mettendosi le mani sui fianchi per cercare di apparire più imponente, malgrado fosse consapevole che quello null’altro era se non un vano tentativo. «La so la strada. Dai, ti prego…» Prese la sorella per mano, sporgendo il labbro inferiore in fuori per cercare di trasmetterle un po’ di tenerezza. Era già capitato che Yasha andasse nel bosco da solo, senza nessun aiuto, ma l’ultima volta era sgattaiolato via senza dire nulla a nessuno e Anya lo aveva accolto con una faccia furente e gli occhi azzurri che mandavano lampi.
«Stai attento» cedette la tredicenne, con un sospiro. «Io ora vado a fare le commissioni e le compere per la nonna. Tu non fare casini. Sono le tre e mezza, ora. Ci vediamo qui in piazza quando l’orologio cittadino batte le cinque, okay? Vedi di non perderti. Non parlare con gli sconosciuti. Se qualcuno ti importuna, urla. E non guardare il maxischermo». L’indice della mano sinistra della maggiore corse ad indicare l’oggetto proibito a Yasha.
Il bambino assunse la sua migliore espressione da angioletto, sorridendo contento. «Obeschchannyy, Anya».
«Rebenok¹». Anya sorrise, tirando una guancia al fratellino. Ogni tanto le loro origini russe tornavano a farsi sentire e entrambi si mettevano a parlare in quella lingua tanto difficile quanto bella e affascinante. Yasha la stava ancora imparando, ma poteva ammettere con fierezza di essere già ad un buon punto – la nonna era una bravissima insegnante e lui adorava stare ore ad ascoltarla mentre gli raccontava delle storie in quella lingua o gli faceva apprendere l’uso dell’alfabeto cirillico.
Non appena sua sorella gli voltò le spalle, Yasha sgattaiolò via, dirigendosi di gran carriera verso il sentiero che conduceva alla pineta. Non voleva perdere ulteriore tempo: le cinque sarebbero arrivate in un momento. Aveva imparato, ormai, che il tempo passava più velocemente quando ci si divertiva, come se le lancette dell’orologio ricevessero una spinta molto forte e iniziassero a girare più velocemente.
E il piccolo Ivanov era certo che in quell’ora e mezza di libertà si sarebbe divertito sicuramente. Pineta significava Sawyer.
Malgrado le sue corte gambe non gli consentissero una velocità elevata, Yasha si sforzò di correre il più veloce possibile, lasciandosi alle spalle la piazza e tutti i viottoli del Distretto 7, nei quali permeava, costante, un buon’odore di legna tagliata.
Sapeva di certo che avrebbe trovato Sawyer in pineta perché era sempre lì che andava. Yasha non sapeva bene come definirlo: non aveva amici e lui era addirittura più grande. Dall’alto dei sei anni che ancora doveva compiere, non gli era ben chiara la definizione di “amico”.
Giunto al limitare del bosco, rallentò di poco l’andatura e allungò il collo per vedere se riusciva ad intravedere il bambino. Di solito, lo trovava sempre sotto un pino, che dormicchiava, oppure che faceva degli origami.
Non ci mise molto a notarlo: come previsto, Sawyer era seduto all’ombra di un albero, le gambe incrociate e il capo chino su un pezzo di carta al quale stava lavorando.
Un grosso sorriso fece capolino sul volto del più piccolo, mentre allungava una mano e urlava, in direzione del bambino: «Ehi! Sawyer!»
Il suo amico alzò la testa, quel tanto che bastò perché i loro occhi si incontrassero e Sawyer sorridesse di rimando. Sventolò una mano, salutando Yasha.
«Ciao, Yasha!» lo salutò allegramente. L’albino si avvicinò, abbassandosi verso di lui per vedere cosa stesse facendo. Mise le mani sulle ginocchia e inclinò il busto, osservando il pezzo di carta che Sawyer reggeva tra le mani e che stava trasformando in un origami.
A vederli dal fuori, sarebbero di sicuro sembrati una coppia bizzarra: entrambi molto magri e poco alti, ma laddove Yasha era pallido, con gli occhi azzurri e i capelli bianchi, Sawyer aveva la pelle olivastra, gli occhi come due pezzi di carbone e i capelli scuri come il cielo notturno.
Ma sebbene ci fossero queste diversità a livello fisico, Yasha sapeva che erano più simili di quanto sembrasse. Se lo erano detti anche quando si erano appena conosciuti e avevano avuto modo di capire qualcosa in più sulla vita dell’altro.
«Che cosa fai?» domandò il più piccolo dei due, osservando attentamente i gesti di Sawyer. Lo aveva già visto fare degli origami, ma non si era mai cimentato in quell’attività; non era mai stato bravo in queste cose.
Tuttavia, il modo in cui il suo amico piegava la carta e creava delle cose tanto simili alla realtà lo affascinava non poco. Sarebbe rimasto ore e ore a guardare Sawyer trasformare del materiale tanto fragile come carta in cose meravigliose.
«Un origami». Il bambino lo alzò per farlo vedere all’amichetto. Stava raffigurando un’ancora. «Ti piace?»
«Certo. È bellissimo». L’albino si sedette a gambe incrociate e osservò Sawyer mentre si rimetteva al lavoro. Non guardò però il foglio che stava piegando con cura, ma l’espressione del suo amico. Gli occhi scuri di Sawyer – di solito animati da una luce vivace e allegra – erano, in quel momento, tristemente rivolti al suo origami, e anche quando aveva salutato Yasha aveva usato un tono di voce triste, che intaccava appena quel sorriso che aveva esibito.
Il più piccolo si avvicinò, fissandolo ancora più attentamente.
«Cos’hai?» chiese infine, quando Sawyer terminò il suo lavoro.
Il maggiore dei due fece spallucce, mentre riguardava l’origami appena completato. Era praticamente perfetto, ma lui non voleva far sparire quel broncio dal suo volto.
«Non ti piace l’origami?» incalzò Yasha. «Ma è bellissimo!»
«Non è per quello…» mormorò Sawyer, appoggiando l’ancora di carta sul manto erboso del bosco. «È successa una cosa un po’ brutta» ammise, facendo spallucce.
Yasha lo guardò di sottecchi. Sapeva che il suo amico – come lui – non aveva una vita facilissima e anche a lui era morta la mamma, ma di solito era sempre piuttosto allegro. Non si spiegava, quindi, quel broncio improvviso.
«Puoi dirmelo, sai». L’albino si avvicinò ancora di più. «Lo sai che se dici cosa c’è che non va fa bene? Ti passa un pochino. Io lo faccio sempre. Mi sfogo con mia sorella e mi sento meglio».
Le labbra di Sawyer si incurvarono in un piccolo sorriso. «Questa però non è una cosa che può cambiare» spiegò; la sua espressione era tornata la stessa di poco prima.
«Ma tu dimmela lo stesso, almeno un po’ ti sarai sfogato» insistette Yasha. Gliel’aveva insegnata Anya, quella cosa: se si sfogava, stava subito meglio. Non tanto, ma quanto bastava a non sentirsi schiacciare dal peso di tanti brutti pensieri che crollavano, come macigni, sul suo animo.
«Sì… va bene». Il maggiore dei due si passò una mano tra gli arruffati capelli corvini, lanciando un breve sguardo all’amichetto, ma per tornare subito dopo a fissare l’origami che aveva ripreso tra le mani. «Lo conosci Keith?»
Yasha aggrottò la fronte. «No. O meglio, ho sentito il suo nome da qualche parte, ma non so chi è».
«È il fidanzato di mia sorella Sloane» si affrettò a spiegare Sawyer. «È andato agli Hunger Games. Sai cosa sono gli Hunger Games, no?»
Yasha annuì con convinzione, ma con una punta di fastidio a tormentargli l’animo. Sapeva cos’erano, malgrado non li conoscesse a fondo. Anya e la nonna gli impedivano sempre di guardare la televisione, quando li trasmettevano, ma era capitato che lui assistesse a degli spezzoni. Lo avevano sempre incuriosito le cose misteriose o inaccessibili, e aveva altresì un grande talento per disobbedire: non gli risultava difficile sgattaiolare in piazza per provare a guardare quei ventiquattro ragazzini che si uccidevano a vicenda.
«Certo che lo so» replicò. «Ho quasi sei anni, non sono un bambino!»
Sawyer fece una risata poco allegra, scompigliando i candidi capelli del suo amico. «Sì che sei un bambino. Siamo tutti e due bambini, anche se tu a volte parli come una persona grande». Il suo sguardo tornò poi ad incupirsi. «Comunque, sono un po’ triste e arrabbiato per questo. Insomma, lui non era affatto male. Era simpatico. E se non uccideva quel Pacificatore, forse non ci andava, agli Hunger Games».
«Perché parli al passato?» Yasha si avvicinò all’amico, scrutandolo con i suoi occhi azzurri. Aveva notato quella particolarità nelle parole di Sawyer: nella descrizione di Keith, aveva parlato di lui come di una persona già morta e sepolta. Ma la Mietitura era avvenuta solo pochi giorni prima – Yasha lo sapeva, era andato in piazza per controllare che a sua sorella non succedesse nulla di male. Quindi, Keith non era morto, ma ancora vivo, eppure Sawyer continuava ad utilizzare tutti quei verbi passati.
«In che senso?» Sawyer inarcò un sopracciglio.
«Nel senso che mi hai parlato di Keith come un morto». L’albino strappò un filo d’erba, giocherellandoci. «Perché parli al passato, Sawyer? Lui non è ancora morto!» aggiunse, rivolgendo all’amico un sorriso incoraggiante.
Il più grande dei due lo ricambiò, grattandosi una guancia con fare imbarazzato. «Hai ragione. E poi lui ha detto che tornava a casa. Mia sorella si fida. E io mi fido di mia sorella, quindi mi fido anche di Keith e so che ce la farà. È forte, forse se sta attento riesce a tornare a casa».
«Hai visto? Stai già sorridendo!» esclamò Yasha, indicando il volto di Sawyer con fare gioioso. «Parliamo d’altro, ti va? Almeno non diventi più triste» propose poi, notando che un po’ di tristezza era rimasta negli occhi scuri dell’amico, come una macchia in mezzo ad una parete bianca.
«Sì, forse è meglio». Sawyer scosse le spalle, riappoggiando l’origami per terra e appoggiandosi al tronco dell’albero, intrecciando le dita dietro la nuca. «Come va a casa?»
«Bene» rispose Yasha sovrappensiero. Il suo sguardo si era perso su quell’origami abbandonato sul prato, quell’ancora che un po’ stonava lì, in mezzo alla pineta, in mezzo al Distretto 7 che con il mare c’entrava meno di zero.
Non era la prima volta che vedeva Sawyer fare un origami: gli era già capitato, svariate volte, di trovare il suo amico intento a piegare la carta fino a formare delle bellissime figure, dalle ancore, fino agli alberi, e anche gli animali. E tutte quelle volte, Yasha era rimasto fermo, le iridi color del cielo che seguivano ogni minimo movimento delle dita dell’amico, mentre trasformava la carta da un qualcosa di inanimato, piatto, privo di vita, a qualcosa che, seppur sempre di carta, sembrava trasmettere qualcosa in più.
La cosa più sorprendente, secondo Yasha, era vedere come dal nulla si riuscivano a creare cose così incredibili, così simili al vero.
Spesso l’idea di provare a farne uno lo aveva toccato, ma ogni volta che aveva provato a piegare i fogli che aveva in casa a formare qualcosa, non ci riusciva. Era una cosa in cui Sawyer era molto più bravo: lui dava vita alla carta. E persino quella, così fragile, così facile da spezzare, sembrava una cosa incredibilmente forte e bella, quando lui faceva un origami.
«Bene bene, o bene male?» chiese Sawyer, rompendo il muro di silenzio che si era creato per un breve istante tra di loro. Yasha scosse la testa, riprendendosi da quel piccolo momento di riflessione personale, e rivolse il suo sguardo all’amico, ancora sdraiato ai piedi dell’albero.
«Bene… normale». Non sapeva come definire quel “bene”. A casa di problemi ce n’erano, da quando la nonna aveva iniziato a far fatica a muoversi, ma non era più cambiata la situazione da quando per la prima volta Tatiana aveva trovato delle difficoltà anche nel fare il più semplice movimento. Era rimasto tutto uguale, tanto che ormai quella situazione era diventata, purtroppo, normale.
«Perché vedevo che non rispondevi, pensavo che ti fossi intristito». Sawyer tornò a chiudere gli occhi; le sue mani erano ancora intrecciate dietro la nuca.
«In realtà mi ero perso a guardare il tuo origami» rispose sbarazzino Yasha, avvicinandosi al lavoretto dell’amico, per osservarlo più da vicino. «Posso prenderlo un attimo in mano?» Lo indicò con un dito.
«Certo, non devi chiedermelo». Sawyer aveva aperto un solo occhio, sorridendo.
Yasha allungò la mano, prendendo quell’ancora di carta che quasi pareva vera. La osservò da diverse angolazioni, ammirando il lavoro fatto da Sawyer. I suoi dieci anni sembravano svaniti, dinnanzi a quel piccolo capolavoro: sembrava fatto da mani esperte.
«Sei bravissimo! Com’è che fai a fare degli origami così belli?» Yasha dovette ammettere a se stesso di invidiare il suo amico: anche a lui sarebbe piaciuto creare delle figure così minuziose e perfette.
Sawyer arrossì leggermente, anche se quel rossore che invase le sue guance si notò ben poco, data la sua pelle olivastra. «Non sono bravissimo… le mie sorelle, loro sì che sono brave!»
L’albino fece spallucce. Lui non se ne intendeva di origami, ma sapeva che quella del suo amico era solo modestia: per lui, quell’ancora di carta era davvero una meraviglia in miniatura.
«A me piace e secondo me sei bravo. E poi le ancore sono difficili da fare, credo, quindi sei ancora più bravo» commentò, riappoggiando l’origami sul terreno.
Le ancore gli ricordavano il mare, quello che lui aveva visto solo una volta in televisione, ma che gli sarebbe piaciuto vedere dal vivo. Quella distesa infinita di acqua cristallina gli era rimasta impigliata nelle retine, come polvere che non voleva saperne di andarsene, per quanto si prova a farla sparire. Il bambino ci aveva provato: dimenticare quella bellissima immagine gli era sembrata la cosa migliore da fare, per non rischiare di farsi prendere dalla malinconia – la stessa che lo assaliva ogni sera, quando, nel buio della sua stanza, pensava ai suoi genitori; la stessa che lo lasciava con l’amaro in bocca ogni volta che faceva un bel sogno.
«Grazie». Sawyer si era messo a sedere e, in quel momento, si stava grattando la nuca con fare imbarazzato. «Posso ancora migliorare, però! Sai che le ancore sono gli origami che più mi piace fare?»
«È bello, questo». Yasha indicò l’origami. «Mi ricorda il mare che ho visto una volta in televisione. Lo sai che ancora in russo si dice yakor’?» Un sorriso sbarazzino stirò le labbra del più piccolo, mentre si puntava il dito al petto con fare soddisfatto. «Ha lo stesso dittongo iniziale del mio nome, Yasha
Non sapeva spiegarsi perché, ma quel piccolo aneddoto lo rendeva stranamente fiero di se stesso, come se avesse compiuto qualcosa di fantastico. Si sentiva, in un certo senso, legato a quel mare che lui tanto aveva sognato.
Sawyer fece una risata. «Yakor’» ripeté. «Mi piace. Ha un bel suono».
«Sì, nella mia lingua si scrive con la stessa lettera iniziale del mio nome. È una specie di “R” rovesciata» spiegò l’albino, scrivendo quella lettera con le dita nell’aria. «E anche la “K” dopo è come la “K” di Yakov, che sarebbe il mio vero nome, ma a me non piace. E anche la “O”!» aggiunse, sempre più contento di quelle scoperte.
Il suo amico fece una risata divertita, scompigliando poi i capelli chiari del piccolo. Il suo viso, però, tornò subito a rilassarsi in un’espressione più seria.
«È una cosa bella. Se ci pensi, gli amici sono un po’ come ancore. E tu sei mio amico. Sei un po’ la mia ancora, no?»
Yasha sbarrò gli occhi, mentre un sorriso di pura felicità si andava allargando sul suo volto.
Per tutto quel tempo, gli era rimasto il dubbio se Sawyer fosse suo amico oppure meno. Lui non ne aveva mai avuti, non sapeva quando si oltrepassava la linea tra “conoscenti” e “amici”. Finalmente, però, ne aveva la conferma: lui e Sawyer erano amici. Glielo aveva detto lui, e Yasha si fidava.
«Davvero sono tuo amico?» domandò, dondolandosi in preda ad una strana frenesia.
Sawyer fece un sorriso, annuendo. «Sì. Siamo amici. Parliamo, giochiamo, ci divertiamo insieme. Essere amici significa che si sta bene con chi ti sta accanto».
«Allora considerati fortunato perché sei il mio primo amico». Yasha lo indicò con un dito, ridacchiando.
«Non ne hai mai avuti?» Sawyer aggrottò la fronte, e nei suoi occhi scuri, Yasha poté leggere un briciolo di preoccupazione.
Scosse la testa in segno di diniego, ma senza tristezza o frustrazione, malgrado si vergognasse un po’ di quella situazione: sapeva che i bambini della sua età dovevano avere molti amichetti, ma lui non era mai riuscito a legare con nessuno.
«Allora sono contento di essere il primo! Vuol dire che sono speciale per te».
«Sì che lo sei! Gli amici sono le persone con cui mi trovo bene, con cui posso parlare senza che mi guardino male, quelli che non mi fissano strano perché ho i capelli bianchi e quelli da cui mi faccio toccare senza sentirmi strano, penso». Aveva elencato tutti quei motivi sulle dita, dicendo quelli che gli erano venuti in mente, associati alla figura di Sawyer. Con lui accadevano tutte queste cose, quindi Yasha riteneva che un amico fosse una persona che rispettava questi quattro, semplici principi.
«E senti, siccome siamo amici…» il più piccolo si avvicinò a Sawyer con fare furbetto, «hai voglia di farmi un favore?»
«Non ne approfittare, eh!» Il suo nuovo amico gli diede una spintarella all’altezza della spalla, ridacchiando.
«Ma no! Mi fai un origami?»
Gli occhi di Sawyer sembrarono riempirsi di felicità, che, come una gomma, cancellò ogni traccia di tristezza da quei due pozzi scuri.
«D’accordo!» Gonfiò leggermente il petto, con fare orgoglioso e fiero. «Posso anche insegnarti a farne, se vuoi! Domani te ne porto uno, così ti faccio vedere come viene alla fine e come si fa, va bene?»
«Va bene» acconsentì il più piccolo. «Promesso?»
Ancora una volta, Sawyer sorrise, prima di mostrare il mignolo della mano destra a Yasha. L’albino lo strinse con il suo: era un simbolo di giuramento.
«Promesso».
 
 
***
 
Passò una settimana e mezzo, prima che Yasha e Sawyer potessero rincontrarsi.
Il piccolo Ivanov non aveva avuto occasione di incontrare prima il suo amico, poiché – come sempre – si era perso a parlare con lui, ritardando così all’appuntamento per tornare a casa con sua sorella. Anya aveva pensato bene di dargli una punizione, impedendogli di andare nel bosco per tutto quel tempo.
Passata la rabbia iniziale, Yasha si era reso conto che, in fondo, Anya lo faceva solo perché si era spaventata e, da quando i loro genitori erano morti, lei faceva di tutto per proteggerlo – anche se quel “di tutto” includeva la proibizione ad andare in pineta. Si era quindi sforzato di fare il bravo, di modo che Anya e la nonna gli consentissero di andare da Sawyer. Yasha non si era dimenticato della loro promessa: non vedeva l’ora di stringere tra le mani quell’origami che lui gli aveva promesso.
Il giorno in cui riottenne la sua libertà, il più piccolo di casa Ivanov corse fuori senza neanche aspettare di digerire il pranzo. Sperava solo che Sawyer fosse già in pineta; non aveva molta voglia di aspettare. Però, il suo amico, la sera prima, gli aveva promesso che sarebbe stato lì già nel primo pomeriggio.
Era certo che quel prossimo incontro sarebbe stato di sicuro più felice dello scorso: il giorno prima, infatti, gli Hunger Games erano finiti e il fidanzato della sorella di Sawyer aveva vinto, contro le scommesse che lo davano per spacciato solo perché era stato mandato in Arena come punizione. Nonostante la nonna e Anya gli avessero impedito di guardarli, l’albino era comunque andato in piazza con la sorella maggiore, e a nulla erano valsi i tentativi della giovane di coprirgli gli occhi proprio durante lo scontro finale: Yasha voleva guardare, non si sentiva più un bambino. Ricordava bene il sangue che schizzava sul volto del Vincitore, mentre calava l’ascia sul petto dell’avversario e aveva dovuto ammettere che un po’ di impressione gliel’aveva fatta. Però si sentiva stranamente fiero, come se fosse diventato grande.
E fu proprio durante la festa dopo lo sparo dell’ultimo cannone che lui e Sawyer si erano incontrati, promettendosi di vedersi il giorno dopo.
Le aspettative di Yasha non furono deluse: non appena arrivato in pineta, trovò subito il giovane Mason, seduto sotto lo stesso albero della volta scorsa.
Non appena i loro occhi si incontrarono, il più grande alzò un braccio, salutandolo allegramente. Yasha trotterellò fino al pino, sedendosi accanto a Sawyer.
«Hai visto che Keith ha vinto? Avevi ragione tu, l’altra volta!» esclamò il più piccolo, non appena si fu sistemato accanto all’amico.
Le labbra di Sawyer si stirarono in un sorriso allegro. «Te l’ho detto: Keith è forte. E poi adesso mia sorella è felicissima, a casa si respira un’aria molto più buona!»
«In tutto il Distretto si respira!» Yasha allargò le braccia, come a voler abbracciare l’aria che lo circondava. «Oggi sono tutti felici, pensa che stamattina mentre ero in piazza con mia sorella, la proprietaria del forno mi ha regalato un dolcetto». Il bambino si massaggiò lo stomaco con le manine, facendo intendere quanto avesse gradito l’inaspettato e squisito dono.
Sawyer fece una risata. «Dovevi prenderne uno anche a me!» esclamò, dandogli un colpetto scherzoso con le dita sullo stomaco.
Yasha ridacchiò, raggomitolandosi su se stesso per non ricevere altri colpi: soffriva tremendamente il solletico, e Sawyer lo aveva scoperto poco tempo prima.
«La prossima volta te ne prendo uno, obeschchannyy».
Il maggiore dei due aggrottò la fronte. «Obesch… che?»
«Obeschchannyy» ripeté più lentamente l’albino, scandendo bene le sillabe. «Vuol dire promesso!»
«Ah, tu e la tua lingua». Sawyer scosse la testa, sorridendo. «È un po’ difficile».
«Lo so, però se vuoi te la insegno!» propose Yasha, battendo le mani felice. «Però…» si avvicinò a Sawyer, sorridendo con aria furba, «prima mi insegni a fare un origami! E devi ricordarti della nostra promessa…»
«Promessa? Quale promessa?» Sawyer alzò gli occhi al cielo, mettendosi a fischiettare con aria innocente. «Io non ti ho promesso niente» disse poi, guardando il suo amico.
«E dai, non scherzare!» Yasha gli tirò un pugnetto sul braccio, sorridendo.
«Ma sei un po’ permaloso, eh?» Sawyer rise, allungando un braccio e muovendo le dita sul fianco dell’amichetto. Al solo sentire quel breve contatto, Yasha scattò in piedi, sottraendosi al tocco del piccolo Mason.
«Non mi fare il solletico, ti prego!»
Il suo amico, nel frattempo, era scoppiato a ridere. «Guarda che scherzo! Ti pare che mi dimentico la promessa che ti ho fatto?» Si alzò, poi, per dirigersi dietro un albero, mentre Yasha tornava al suo posto. Sawyer comparve pochi secondi dopo con alcuni fogli di carta ancora intonsi e un origami a forma di ancora in mano.
«Ecco qua la tua Yak… yakr… vabbè, hai capito, ecco qua la tua ancora!» disse, porgendogliela, prima di sedersi accanto a Yasha.
«Yakor’» ripeté il più piccolo, guardando quel piccolo regalo come se avesse ricevuto una barca di soldi. «È bellissimo, grazie!» esclamò, appoggiando l’origami ad una guancia come si appoggia, di solito, un cuscino o un peluche.
Sawyer sorrideva, evidentemente soddisfatto del suo lavoro. «E siccome mi hai chiesto di insegnarti, io ti ho portato questi» spiegò, agitando i due fogli che teneva in mano. «Così facciamo insieme un origami. Io lo preparo e tu segui i miei movimenti. È così che si impara. O almeno, io ho imparato così, a scuola» raccontò, porgendo un foglio all’amico. Yasha lo prese, sistemandosi agitato ed emozionato. Forse, finalmente, avrebbe imparato e sarebbe potuto diventare bravo come Sawyer, così li avrebbero potuti fare insieme. La sua mente già vagava agli anni successivi, immaginando lui e il suo amico come due grandi creatori di origami che avevano un negozio proprio lì, al Distretto 7.
«E magari mentre tu impari a fare gli origami, mi puoi dire qualche parolina in quella tua lingua strana, sperando che io la impari» propose il maggiore con un sorriso. «Come si dice origami
«Proprio così: origami». L’albino guardava con attenzione Sawyer, pronto a iniziare quella nuova avventura.
«Allora non è tanto difficile, dai. Qualche parola pronunciabile esiste, mica come quella che mi hai detto prima che a momenti mi mancava il fiato a dirla. E poi, dimmi qualche altra parolina, magari legata al bosco». Nel frattempo, dalla tasca dei pantaloncini aveva tirato fuori un paio di forbici dalla punta arrotondata. «Potrebbero servirci» spiegò, indicandoli.
Yasha appoggiò il gomito sulla coscia, con la mano chiusa a pugno contro la guancia, pensando a qualche parola in russo che avrebbe potuto insegnare a Sawyer.
«Allora… pino si dice sosna» cominciò, puntando il dito contro un sempreverde poco lontano.
«Sosna… facile! E albero?»
«Derevo. Anche questo non è difficile. E foglia si dice list». Sorrise. «Come vedi, le parole che si abbinano al Distretto 7, non sono difficili da pronunciare!»
«Quindi è davvero un bel posto». Sawyer sorrise di rimando, prima di lanciare un’occhiata veloce al foglio che ancora stringeva tra le dita. «Dai, iniziamo. Guarda, si fa così…»
Passarono diversi minuti, piegando lembi di carta. Gli occhi azzurri di Yasha non si staccarono neanche per un istante dalle mani ben più esperte di Sawyer, che sembravano quasi state create apposta per fare degli origami.
Un po’ a fatica, il piccolo tentò di stargli dietro, e molto spesso si sentì sconfortato, ma si sforzò di andare avanti: non l’avrebbe fatta la figura di uno smidollato, lui. Avrebbe creato un origami bellissimo e sarebbe diventato bravo quanto Sawyer, così poi si sarebbero divertiti a farne insieme senza che lui dovesse spiegargli tutto.
«Fa un po’ schifo» giudicò Yasha, una volta terminato il lavoro. In effetti, non era il massimo: spesso e volentieri aveva piegato male la carta e tutti quegli sbagli, a lavoro completato, si notavano. Il pino che aveva realizzato sembrava sbilenco, come se qualcuno avesse tentato di abbatterlo con un’ascia – abbattendo anche l’animo del bambino, per nulla fiero di quel lavoretto.
«Ma no, dai» disse Sawyer, prendendolo in mano e guardandolo da diverse angolazioni. «È il primo, non puoi pretendere che ti venga bene subito, al primo colpo. Quando ho cominciato, ho gettato via diversi fogli perché i miei facevano pena» tentò di rassicurarlo il suo amico.
Yasha annuì, poco convinto, fissando il pino realizzato da Sawyer – decisamente molto più bello del suo “piccolo sgorbio”, come aveva appena deciso di ribattezzarlo.
«Se lo dici tu».
«Ma sì, Yasha, che ti butti giù? Tu sei bravo in tante altre cose e sono certo che imparerai anche a fare gli origami». Sawyer gli scompigliò i capelli bianchi, un gesto che ai due ormai era molto familiare. Malgrado odiasse farsi toccare da estranei, Yasha permetteva al suo amico di farlo, perché era delicato e lo faceva con dolcezza, come un fratello maggiore.
«Senti, mi racconti un po’ come hai imparato a farne di così belli?» domandò il più piccolo, prendendo il suo lavoro che Sawyer gli stava restituendo.
Il bambino fece spallucce, appoggiando il suo origami per terra. «Mi sono esercitato parecchio. Ho visto il maestro che lo faceva a scuola e ho voluto imitarlo perché era davvero bravissimo». Prese in mano le forbici, infilandole nella tasca dei pantaloncini. «E poi a casa, imitavo quello che faceva Sloane. Anche Johanna è brava, ma lei non aveva voglia di insegnarmi, diceva che dovevo fare da solo come tutti i Mason. E quando glieli facevo vedere, mi diceva solo “non male”, però un po’ si vedeva che stavo migliorando perché sorrideva in modo strano».
«Allora magari diventerò bravo anche io».
«Lo diventerai di sicuro». Sawyer fece un sorriso affettuoso. «Devi prendere confidenza con la carta, sentirla come una cosa viva. Almeno, quando faccio gli origami è questo che sento».
«Ma sai che l’ho notato pure io? Nel senso che è bello vedere come la carta che è una cosa ferma e morta diventi un oggetto tanto bello, quasi simile al vero. È così fragile, ma è tanto bella quando la si trasforma in un origami». Yasha fece girare davanti agli occhi il pino creato da lui.
«Sì, è una cosa bella. Significa che anche le cose più fragili possono essere tanto belle. O almeno, a me piace pensarla così». Sawyer si grattò la nuca, guardando impensierito il suo origami.
«Che poi, se ci pensi, qui è tutto di carta». Yasha portò le ginocchia al petto, circondandole con le braccia. «Tutto» ripeté in un soffio. Non sapeva spiegarsi quella malinconia che aveva preso il sopravvento, ma pensando alla fragilità della carta gli era venuto automatico fare quel collegamento: le persone – tutte – erano di carta. Fragili. Facili da spazzar via. Bastava un tocco. Una fiamma. Un’onda – proprio com’era successo ai suoi genitori.
«In che senso, Yasha?» Sawyer lo guardò stupito, avvicinandosi preoccupato.
«Guarda le persone. Guarda come sono fragili. Sono di carta. Siamo tutti di carta. Il mondo è di carta. È tutto così fragile».
«Ma chi ti fa fare dei pensieri così tristi a cinque anni?» Il maggiore dei due fece un mezzo sorriso, dandogli un buffetto amichevole sulla guancia. «Però hai ragione. Siamo tutti fragili. Come la mia mamma. Come i tuoi genitori. Prima erano qui e poi… puf!» Sawyer fece un gesto con le mani, imitando qualcosa che scompariva all’improvviso. «Basta poco a volare via».
«Spero solo che anche mia sorella e nonna non siano così fragili. Spero che siano cartone e non carta velina. E anche le tue sorelle. E il ragazzo di tua sorella. E tu».
«Io?»
«Tu. Ho paura che ogni cosa che si avvicini a me faccia una brutta fine. Ma tu sei forte, eh? Tu non mi abbandoni e nemmeno Anya. Siete di cartone».
Sawyer gli rivolse un sorriso radioso e Yasha si ritrovò a pensare che quella definizione gli calzava a pennello: era forte, lui, difficile da rompere, proprio come il cartone.
«Me lo prometti? Non voli via da me?»
«E tu? Che intenzioni hai?»
L’albino strinse le labbra, facendosi ancora più piccolo. «Io… voglio essere di cartone, ma mi sento di carta velina» concluse. «Ma se mi metto sopra un sasso, forse non volo via» concluse, sorridendo.
«Tu sei cartone, Yasha. E io e te saremo sempre amici».
«Non voli via, allora? Promesso?»
«Promesso».
Il pomeriggio andò avanti così. Chiacchierarono tutto il tempo, di cose più o meno profonde, a volte divertenti, a volte tristi.
Yasha si divertiva molto, in quei pomeriggi. Per un attimo, non si sentiva più un bambinetto strano di cinque anni e mezzo, ma diventava improvvisamente grande.
Stare con Sawyer gli piaceva anche per questo: aveva quattro anni più di lui, ma non lo trattava come un nanerottolo rompiscatole. Il che faceva capire a Yasha quanto il suo amico fosse davvero una persona fantastica.
Era la prima volta che voleva bene a qualcuno oltre ad Anya e alla nonna – fino a quel momento, loro due erano state tutta la sua vita. Ma Sawyer, con i suoi sorrisi, le sue chiacchiere, il suo ascoltarlo anche quando diceva cose strane per un bimbo della sua età, stava conquistando sempre di più la sua fiducia.
Era come il fratello maggiore che non aveva mai avuto; un fratello maggiore che fisicamente era diversissimo da lui, ma che gli somigliava più di quanto sembrasse.
Yasha avrebbe voluto che quella loro amicizia durasse per sempre, ma non voleva che fosse uno di quei bei sogni che lui ogni tanto faceva, quelli dopo i quali si svegliava e aveva solo voglia di piangere, perché erano stati bellissimi, ma falsi.
Ma sapeva che Sawyer era troppo vero. Non poteva essere falso, lui. Era cartone, difficile da rompere.
Ad interrompere quella loro chiacchierata, ci pensò una voce femminile, a cui seguì l’immagine di una ragazza dai fluenti capelli bianchi che correva verso di loro.
Yasha sentì un brivido corrergli lungo la schiena, mentre sentiva le campane dell’orologio cittadino che suonavano le sei di sera. Era tardissimo; Anya doveva di sicuro essere arrabbiatissima, considerata la promessa del fratellino di tornare a casa per le cinque e un quarto.
«Yakov Nikolaevič Ivanov» scandì la tredicenne, piazzandosi davanti a lui con le mani sui fianchi. Quando lo chiamava con il suo vero nome, il patronimico e il cognome, significava che lui era nei guai.
Non appena l’aveva vista, Yasha si era affrettato a rialzarsi, seguito a ruota da un Sawyer con un’espressione interrogativa in volto.
«Ciao, sorellona!» la salutò allegramente, facendole la solita faccia da angelo, per cercare di addolcirla. «Guarda qua!» esclamò, vedendo che Anya aveva aperto la bocca per fargli la solita ramanzina. Le mostrò l’origami fatto da lui e quello che gli aveva regalato Sawyer, a forma di ancora.
La ragazza gli lanciò uno sguardo con quel cipiglio minaccioso che aveva quando si arrabbiava, ma si abbassò ad osservare i due lavori.
«Quello a forma di pino è mio, infatti è brutto. Quello a forma di ancora me l’ha regalato Sawyer» spiegò il bambino, indicando il suo amico con un cenno del capo e girandosi per lanciargli una breve occhiata.
Anya li guardò in silenzio, prima di prendere quello a forma di ancora tra le dita per osservarlo più da vicino. Il suo sguardo arrabbiato era sparito, sostituito da un grande stupore.
«È molto bello. Sei bravissimo, Sawyer!» si complimentò con il ragazzino che, nel frattempo, si era affiancato a Yasha.
Sawyer avvampò e abbassò lo sguardo, fissando intensamente l’origami a forma di pino che stringeva tra le mani. «Io… grazie» borbottò, alzando appena gli occhi – quel tanto che bastava perché incontrassero quelli color del cielo della sua interlocutrice.
«A scuola ci hanno insegnato a farli, ma non sono mai stata brava. Tu hai un grande talento!»
Sawyer arrossì ancora di più. «Posso regalartene uno, o insegnarti… o tutti e due» balbettò, guardando la ragazza dai capelli bianchi con fare intimidito.
Anya fece una risata. «Non ho tempo per imparare a farne uno, purtroppo».
«Allora… tieni». Sawyer allungò un braccio, porgendole il pino di carta, ma senza avvicinarsi di un passo.
Yasha aveva guardato tutta quella scena con fare stupito e un po’ infastidito: non aveva mai amato che qualche maschio si avvicinasse troppo a sua sorella. Sawyer, però, era suo amico e forse poteva perdonarglielo. Bastava che non si avvicinasse di più.
Alla fine, lui non fece niente, ma Anya, preso il regalo inaspettato con un sorriso radioso, si abbassò verso il ragazzino e le sue labbra incontrarono la guancia sinistra di Sawyer.
«Grazie!» esclamò contenta, mentre Yasha temeva che il suo amico svenisse da quanto era arrossito. «Andiamo, pulcino?» chiese poi, tendendo la mano al fratellino. L’albino l’afferrò, sorridendo.
«Ciao, Sawyer! Grazie per avermi regalato l’origami e per il bel pomeriggio! Ricordati della nostra promessa».
Forse era una cosa un po’ stupida da dire – si rimproverò poi – in fondo, le persone non potevano scegliere o meno, quando volare via. Ma quando Sawyer gli sorrise, si sentì rassicurato.
«Mi ricorderò. Io le mantengo sempre, le promesse».
 
***
 
 
L’odore di bruciato permeava nell’aria, anche dopo giorni in cui l’incendio era stato estirpato.
Quanto tempo gli era occorso per decidere lì andare lì, in quel luogo? Ci aveva provato ogni giorno da quando la pineta era stata invasa dalle fiamme, ma ogni volta che metteva piede fuori casa, sentiva l’odore del legno, delle foglie, delle persone carbonizzate che gli riempiva le narici e si costringeva mentalmente a tornare sui suoi passi.
Gli occhi di Yasha abbracciarono quel luogo a lui tanto familiare, di cui ora non restava più nulla, se non qualche spoglio albero annerito dalle fiamme e una distesa scura, in cui non era rimasto neanche un colore.
Guardò con attenzione quel posto, in cui lui tanto si era divertito negli anni addietro, in cui aveva giocato, pensato, chiacchierato.
Il luogo di morte del suo migliore amico.
Il bambino cadde in ginocchio, spezzato, arrabbiato, devastato.
Una lacrima solitaria iniziò a scorrergli lungo la guancia, facendosi strada verso il mento e cadendo poi a terra, umidificando leggermente quel terreno ormai arido.
Arido di vita.
Poteva quasi vederlo, Yasha. Come un fantasma, Sawyer sembrava lì, sotto il pino dove lui tanto spesso lo aveva trovato intento a creare un origami, a dormire, dove spesso avevano chiacchierato e dove Sawyer lo aveva convinto, qualche volta, a giocare con gli altri bambini.
Era ancora lì, la sua presenza. Yasha lo sentiva dall’odore di bruciato, lo vedeva in quel minuscolo pezzo di carta semicarbonizzata che si posò accanto a lui, sospinta dolcemente dal vento.
La spinse via con rabbia, cercando di farla andare il più lontano possibile da lui.
Carta, fragile carta, cedevole carta. Quella che Sawyer tanto amava lavorare per creare dei bellissimi origami, quelli che Yasha – al contrario del suo amico – non era mai riuscito a fare.
Quel pezzetto sospinto dall’aria fresca gli ricordava Sawyer. Era un pugno nello stomaco, uno schiaffo inaspettato, una secchiata d’acqua gelida in una giornata invernale.
Era il monito che gli ricordava quanto fragili fossero le persone; quanto fragile era stato il suo amico.
Perché tutto sembrava diventare di carta, quanto c’era il fuoco. Anche Sawyer si era trasformato in carta, era diventato un origami e il fuoco lo aveva bruciato, portato via da Yasha, privato della sua vita.
Gli aveva detto che era di cartone, che non sarebbe volato via da lì, ma alla fin fine dinnanzi alla potenza delle fiamme, anche lui si era trasformato in semplice, cedevole carta velina e nessun sasso era stato posato su di lui per tenerlo ancorato al Distretto 7.
«Me lo avevi promesso» biascicò l’albino, abbassandosi quasi a sfiorare il terreno con la fronte. Quella lacrima che prima era scesa a terra solitaria era stata seguita da un’altra, poi un’altra ancora, fino a trasformarsi quasi in un fiume in piena che scorreva lungo le guance pallide del bambino.
«Mi avevi promesso che saresti stato di cartone, ma non lo eri».
Si era sforzato di trattenerle, nei giorni precedenti. Aveva tentato di soffocare il suo dolore, comprimerlo, gettarlo in fondo al suo animo e chiuderlo a chiave, ma era bastato rivedere il luogo dove Sawyer era morto per riaprirlo. La sua anima aveva una serratura troppo malandata, arrugginita a causa di quel lungo periodo in cui aveva trattenuto tutte le emozioni troppo forti da provare.
Singhiozzava. Un corpicino bianco in un luogo nero. Nero come il lutto. Il lutto per il suo migliore amico che se n’era andato troppo presto.
 

 
***
 
«Devi proprio andare?»
Sua figlia lo guardava con aria supplichevole; i capelli bianchi su cui spuntavano delle ciocche arancioni erano legati in una coda scarmigliata, che faceva di tutto, meno che tenere a posto la sua folta capigliatura.
Yasha le spostò una ciocca ribelle dietro l’orecchio, sorridendo appena. «Sarà solo per pochi giorni, Anya. Torno presto, davvero».
Anya. Anya Kristina.
L’aveva chiamata così, come sua sorella e come sua madre. Come due delle persone a cui teneva di più al mondo e che, come fragile carta, erano state spazzate via.
«Ma uffa» si lamentò la dodicenne, incrociando le braccia al petto. «Avevi detto che prima o poi dovevamo andare al Distretto 2, a farci un giro in montagna».
«Ci andiamo settimana prossima, Anya» si intromise Phoebe, sua madre. «Papà torna e poi andiamo tutti insieme».
«Mamma ha ragione, tesoro». Yasha rivolse un sorriso a sua moglie. «Non fare i capricci, dai. E vedi di non toccare più questi capelli» l’ammonì, prendendo una delle ciocche arancioni tra le dita.
La ragazzina abbozzò un sorriso furbetto. «E se me li tingessi tutti d’azzurro, questa volta?»
L’uomo sospirò, lasciando andare i capelli della figlia. «Quando sarai maggiorenne e quando tuo padre vorrà farteli tingere. Li rovini, a fare così, pulcina».
«D’accordo» acconsentì la dodicenne, alzando gli occhi al cielo. «Però ti posso venire a trovare al Distretto 3? Ti prego, papi». Le sue braccia circondarono la vita Yasha, mentre lo guardava con il labbro sporto in fuori, in un’espressione supplichevole.
L’uomo si girò verso la moglie, lanciandole uno sguardo ironico, al quale Phoebe rispose con una scrollata del capo e un’alzata di spalle – quei vani tentativi della figlia di risultare persuasiva erano ormai una costante, a casa loro.
«Hai la scuola, Anya» le ricordò gentilmente Yasha, posando le mani sulla schiena della dodicenne. «La scuola, il tuo fratellino da accudire quando mamma e papà lavorano, i compiti…»
Anya aveva già alzato la testa per guardarlo con un’espressione torva e arrabbiata; i suoi occhi azzurri mandavano scintille.
«E che palle, però, potevo nascere secondogenita, almeno non devo curare quell’esserino dalla mente super sviluppata a soli sette anni» borbottò, sciogliendo l’abbraccio e tornando alla stessa posizione di prima.
«Quell’”esserino dalla mente super sviluppata” che tu adori». Yasha le diede un buffetto sulla guancia paffuta, resa ancora più gonfia dal broncio che la faceva assomigliare vagamente a un criceto.
«Mica tanto, quando mi manda via dalla sua stanza perché deve pensare».
«È fatto così. Anche io gli assomigliavo, alla sua età». L’uomo alzò le spalle, sospirando. «Magari domenica, d’accordo? E solo, solo, solo se fai la brava. Guarda che mamma ti controlla». Indicò la moglie con un cenno del capo, mettendosi a braccia conserte.
L’espressione della figlia passò da imbronciata a radiosa. «Grazie, papino!» esclamò, gettandogli le braccia al collo e scoccando un bacio sulla guancia – perfettamente glabra, malgrado l’età – del padre.
«Ora posso andare a letto! Notte!» esclamò poi tutto d’un fiato, correndo verso la madre per darle un bacio, prima di salire velocemente le scale e sparire nella sua stanza.
Yasha fece una risata, passandosi una mano tra i capelli bianchi – che ora, mentre invecchiava, non erano più tanto fuori luogo come quando era ragazzino e i suoi coetanei li avevano di un colore normale.
«È tremenda» commentò Phoebe, avvicinandosi al marito.
«Lo so. Ti somiglia davvero tanto». L’uomo rise sotto i baffi, beccandosi così un pugno sul braccio dalla consorte.
«Vado a lavare le tazzine che quei due hanno lasciato in cucina» annunciò Phoebe, muovendo un passo verso la stanza adiacente al salotto. «Tu che fai?»
«Vado a dormire». Yasha sbadigliò, sentendosi improvvisamente stanco. «Domani mi dovrò svegliare presto. Il treno parte alle otto meno un quarto». Sorrise, abbassandosi per dare un bacio alla moglie. «Buonanotte».
Dopo anni, ancora gli faceva strano tutto quel contatto umano che lui per anni aveva detestato – a meno che lo toccassero Anya o sua nonna o Sawyer, beninteso. Con Phoebe era diverso; lei era diversa. E quando erano nati i loro bambini, Yasha si era reso conto che adorava essere circondato da persone a cui voleva bene e, soprattutto, si era ricordato com’era avere qualcuno da amare.
Dopo che la moglie gli ebbe augurato la buona notte, l’albino si diresse verso il piano superiore, dove quattro stanze ospitavano gli abitanti della loro casa.
Appena messo piede in corridoio, una luce sospetta proveniente dalla prima camera a sinistra attirò la sua attenzione, facendo sì che si dirigesse verso la porta in legno, sulla quale erano appese delle lettere colorate che formavano un nome: Nikolaj, come si chiamava il suo secondogenito.
Yasha fece un sorrisino. Il bambino aveva detto che sarebbe andato in camera a dormire, ma era evidente che stesse facendo tutt’altro. Per un attimo, Yasha si sentì portare indietro nel tempo, a quando anche lui aveva sette anni – come il figlioletto – e stava ore e ore sveglio, a pensare, a leggere, a cercare di fare conversazione con sua sorella, che aveva solo voglia di stare sdraiata sotto le coperte a dormire.
Le sue nocche batterono piano contro la superficie lignea, ma non ottenne risposta. Riprovò, con maggiore energia.
«Niko? Guarda che lo so che sei sveglio».
Dall’interno, si udì uno scalpiccio leggero e Yasha si decise ad aprire la porta.
Il tentativo di far vedere che dormiva di Nikolaj era evidente: il padre lo beccò proprio mentre stava per spegnere l’abat-jour, ma la posizione a gambe incrociate e i fogli sparsi sul pavimento indussero Yasha a pensare che stava fingendo.
«Facciamo i furbetti, eh?» chiese ironico l’uomo, appoggiandosi allo stipite della porta.
Il bambino abbassò lo sguardo, dondolando leggermente con il busto.
«Scusa» mormorò. «Giuro che non lo faccio più, però…» lasciò la frase in sospeso.
«Però…?»
«Però volevo finire quelli!» L’indice della mano destra corse ad indicare i fogli sul pavimento.
Chiudendo la porta dietro di sé, Yasha si avvicinò a tutto quel marasma lasciato a terra dal figlioletto. Una cosa aveva subito attirato la sua attenzione: una scheda con delle figure e un foglio piegato a forma di pino.
Si abbassò, allungando un braccio finché le sue dita non incontrarono quell’origami. Ebbe come l’impressione di una scossa che gli attraversava il braccio, mentre lo prendeva per osservarlo più da vicino.
Il volto del suo amico Sawyer si materializzò nella sua mente, proprio com’era quando era morto, quando si era trasformato in un pezzo di carta e un incendio lo aveva carbonizzato.
«Hai visto che schifo?»
L’uomo non si era nemmeno reso conto che il piccolo si era avvicinato a lui, guardando l’origami con espressione imbronciata.
Yasha gli scompigliò i capelli castani. «È il primo che fai?»
«No». Lo sguardo di Nikolaj si rabbuiò. «A scuola ho provato a farne almeno dieci, ma non riuscivo e ho sempre gettato il foglio. E stasera ancora. Sono impedito».
«Ti aiuto, vuoi?»
Yasha sapeva che era una domanda retorica: Nikolaj era solito rispondere di no, a quel tipo di quesiti. Testardo com’era, il piccolo Ivanov voleva sempre far tutto da solo, senza l’aiuto del suo papà, della mamma o della sorella. Yasha si rivedeva in lui, in quel carattere chiuso e ostinato, ma decisamente meno dispettoso di com’era lui alla sua età. Malgrado fisicamente non si somigliassero per nulla, poiché Nikolaj era identico a sua madre, Yasha sapeva che erano quasi uguali. Esattamente come lui e Sawyer molti anni prima.
«Beh, se proprio hai voglia» cedette il bambino, sedendosi a gambe incrociate sul pavimento. Yasha sorrise, prendendo un foglio da terra e porgendoglielo.
Passarono una buona mezz’ora a piegare carta: di tanto in tanto, Nikolaj si arrabbiava perché non riusciva, oppure voleva gettare via il foglio, con la scusa che l’origami stava venendo da schifo.
Tuttavia, alla fine riuscirono a completarlo, tra gli incitamenti di Yasha e l’impegno che Nikolaj mise sempre di più a quel piccolo lavoro.
«Non è poi schifoso, dai» commentò il bambino, stringendo tra le mani l’abete di carta.
«È solo il primo, Niko. La prossima volta andrà meglio» lo tranquillizzò Yasha, alzandosi in piedi. Il figlio lo imitò, facendo cadere l’origami a terra, ma continuando a fissarlo.
«E levati quel broncio, dai!» L’uomo lo sollevò da terra all’improvviso, levando al bambino un gridolino sorpreso. Lo mise sul letto, muovendo le dita sui suoi fianchi, mentre lui si dibatteva e rideva allo stesso tempo – soffriva il solletico, da morire, esattamente come lui.
«Visto che hai riso?» Yasha diede un pizzicotto sulla guancia al figlioletto, sorridendo.
«Sì, però non farlo più». Nikolaj protesse i suoi fianchi con le braccia. «Senti, ma te la posso chiedere una cosa?»
«Me l’hai già fatta una domanda, chiedendomi ciò» ribatté Yasha scostando le coperte.
Il piccolo sbuffò, alzando gli occhi blu al cielo. «Un’altra cosa!» lo rimbeccò, allungando le gambe sul letto e permettendo al padre di rimboccargli le coperte.
«D’accordo, chiedimela». Yasha si sedette accanto al piccolo, scostandogli un ciuffo di capelli dalla fronte.
«Come hai imparato a fare gli origami?»
L’uomo sentì un brivido corrergli lungo la schiena, ripensando ancora una volta al suo amico deceduto. Non aveva parlato di Sawyer ai suoi figli, solo a Phoebe una volta, ed erano anni che non prendeva in mano un foglio di carta per fare un origami.
Ci aveva provato una sola volta, a nove anni, poco dopo la morte di Sawyer. Si era seduto, il foglio stretto tra le mani che tremavano, anche se non c’era nulla di cui avere paura.
Non ci era riuscito. Dopo i primi minuti, si era sentito quasi male, l’odore di bruciato era tornato nelle sue narici e lui aveva allontanato il foglio, quasi disgustato da ciò che stava facendo, da ciò che stava provando.
E poi non aveva più fatto nulla. A scuola avevano provato ad insegnargli, ma lui non era mai stato bravo in quel genere di cose. Senza Sawyer, poi, che era la sua guida e il suo maestro preferito, si sentiva ancora di più un incapace e sapeva che non sarebbe mai diventato bravo.
«L’ho imparato a scuola. E poi avevo un amico che era un mago, in certe cose» rispose a bassa voce, come se stesse rivelando un segreto al figlioletto.
«Un amico? E chi era?» Nikolaj aggrottò la fronte con fare perplesso. Yasha era conscio che il piccolo sapeva della sua poca inclinazione alla socialità.
«Si chiamava Sawyer. Aveva quattro anni più di me ed era il fratello di Johanna. Ti ricordi quella donna un po’ strana, che non ama tanto i bambini e che abbiamo incontrato qualche volta?» Nikolaj annuì, sbadigliando sonoramente. «Ecco. Era un mio amico ed era davvero bravo a farli» concluse. Non sapeva se avesse o meno la forza di continuare. Ogni parola era sale gettato su una ferita che ancora non si era del tutto rimarginata.
«E com’era?»
«Molto simpatico». Yasha fece un sorriso stanco. «Era diverso da me, fisicamente. Il mio opposto in pratica: aveva i capelli neri e gli occhi scuri, e anche la sua pelle era olivastra. Eravamo una coppia un po’ stramba, in effetti. Il giorno e la notte. Però eravamo simili e parlare con lui mi piaceva».
«Hai parlato al passato». Nikolaj inarcò le sopracciglia. «È morto?»
«Sì». L’uomo annuì, abbassando lo sguardo a fissarsi le mani; aveva passato tutto quel tempo a torturarsi le dita, quasi volesse strapparsi le falangi. Non aggiunse altro, e a Nikolaj sembrò bastare: non fece altre domande.
Si mise a sedere, però, e le sue braccia circondarono la vita del padre.
Passato un attimo di stupore iniziale – Nikolaj non era famoso per le sue manifestazioni d’affetto – Yasha strinse a sé il figlioletto, con delicatezza, come se avesse paura di romperlo.
Era un’emozione strana, quella che provava in quel momento. Sapeva solo di stare bene, in un modo incredibile, come poche volte gli era successo.
«Me lo fai un favore quando torni, pà?» Niko alzò la testa, e i suoi occhi blu incontrarono quelli del padre. «Mi fai un origami? E quando torni, mi insegni a farne?»
L’uomo sorrise, facendo una carezza sulla guancia del piccolo.
«Certo».
«E poi però non voli via da me come ha fatto il tuo insegnante di origami con te, vero? Tu resti qui, stai con me?»
Yasha sentì uno strano nodo in gola, come se qualcuno lo stesse stringendo troppo. «Certo. Io sono di cartone. Non sono un foglietto di carta, ci vuole un po’ a rompermi». Fece l’occhiolino e Nikolaj rispose con un sorriso compiaciuto.
«Promesso, papi?»
«Promesso».
Yasha sperò solo che quella fosse una promessa facile da mantenere. Ma guardando gli occhi blu di Nikolaj, del sangue del suo sangue, seppe che ce l’avrebbe fatta: avrebbe anche scalato una montagna, per lui, per Anya, per Phoebe.
Lo avrebbe fatto anche per Sawyer.
Un giorno gli avevano spiegato che le persone morte restavano sempre, in un modo o nell’altro. Nei ricordi, nelle pagine di un diario, negli origami che lui e Nikolaj avrebbero fatto insieme.
Inizialmente non ci credeva: quando i suoi erano morti, Yasha non li vedeva più, non sentiva la loro presenza. Erano solo figure che lui neanche ricordava.
Ora, però, aveva la certezza che Sawyer fosse ancora lì, in quei fogli che giacevano sul pavimento, nel pino di carta che Nikolaj aveva realizzato.
I ricordi non erano di carta. Restavano. Erano cartone.
E anche Sawyer, sebbene fosse stato ucciso dalle fiamme, fosse stato spazzato via, lo era.
Cartone, resistente, forte.
Alla fine, aveva mantenuto la sua promessa: non era volato via.
 

 
***
 
¹Rebenok significa monello.
 


 
Avviso di servizio: ogni recensione vale una copia autografa della foto di Finnick vestito con il costume da Babbo Sirenetto, il che significa che indossa un costume da Babbo Natale che "lascia un sacco di pelle scoperta" [-cit.] ♥

 


Alaska's corner

Ciao!
Torno a pubblicare, visto che è un po' che non pubblico roba nuova. xD 
Comunque... che dire? Questa storia l'ho scritta per l'iniziativa "Caro, babbo Sirenetto" del gruppo facebook The Capitol, a cui dovete iscrivervi o vi mando Finnick con il costume da Babbo Natale a punzecchiarvi con il tridente u_u 
Allora... spieghiamo alcune cose. Come ho già detto, Sawyer è un OC di Kary91, fratello di Johanna e sono in ansia perché temo di averlo reso OOC *///* OC di Kary è anche l'altra sorella di Sawyer, Sloane, che ho citato ad un certo punto insieme ad un tale di nome Keith, che io assolutamente non conosco. A parte gli scherzi, Keith è un mio OC che è fidanzato appunto con la sorella di Sawyer, e ho voluto ambientare le prime scene durante gli Hunger Games da lui vinti perché Yasha e Sawyer si sono conosciuti da poco, poiché io e la creatrice del piccolo Mason volevamo farli incontrare quando Pulcino ha cinque anni e Sawyer nove.
Comunque, per rendere degnamente il mio creatore preferito di origami (♥) mi sono basata su alcune cose che mi ha raccontato Kary di lui: gli piacciono fare gli origami - soprattutto a forma di ancora - e ha imparato a farli a scuola, anche se poi lo ha aiutato sua sorella Sloane, mentre Johanna siccome è sempre gentile (xD) gli ha detto che i Mason imparano tutto da soli. Eeee, niente, faccio un po' di spam mica tanto occulto: se volete saperne di più su di lui, vi consiglio di leggere queste due storie in cui compare: Close your eyes e Io non ho paura. Ovviamente non vi obbligo a leggerle, ma il Sirenetto potrebbe punzecchiarvi con il tridente affinché lo facciate e io approvo u_u Ah, e sempre di Kary è stata anche l'idea che i due si dicessero sempre "Promesso?" "Promesso" e anche la cosa dell'essere simili malgrado le diversità fisiche e caratteriali - i due ricordano un po' i protagonisti di Io non ho paura, sotto questo punto di vista. Insomma, leggete il libro che è bello e affogate nei vostri feel Sasha (?) (Hanno anche un nome bromance, eggià :'D) 
Uh, e sempre di Kary è l'idea che Sawyer avesse una cottarella per Anya, mentre io ho inventato la questione del bacio sulla guancia ♥ Se Anya non fosse già promessa a Jonathan (altro mio OC) e non fosse morta, li avrei voluti vedere sposati e con bambini (?). 
Pooooi, che dire. Allora, sì, vi devo spiegare che Yasha si comporta in modo strano a cinque anni e mezzo perché... beh, è un po' strano come bambino, nel senso che ha un quoziente intellettivo pari a 200, quindi è proprio stupido ♥
Scherzi a parte, lui è davvero taaaaanto intelligente, quindi capita che faccia dei ragionamenti un po' contorti. Davvero, scrivere dal suo punto di vista è come fare un viaggio in lavatrice. Specie da adolescente: è l'angst che cammina. 
Ah, volevo solo dire che io il russo non lo so, lo studicchio un po' da autodidatta in attesa (forse) di farlo all'università, quindi chiedo Venia (maiuscolo, if you know what I mean) per eventuali errori, ma su internet è quasi impossibile trovare un dizionario di russo, ci sono solo quelli di inglese, tedesco e francese. (E menomale, almeno sono messa bene quando devo fare i compiti). 
E vi devo spiegare un po' che accade tra le prime due scene e la terza e tra la terza e la quarta. 
Allora, dopo i sessantanovesimi Hunger Games è andato tutto più o meno bene. Sawyer è diventato zio di uno splendido bimbo di nome Egor (♥) che è figlio di Keith e Sloane, mentre Yasha è uno sfigato, quindi era nella merda coi soldi perché nonna Tatiana non poteva lavorare e sua sorella ha iniziato a prostituirsi all'età di quattordici anni per mantenere la famiglia. 
Durante i settantunesimi Hunger Games, Johanna è stata estratta, ha vinto, Snow le ha gentilmente proposto di vendere il suo corpo a qualche simpaticissimo capitolino e lei ha altrettanto gentilmente rifiutato, così Snow le ha gentilmente ucciso la famiglia in un casualissimo incendio in pineta. Sdrammatizziamo per non piangere, ve prego, che ho le lacrime di commozione. E quindi sì, anche il piccolo Sawyer - all'epoca tredicenne - è morto. 
Dopo questa spiacevole vicenda, Yashuzzo il Pulcino Russo si è un po' ripreso, peccato che siccome è davvero tanto sfigato, per i settantatreesimi Hunger Games è stata estratta sua sorella ed è morta. 
Poi c'è stata la rivolta, in cui un piccolo soldato Yasha ha combattuto, gli è morta pure la nonna, è andato in orfanotrofio, ha fatto il matto, prendeva voti di merda a scuola, gli piaceva solo la matematica, finché a quasi diciannove anni ha incontrato l'Ammmmmmmmmore, si è sposato e ha procreato.
E io sono tanto felice perché ho presentato al mondo il mio piccolo Nikolaj *_* Che è un po' strano. Ma peggio del papà suo. Solo che le stranezze iniziano a manifestarsi durante l'adolescenza, prima è quasi normale, a parte il fatto che è un pochino stupido come Yasha. 
Comunque, faccio altro spam occultissimo e lascio alcuni link utili per ricostruire un po' la storia di Yakov: La solitudine dei numeri primiSafe and soundCome le onde del mareNumbers.
Finish. 
Il titolo è chiaramente ripreso da Paper Towns di John Green, che ho letto quest'estate e mi sembrava appropriato citarlo in una storia del genere. 
Spero vi sia piaciuta. Scusate per le note chilometriche, ma logorroica is the way e c'erano mille cose da spiegare.
Ringrazio tanto Kary per avermi permesso di usare Sawyer e anche per aver creato un personaggio tanto bello ** Spero di non averlo reso OOC! 
Alla prossima e buon Natale, anche se tornerò prima,
Alaska. ~ e il Sirenetto forever accanto a lei.
   
 
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