Recensioni per
Cuori, quadri, fiori, picche: welcome to Wonderland
di syontai

Questa storia ha ottenuto 581 recensioni.
Positive : 581
Neutre o critiche: 0


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Recensore Veterano
24/06/14, ore 16:07

Salute, o mortale! Inchinati, di fronte alla mia magnificenza! Prostrati al mio potere!
Ok non sapevo che dire per iniziare e quindi ho pensato che tu ai miei piedi che mi adori e mi veneri poteva sembrare qualcosa di carino o entusiasmante...e poi se per una volta ho uno sfogo di originalità non sei nessuno per sopprimere la mia vena creativa!
Non so che cosa ultimamente mi stia prendendo, ma sono in piena crisi creativa, quindi mi sento in dovere di sparare cose a caso senza un minimo di coerenza e/o pertinenza!
Ma ok, sono qui per recensire e per questo direi di andare al sodo!
Violetta è in piena ansia, infatti Lena ha sgamato lei Leon in atteggiamenti non esattamente coerenti al rapporto principe/cameriera, ma scusa Lena io ti picchio perché te i Leonetta meli devi lasciare stare, forse perché tu in tutto questo groviglio di avvenimenti sei l'unica zitella, ma ciò non ti autorizza a volerli separare!
Anche Leoncino sembra aver passato una nottataccia, ma a differenza di Violetta, che spera che Lena ci ripensi da sola, Leon sembra deciso a mettere le cose n chiaro con lei, anche a costo di usare modi non esattamente carini e gentili...
E in più Jade che insiste con questo "matrimonio" con Ludmilla: virgoletto il termine per il fatto che non ha senso unire in matrimonio due persone se poi ognuno è libero di stare e fare...certe cose con chi vuole! Ma allora sposarsi che senso ha? Maledette usanze vecchio stile... E poi...la frase di Jade...Mi ha fatto salire l'ansia, forse più che a Leon
Awwww momento Leonetta in gran segreto!!! Che amori!!!
Però ho come il sospetto che questa partita a nascondino non durerà troppo a lungo e non finirà neanche bene...E non dire che penso male perché nelle tue storie finisce sempre che l'inghippo è dietro l'angolo!
Intanto la nostra Lena corre a parlare con Humpty, il quale sa già tutto, e alla fine Lena si ritrova sola a parlare con Leon...OMMIODDIO!! LEON CHE SI INCHINA PER LENA!!!! In u certo senso me lo immagino, stile gatto con gli stivali di Shrek ci mancava solo il cappello. Che poi con
quegli occhioni verdi ha di certo fatto il suo effetto!
Ma anche Violetta che fa la gelosa ha il suo lato comico XD
Cavolo. Ludmilla. E'. Arrivata.
Diamine, adesso le cose si complicano, i Leonetta sono compromessi...
Bene, mi complimento come sempre, il capitolo è bellissimo e aspetto con ansia di leggere il successivo!
A presto e un abbraccio (e la nutella è mia!!!!)
Rio (*lancia arcobaleni*) ♦

Recensore Junior
22/06/14, ore 14:29

È molto commuovente questo capitolo!!!
Ho pure pianto😭😭😭
La parte che mi piace tanto è:
Marco saliva la scalinata al suo fianco, lanciandogli occhiate sospettose.
“Penso di aver capito perché tu non vuoi che mi avvicini a Violetta” disse a metà, con apparente tranquillità. Leon si immobilizzò di colpo, stringendo i denti, e voltandosi a rallentatore verso il mago.
“Non so proprio di cosa tu stia parlando” si difese subito, senza pensarci nemmeno un secondo.
“E’ ovvio che vorresti quella ragazza tutta per te, ma lei ti sfugge come l’acqua tra le mani. E no, uno come te non è degno di lei, della sua purezza”. Marco aveva pronunciato quelle parole con rabbia, forse perché aveva intuito fin troppo. Leon non ci pensò due volte ad accorciare le distanze per risultare ancora più minaccioso.
“Non ti riguarda ciò che faccio o che non faccio. Tu sei solo di passaggio, e ad essere sincero, non vedo l’ora che tu metta piede fuori da questo castello!” sbraitò, lasciandosi pervadere da un’ira profonda nei confronti di quel ragazzo così altezzoso, che pretendeva di sapere tutto su tutti. Non capiva che la realtà era molto più complessa, e soprattutto non a direzione unica. Ma Marco vedeva solo ciò che voleva vedere, e questo lo mandava in bestia.
“Io non me ne andrò senza quella ragazza” sentenziò il mago con tono solenne, sostenendo lo sguardo di sfida del principe, che si accendeva sempre di più. Tra i due l’aria vibrava, consapevole della rivalità che animava i due.
“La porterò via da te. Tu saresti in grado solo di ferirla” continuò Marco, non appena si fu reso conto che Leon fosse più titubante e meno spavaldo.
“Arrivi e vuoi fare anche il padrone di casa! Stai molto attento, io non mi intrometto nelle tue questioni, tu non farlo con le mie”.
“Lo faccio se riguarda un’innocente!”
I toni si fecero sempre più accesi. Ad ogni accusa si alternava una risposta aggressiva, e cominciarono a venire fuori le minacce.
“Non la avrai mai, Leon, guarda in faccia alla realtà! Lei non è come te, per fortuna, e non lo sarà mai” disse Marco, afferrando Leon per la maglia e scuotendolo. Forse sperava di farlo desistere, forse pensava davvero quelle parole. Vargas però ebbe un lampo di furia, e liberandosi dalla presa, spinse giù dalle scale il mago, che ruzzolò fino al pavimento, cadendo con un tonfo. Ebbe bisogno di qualche minuto per mettere a fuoco ciò che era successo, e proprio in quell’istante sentì il rumore di una porta che si apriva al salone di ingresso. Incontrò lo sguardo terrorizzato di Violetta, e fu come morire dentro. Aveva paura. Paura di lui.

“E’ ancora vivo” sospirò sollevata Violetta, allontanandosi dal petto di Marco, che a quanto pareva aveva deciso di aggrapparsi alla vita fino alla fine. Leon alzò di poco lo sguardo, gli occhi spenti, ma ravvivati da una flebile luce di speranza.
“Dobbiamo andare a chiamare un medico, presto!” lo incitò Violetta, rimanendo al fianco del mago, e guardandolo con aria colpevole. In parte anche lei provava uno strano senso di colpa, per non essere stata più diretta nel rifiutare il corteggiamento del giovane, ma allo stesso tempo data la sua posizione non sapeva in che altro modo avrebbe potuto agire. Leon era ancora seduto, immobile, e le sue parole non dovevano averlo smosso di un centimetro.
“Leon, un medico!” cercò di chiamarlo nuovamente, invano. Che cosa gli era preso? Aveva il volto deformato in una smorfia di dolore e sofferenza, ma ancora una volta non riusciva a capire nulla del perché di quella reazione. Il principe si riscosse all’improvviso e annuì con forza, salendo con ampie falcate la scalinata e dirigendosi negli appartamenti reali.
Passarono i minuti, e la situazione di Marco era abbastanza stabile, nonostante respirasse un po’ a fatica. Di punto in bianco le porte si aprirono e gli stessi due medici che si erano occupati di Leon irruppero con una barella appresso. Avevano un’espressione seria e tesa, mentre vi poggiavano sopra Marco con delicatezza, ma allo stesso tempo con una velocità incredibile, propria di chi è esperto nel suo mestiere e sa il fatto suo. Leon era in disparte, e fissava tutto da lontano, abbassando lo sguardo non appena incrociava quello sconvolto di Violetta. La ragazza salì la scalinata per raggiungerlo, ma il principe Vargas, con la chiara intenzione di tenerla lontana, si avviò lungo gli appartamenti reali.
“Leon!” lo chiamava a voce alta Violetta, disposta perfino a rompere il silenzio perpetuo della notte pur di fermare il ragazzo, che avanzava a passo spedito. Nessuno poteva fermarlo, nemmeno Violetta. Non meritava nulla, e quella notte ne era stata la prova. L’aveva delusa, ed era ciò che più pesava in cuor suo. Che avrebbe pensato? Che fosse sempre lo stesso Leon? Lo avrebbe allontanato? Gli avrebbe rivolto parole di disprezzo? Con le mani che tremavano e il cuore gonfio di ira, rivolta unicamente verso se stesso, aprì la porta della sua stanza, e si sedette sul letto, senza preoccuparsi più di nulla. Respirò profondamente, lasciando che i battiti tornassero regolari: nella mente risuonava ancora la voce di Violetta, che lo rincorreva. Sperava che non lo avesse seguito fino alla sua stanza, che si fosse fermata prima, perché non poteva farsi vedere in quello stato, e il solo pensiero di ciò che avrebbe potuto dirgli lo distruggeva.
“Vattene” mormorò flebilmente, udendo un rumore di passi e un respiro affannoso.
“Che ti succede? Io…non capisco”. La voce di Violetta era innocente. Era ciò che lui avrebbe sempre voluto essere. Ma non aveva mai avuto scelta. O meglio una scelta l’avrebbe avuta, ma era stato troppo vigliacco per prenderla in considerazione, e ormai era troppo tardi.
“Non c’è niente da capire. Voglio restare da solo. Da solo!” urlò. Violetta richiuse la porta dietro di sé, senza prestargli attenzione. Aveva paura, e molta. Leon sembrava fuori di sé, gli occhi iniettati di sangue, mentre ogni suo muscolo non riusciva a rimanere rilassato. Era come un gatto selvatico pronto a sferrare un attacco contro chiunque si fosse avvicinato, dopo aver sfoderato i suoi artigli.
“Leon…”. Si sedette accanto a lui. Leon esitava a guardarla negli occhi, e continuava a fissare dritto davanti a sé un punto buio e imprecisato della stanza. Violetta senza dire altro lo attirò a sé, stringendolo forte tra le braccia; rimasero così, teneramente abbracciati e in silenzio, lasciandosi cullare unicamente dai sentimenti che li univano. Un legame che si rafforzava ogni giorno di più, e che rendeva Leon dipendente da quell’apparente fragile ragazza. In apparenza lui sembrava forte e sicuro, mentre lei quella incerta e timida, eppure era il contrario. Si rese conto che aveva bisogno di Violetta come di nessun altro. La strinse ancora più forte a sé, seppellendo il volto nell’incavo del collo, e lasciandosi solleticare dai suoi capelli. Le lacrime iniziarono a scendere inaspettatamente, e cominciò a singhiozzare come un bambino.
“Calma, va tutto bene…Marco sta bene, è vivo, non è successo nulla” gli sussurrò con amore, accarezzandogli la schiena, mentre lasciava che sfogasse il suo dolore.
“Io…sono un vigliacco. Sono davvero un mostro, Marco ha ragione” disse, cercando di frenare le lacrime, inutilmente. Fiumi e fiumi tenuti dentro per tanti anni uscivano senza più controllo. Ormai aveva rotto gli argini, e si era lasciato andare, privo di forze, affidandosi unicamente alla forza che avrebbe potuto trasmettergli Violetta.
“Non è così”.
“Non ho mantenuto la promessa” ribatté all’istante, allontanandosi per guardarla negli occhi. La ragazza rimase sorpresa nel vederlo in quello stato: gli occhi arrossati, e un forte bisogno di parlare, sfogarsi. Era diverso da come era sempre stato, eppure lei non provava solo un forte senso di compassione, si rese conto di provare qualcosa di molto più profondo: lo amava, e non era un amore flebile, ma talmente forte da stordirla e da lasciarla senza parole. Gli accarezzò piano la guancia, e sorrise amaramente.
“Era solo una stupida promessa. Per me quel conta è che tu volessi mantenere la parola”.
Leon scosse la testa: “Era importante, serviva per dimostrarti quanto ho bisogno di te, quanto voglio che tu mi stia accanto…”. Tacque, vergognandosi della debolezza che stava mostrando e in tutta risposta ottenne un dolce bacio.
“Anche io ho bisogno di te, Leon…ho bisogno dei tuoi abbracci. E sento che voglio conoscerti…perché più volte mi hai dimostrato che dietro il principe Vargas c’è un ragazzo dolce e buono. Voglio conoscere quel ragazzo, a tutti i costi”.
Leon si sentì trafitto da una lancia, e per poco non credette di perdere i sensi. Aprirsi con lei equivaleva a ripercorrere duri ricordi, alcuni dei quali rinchiusi nell’inconscio per non doverli rivivere. Erano quelli a svegliarlo nel cuore della notte, a farlo impazzire a causa degli incubi.
“Non…non so se posso. Non lo so…” balbettò Leon, perdendosi nei limpidi occhi color nocciola della ragazza, che continuava ad accarezzargli il viso con dolcezza. Si tranquillizzò, e dopo un profondo sospiro chiuse gli occhi: stava per rivivere il suo incubo, il suo passato.
Un bacio

Recensore Junior
22/06/14, ore 14:26

Ciao!!! Senza dubbio questo capitolo è fantastico!!!
La parte che adoro è super lunghissima però te la copio qui giù .
“Lara” salutò infine, tirando un profondo sospiro di sollievo nel vedere che si trattava solo della serva fissata con il principe Vargas.
“Ho bisogno del tuo aiuto…Leon continua a ignorarmi, per non dire che mi disprezza, ed è tutta colpa di quella serva, Violetta! Non la sopporto più, devi aiutarmi a liberarmene, ti prego” sussurrò Lara, attenta a non farsi sentire. Aveva pedinato la donna fino agli appartamenti della regina, e aveva aspettato che uscisse per poterle poi chiedere il suo aiuto. Ma rimase a bocca aperta quando Jackie scosse la testa seria.
“Non avrai un bel niente! Sei stata sciocca a impulsiva ad agire in quel modo. Quel patetico piano del labirinto…hai agito senza i miei suggerimenti, e adesso ti meriti tutto ciò che ti sta capitando. Leon ha capito che sei stata te a cercare di incastrare Violetta, e probabilmente sospetta di te anche per la questione del busto del padre. Non hai alcuna speranza, cerca piuttosto di fare il tuo lavoro in silenzio, e di non dargli altri motivi per farti decapitare. Ne hanno anche troppi”.
Lara strabuzzò gli occhi, e cominciò a tremare come una foglia, al pensiero di essere decapitata. Deglutì sfiorandosi il collo, non riuscendo a immaginarsi priva della testa. “Ma…tu non glielo permetterai, vero?” chiese con un fil di voce, spaventata per un possibile rifiuto.
“Cercherò di aiutarti, sebbene non lo meriti…ma se mai avrò bisogno di un aiuto pretendo che tu mi restituisca l’enorme favore” sibilò Jackie, allontanando la candela dal volto della giovane serva, per non doverne guardare la patetica espressione sofferente. Stupida ragazzina, e pensare che le stava anche simpatica. Ma aveva completamente perso la testa per il principe, e risultava un anello debole nel suo futuro piano, qualcuno di cui non si poteva fidare. Nonostante tutto, però, provava una gran pena per Lara, il cui cuore spezzato le aveva impedito di agire a mente fredda, portandola a commettere una vera e propria sciocchezza.
“Farò tutto ciò che vuoi, lo sai, di me puoi fidarti!” esclamò sollevata Lara, fiondandosi tra le braccia della donna, e abbracciandola forte. Jackie osservava la scena con un accenno di disgusto, ma la lasciò fare, puntando la sua attenzione a tenere in equilibrio la candela.
“Brava ragazza, anche perché ormai non hai alcuna speranza con Leon…senza il mio aiuto almeno”. Una luce di speranza si accese in Lara a quelle parole, e non appena la donna le fece cenno con la mano di tornare nella sua stanza, accolse l’ordine al volo, biascicando ancora ringraziamenti su ringraziamenti. Ovviamente lei non aveva alcuna intenzione di fare alcunché per l’amore impossibile della giovane, ma aveva bisogno di tenersela buona, e non aveva fatto altro che dirle quello che voleva sentirsi dire. La strada per il potere era ormai spianata, solo una persona ancora rendeva il suo piano incompleto: Violetta. Non aveva messo in conto il legame che la legava a Leon. Pensava che si fosse trattato di un semplice invaghimento, ma si era sbagliata di grosso, perché più tentava di allontanarli più sembravano uniti. Non aveva alcune esperienza in fatto di amore, né intendeva averne, ma era abbastanza certa che sarebbe stata un’ardua sfida separare quei due. Una sfida da cui non poteva esimersi in alcun modo.

Violetta presidiava insieme a Lena alla colazione quella mattina, e avvertiva la tensione perfino dagli angoli più remoti di quell’enorme salone. Concentrò la sua attenzione sul lampadario di cristallo appeso sopra il tavolo da pranzo, per evitare i continui sguardi di Marco, che sembrava non aver affatto rinunciato alla sua opera di conquista, anzi era più agguerrito e determinato di prima. A questo si aggiungevano le occhiate furiose di Leon, che stringeva la forchetta come se si trattasse del collo del mago. Per poco non gli sarebbe scivolata dalla mano per la forza che ci stava mettendo. Nel frattempo Antonio e Jade si scambiavano i soliti formalismi che si usavano a palazzo, ma era chiaro a chilometri di distanza che non vi era nulla in quelle parole gentili che potessero di fatto risalire al vero. Jade sorrideva con i denti stretti, e di tanto in tanto riprendeva Leon per qualche comportamento che lei riteneva irrispettoso, come la sua espressione imbronciata.
“Leon, devi essere più cortese e accogliente nei confronti dei tuoi ospiti” esclamò ad un certo punto, dall’altro capo della tavola, senza ottenere alcuna risposta. Fece finta di nulla e tornò a conversare con il suo ospite d’onore. Lei e il figlio occupavano i due capi opposti, Antonio sedeva alla destra della regina, poiché era evidente che i due avevano quasi lo stesso potere, mentre Marco era alla sinistra del principe. Sembrava aver completamente dimenticato il brutto episodio alla biblioteca, sebbene ogni tanto si limitasse a rimanere in silenzio, come se rimuginasse a qualcosa di importante. Violetta ad un cenno della regina si avvicinò ai due ragazzi in modo da portare via i piatti con gli avanzi del pasto, e quando fece per prendere quello di Marco il ragazzo le sfiorò la mano in modo talmente audace da farla arrossire, tutto sotto gli occhi di un furioso Leon, che di lì a poco avrebbe potuto scatenare un vero inferno.
“Avete dimenticato questo” le disse il mago con aria furba indicando un calice dorato.
“Potreste avere ancora sete…” rispose a bassa voce Violetta con lo sguardo basso, non riuscendo a sostenere quella situazione tanto opprimente. Rifletteva bene su ogni parola da dire per cercare di non risvegliare la gelosia di Leon, anche se per quello bastavano a sufficienza gli atteggiamenti fin troppo galanti di Marco. Il ragazzo negò prontamente e le offrì il calice. Non appena Violetta l’afferrò da esso fuoriuscì una rosa bianca, richiamata dalla magia. Leon scattò in piedi all’improvviso, afferrando i lembi della tovaglia con le mani, così da costringersi a non dare inizio a una rissa ben poco dignitosa.
“Che ti prende, Leon? Mi sembri strano…” osservò la regina, inclinando lievemente il capo, con un pezzo di pane ancora nella mano affusolata. Leon fissò per qualche secondo il vuoto davanti a sé, quindi si riscosse e si grattò il capo con aria poco regale.
“Ecco, io…avevo pensato di fare un’escursione a cavallo nel pomeriggio dopo gli allenamenti di stamattina, e mi chiedevo se Marco volesse accompagnarmi” spiegò il principe con naturalezza. La sua idea era stata geniale, almeno per un pomeriggio avrebbe tenuto lontano quel sanguisughe dalla sua Violetta. Non ce la faceva più a vederlo corteggiarla tanto apertamente. Aveva i nervi a fior di pelle, e sentiva il cuore pulsare sangue all’impazzata impedendogli di pensare lucidamente. Marco accettò entusiasta l’invito dell’amico, sottolineando il suo interesse a vedere come erano cambiati i dintorni del castello dai giorni dell’infanzia.
“Vado ad allenarmi” concluse Leon con un mezzo inchino, uscendo poi a passo svelto dalla sala. Si diresse velocemente al campo di allenamento, senza guardare in faccia a nessuno, pensando che in quel modo avrebbe potuto sfogare alla perfezione la sua rabbia. E pensare che un tempo quel damerino di Marco era stato perfino suo amico! Adesso non riusciva a provare un minimo di quell’antico affetto nei suoi confronti, sentendosi minacciato in continuazione. Provocazioni su provocazioni di giorno in giorno rischiavano di farlo impazzire. Erano passati solo tre giorni dal suo arrivo al castello, eppure contava con ansia i giorni rimanenti, nella speranza che lasciasse ben presto la tenuta di Cuori, prima che lo facesse lui in maniera tutt'altro che educata e diplomatica. Si tolse il giacchetto di pelle, che lanciò su un ciocco di legno ai lati dal campo, quindi si diresse in una piccola casetta di legno, che svolgeva il ruolo di armeria. Infilò la chiave che portava sempre con sé nel lucchetto arrugginito, e quando sentì lo scatto, si precipitò all’interno. Prese una spada addossata alla parete e cominciò a farla ruotare, testandone la presa e la pesantezza. Annuì soddisfatto della scelta, e già si immaginava a sferrare colpi su colpi su un manichino imbottito di sabbia pensando che si trattasse di Marco, quando notò in disparte, lontano dalle altre armi, un oggetto particolare. Era l’arco che aveva tenuto in mano Violetta quella mattina in cui le aveva insegnato a tirare con l’arco. Sospirò piano, e si avvicinò piano a quel cimelio tanto importante, ricco di ricordi belli quanto nostalgici. Così si era innamorato di Violetta, così aveva detto addio al vecchio Leon, era tutto partito da una notte trascorsa in preda una febbre delirante, e dai numerosi tentativi di Humpty di avvicinarli. E adesso che si sentiva così scoperto, così privo di difese, emergevano i ricordi più strazianti del suo passato, sotto forma di frammenti.
‘Leon venne portato nella sala del trono, confuso’
Si, si sentiva confuso come non mai. La avvertiva ancora adesso quella paura mista a sgomento.
“Conducetelo nelle segrete”
La voce di Jade, sua madre…le guardie che lo trascinavano via, in cella, dove avrebbe trascorso due anni della sua vita.
“Madre! Perché? Che vi ho fatto, madre?”
“L’ho fatto perché ti amo Leon, e voglio il tuo bene”
Sangue.
Odio.
Buio.
Si ritrovò ai piedi di quell’arco, in ginocchio, respirando a fatica. Sentiva ancora il senso di oppressione, e si portò una mano al cuore, che sembrava essersi fermato di colpo.
“Non voglio…” piagnucolò quasi, portandosi le mani alla testa per allontanare voci inesistenti che gli parlavano, o forse urlavano.
“Non è difficile. Devi ucciderlo”
Una volta.
Due volte.
Poi imparò a non provare più nulla.
“Leon?”.
Una voce lo fece riemergere da quella spirale di tenebre in cui stava lentamente scendendo, e d’un tratto gli sembrò di tornare a respirare di nuovo. Il cuore tornò a battere al suo ritmo abituale, mentre il suo colorito pallido si riaccese all’istante. Era ancora inginocchiato, e non aveva osato voltarsi. Sapeva benissimo di chi si trattava, e farsi vedere in quello stato non gli piaceva per niente.
“Leon?”. Ancora quella voce che lo chiamava, che ancora una volta lo salvava. Sembrava che fosse destinato ad essere salvato da Violetta. Non pensava di poter arrivare a dipendere così tanto da un altro essere umano, e invece eccolo in silenzio, pronto a sentirsi chiamare nuovamente per udire la sua dolce e rassicurante voce. Sentì una mano fragile accarezzargli piano la spalla, e trovò la forza per alzarsi, senza riuscire ancora a voltarsi.
“Lo so che non avrei dovuto seguirti in questo posto, ma mi eri sembrato strano, e volevo accertarmi che stessi bene” disse Violetta con tono supplichevole. Non poté certo vedere l’accenno di sorriso che si era dipinto sul volto del principe, nel sapere della preoccupazione della ragazza nei suoi confronti.
“Invece è stato un bel gesto da parte tua”. Mentre parlava si voltava a scatti fino a incontrarne lo sguardo a un palmo dal naso. Nei suoi occhi leggeva tutto ciò di cui aveva bisogno in quel momento, e la strinse a sé senza alcun preavviso, lasciandole poggiare la testa sul petto. Aveva un gran bisogno di quell’abbraccio, un sospiro di sollievo gli uscì dalla bocca, mentre il peso che sentiva nel suo cuore svaniva così come era arrivato. Violetta si separò dall’abbraccio e gli accarezzò la guancia con tenerezza.
Senza dubbio è il capitolo più bello che abbia letto!!!
Forse perché amo la coppia Leonetts soprattutto quando Lyon come dice Ludmilla è geloso della sua Vilu

Recensore Junior
22/06/14, ore 14:21

Perché?!!! Scrivi così maledettamente bene?!
Sto scherzando. Ma sei bravo da far paura.
Qui c'è la parte che adoro tantissimo:
Leon si sentiva parecchio a disagio. Stringere tra le braccia Violetta gli scatenava parecchie emozioni mai provate prima: imbarazzo, incertezza, e anche una fastidiosa sensazione di felicità. Bastava davvero così poco per sentirsi bene, e si chiese come avesse potuto provare gioia nel tormentare quella creatura che adesso riposava beatamente con la testa appoggiata sul suo petto. Se chiudeva gli occhi poteva avvertire il suo respiro leggero, e quando la sentiva tremare la stringeva più forte, spinto dall’istinto di proteggerla, di farla stare al caldo. Se lei stava bene provava un senso di sollievo, e i muscoli tesi per la tensione si rilassavano di colpo. Le accarezzò piano il braccio, incantandosi nel provare quelle sensazioni. Sfiorava la sua pelle liscia, e in tutta risposta aveva dei brividi intensi. La sentì agitarsi di poco, e avvinghiarsi ancora di più al suo corpo, mugugnando qualcosa. “Papà…” sussurrò lei con un sorriso sereno. A Leon per poco non venne da ridere, ma poi tornò subito serio, e cominciò ad accarezzarle i capelli sempre con un certo timore, come se avesse paura di farle uno sgarbo. Il corpo di Violetta era così fragile e delicato che ogni movimento gli sembrava di troppo, sicuro che l’avrebbe svegliata, quindi cercò di restare il più immobile possibile, rigido come una statua.
“Papà…” chiamò di nuovo la ragazza, aprendo lentamente gli occhi, e incontrando quelli di Leon a pochi centimetri dal suo viso. Solo allora si rese conto di essere avvolta in un intimo abbraccio, il che la fece arrossire bruscamente. Strofinò la guancia sul suo petto, facendola divenire ancora più scarlatta, nel tentativo di divincolarsi educatamente, ma si ritrovò sempre più stretta tra le due braccia.
“Ti sei svegliata” constatò lui con molta naturalezza, anche se il tono di voce tradiva un certo imbarazzo. La liberò dall’abbraccio, e si rese conto che le ragazza era rimasta a fissarlo negli occhi. Passarono alcuni minuti, e Violetta si riscosse dalla fase di trance che aveva raggiunto, per rimanere seduta a letto sconvolta. Se prima aveva avuto i brividi di freddo, adesso sentiva un caldo insopportabile, e le orecchie quasi fumavano. Aveva dormito con Leon, e quel pensiero ricorreva continuamente, perseguitandola. La cosa peggiore è che al suo risveglio si era sentita così in pace, e il suo sguardo le aveva trasmesso talmente tanta dolcezza che non riusciva a non desiderare che la baciasse. Si strofinò il viso assonnato con le mani, e si voltò scandalizzata verso Leon, che la guardava confuso per tutta quell’agitazione.
“E Lena? Ti ha visto? Quanto ho dormito?” chiese a raffica, cominciando a districarsi tra l’ammasso di coperte. Il principe si mise al suo fianco, seduto sul letto, e le cinse piano le spalle con un braccio tentando di rassicurarla. Lo ritrasse subito dopo quando vide che Violetta si era voltata verso di lui, confusa e sconvolta per quel gesto.
“Hai dormito solo un paio di ore, e la tua compagna non ha ancora finito con i suoi compiti a quanto pare, perché non è ancora tornata. Non ci ha visti nessuno”. L’ultima frase l’aveva a mala pena sussurrata, consapevole dell’enorme rischio che stavano correndo. Prima si erano lasciati semplicemente guidare dai travolgenti sentimenti avvertiti in quel labirinto…ma adesso rimaneva solo l’incertezza e un reciproco imbarazzo.
“Leon...” mormorò Violetta, voltandosi verso di lui, e mordendosi il labbro. Qualcosa era cambiato tra di loro, e non era certa che si trattasse di amore, certo era che non riusciva più a pensare a qualcosa che non avesse a che fare con Leon: i suoi abbracci, i suoi baci, il modo in cui l’aveva salvata. Leon, Leon e ancora Leon…Sentì di nuovo la mano di Leon farsi timidamente avanti lungo la sua schiena, ma questa volta non lo guardò preoccupata, lasciò che percorresse la colonna vertebrale fino a sentire un brivido lungo il collo. La dita calda di Leon si depositarono sulla sua spalla, e sentì il braccio avvolgerla nuovamente, questa volta con un po’ più di sicurezza. Leon si sporse lentamente dandole un candido e casto bacio sulla guancia.
“Questo cosa significa?” chiese con un sorriso timido, abbassando lo sguardo.
“Non saprei dirti nemmeno io cosa significa, ma sentivo il bisogno di farlo. Ho sbagliato?”. Era preoccupato, lo leggeva nei suoi occhi, così limpidi ed espressivi. Poteva essere davvero quello lo stesso Leon che aveva conosciuto appena messo piede nel castello di cuori?
“No. E’ solo che…” si bloccò non appena avvertì il braccio di Leon abbandonarle la schiena, ma poi la sua mano le sfiorò piano la guancia, costringendola a fissarlo dritto negli occhi. Si avvicinò sempre di più, schiudendo lentamente le labbra, e chiudendo gli occhi. Il desiderio che aveva di baciarla era palpabile, ed aveva deciso di trovare il coraggio per agire. Voleva farle capire che aveva intenzione di cambiare al suo fianco. Non avrebbe lasciato che qualcuno gliela strappasse via, o la allontanasse da lei, come invece aveva fatto Lara. Se ripensava a quella serva gli ribolliva il sangue nelle vene. Avrebbe trovato il modo per farle scontare ogni singolo attimo di dolore che aveva patito, ma adesso la sua volontà era diretta a ben altro. Sentiva il respiro scostante della ragazza, e il suo cuore che si agitava frenetico mano a mano che si avvicinava. Affondò piano le labbra nelle sue, e si lasciò coinvolgere dalla loro dolcezza. Le dita le solleticavano il collo sotto l’orecchio, mentre con il pollice accarezzava lentamente la guancia. Prima che potesse anche solo pensare a rendere il bacio più intenso, più passionale, sentì qualcuno bussare, e si scostò di colpo, facendo saettare lo sguardo verso la porta. Violetta, che aveva ancora gli occhi chiusi con un dolce sorriso, li aprì di scatto, e tentò di dire qualcosa, ma il panico le impediva persino di muoversi.
“C-chi è?” balbettò appena, mentre il principe era scattato in piedi atleticamente e aveva afferrato la maglia che era caduta a terra, per poi indossarla in fretta e furia.
“Sono io, Lena!” si lamentò una voce stanca dall’altra parte della porta. Sembrava distrutta, e sentì un colpo che indicava forse il peso che Lena aveva scaricato sul legno.
“Io…non posso aprirti!” esclamò la ragazza, alzandosi e camminando e indietro, mangiandosi le unghie, mentre Leon controllava di non aver nulla lasciato fuori posto. Le fece un cenno di assenso, e le schioccò un altro bacio sulla guancia, guardandola in modo complice. Violetta sorrise, dimenticandosi per un istante della situazione in cui si era cacciata, fino a quando non sentì Lena bussare incessantemente.
Davvero questa parte si può definire magnifica spettacolare.
Vabbe se no mi dilungo tantissimo ci vediamo al prossimo capitolo

Recensore Junior
22/06/14, ore 14:17

Hola! Soy una espanola proveta😂😂😂
Vabbe torniamo a noi. Sei bravissimissimo.
La parte che adoro é questa
guardandosi intorno a vuoto. Non c’era nessuna traccia di Dj, Libi e Andres.
“Stanno già affrontando la sfida” rise l’uomo, convinto fin da subito della sua vittoria. In pochi avevano osato sfidare il Tempo e quasi nessuno era riuscito nell’impresa. Odiava che qualcuno mettesse in dubbio il suo essere divino e le sue leggi inoppugnabili, e per queste proponeva sfide sempre più complesse e pericolose. Chi sopravviveva rischiava seriamente la follia, e passava la propria vita tormentato da terribili visioni, che avevano a che fare con il periodo trascorso nel Regno eterno del Tempo.
“Devo raggiungerli”
“Non puoi. Ognuno è coinvolto nella sua scommessa, e non accetto intromissioni di alcun tipo. E adesso ti domando nuovamente: perché sei qui?”
“Per sfidarti” rispose infine Maxi, trattenendo il fiato. Il ghigno dell’uomo si deformò in un infernale ringhio e strinse ancora di più la clessidra che teneva in mano.
“Bene” rispose freddamente, lanciando un’occhiata ai suoi due compagni. La donna al suo fianco, sorrise attraverso il velo candido, e rivolse uno sguardo fugace piuttosto rigido al vecchio, che invece sbuffava violentemente, ben sapendo come sarebbe andata a finire. Avrebbe sicuramente affidato a lei il compito di mettere alla prova quel giovane, e la cosa lo innervosiva parecchio. “Futuro, pensaci tu” soffiò appena il Tempo, scuotendo i capelli castani dorati, e lisciando le pieghe di un mantello trasparente come l’acqua. La donna sorrise euforica, mentre lentamente si toglieva il velo davanti: una bellissima ragazza dai lisci capelli rosso fuoco, e gli occhi di un verde smeraldo, si allontanò dal trono, avvicinandosi al ragazzo. Lo studiò attentamente, girandogli intorno.
“Ho il futuro adatto a lui” esclamò infine, cercando l’approvazione del Dio Tempo. Una volta ottenuta, il suo sorrisetto malizioso si allargò, e mosse le mani avanti a lui, formando degli strani cerchi. Maxi sentì i piedi poggiare a terra, anche se terra non c’era, il corpo era nuovamente pesante, la luce si affievolì finendo quasi per svanire, lasciando spazio a un campo di battaglia immerso nel crepuscolo. I raggi rossastri tingevano di sangue i corpi già privi di vita lungo quella piana, e i famosi Dei che prima lo avevano accolto si erano misteriosamente dissolti nell’aria, lasciandolo lì, da solo. Nel cielo apparve un’enorme clessidra dorata, che scorreva lenta e inesorabile.
“Benvenuto nel futuro” la voce tonante del Tempo risuonò nell’aria tutt’intorno. “Tutto ciò che vedrai accadrà veramente. Nessun inganno, nessuna frode, sarà tutto vero, parola di Dio. Cerca la porta di rame in questi luoghi e ritorna al punto di partenza. Per trovarla questo è il mio unico aiuto.
‘La porta è vermiglia,
allo specchio somiglia;
la morte l’abbraccia,
e l’occhio la scaccia.
Tre ore avrai,
o subir la punizione dovrai’
Buona fortuna”. Una risata diabolica lo frastornò completamente, prima di rimanere solo, solo con i suoi pensieri in quella piana, dove non vi era dubbio che nei paraggi si dovesse trovare la porta. Perché quel luogo sembrava essere l’Inferno riemerso sulla terra. E lì la morte imperversava sovrana, beandosi delle sue vittime.

Libi correva, lontano da quei ricordi che la facevano soffrire. Poteva ancora avvertire l’alito pesante del vecchio che l’aveva guardata con odio prima di farla sprofondare nell’oblio. “Rivivrai ciò che più temi” le aveva detto con aria saggia e crudele allo stesso tempo. Si portò le mani alle orecchie, nell’estremo tentativo di non udire ancora quella voce rimbombante. Non aveva ancora trovato quella maledetta porta, e il tempo scorreva inesorabile. La sua clessidra splendeva nel cielo e ormai più della meta della sabbia era scesa, ma ancora nessuna via di uscita. Avanzava tra le macerie.
‘Nel paese che hai lasciato,
troverai quel che hai dimenticato.
Se la porta vorrai trovare,
la lacrima saprai consolare.
E passato, presente insieme,
ti daranno l’oggetto di tanta speme’
Queste erano state le parole del Tempo. Non capiva a cosa si riferisse: lacrime, passato, presente…riusciva solo a vedere le rovine del villaggio dove aveva sempre vissuto prima dell’assalto delle truppe di Quadri al confine del Regno. I fumi maleodoranti e stordenti si fondevano con il cupo nero delle case bruciate. I passi suonavano sordi su quel terreno ormai arido, e la polvere si alzava continuamente, diffondendosi insieme all’odore di cenere. Gli occhi le pizzicavano, e la lingua le si era incollata al palato, mentre la gola andava a fuoco. Doveva uscire da quella via, prima di morire a causa di tutto quel fumo. Quando finalmente riuscì a intravedere la piana spoglia fuori dal villaggio, poco lontano scorse una figura minuta, che guardava nella sua direzione. Libi si bloccò, riconoscendo l’arco che portava a tracolla. Si vide riflessa nei suoi stessi occhi, e per poco non le scappò un urlo di stupore. Una Libi più giovane, di circa sedici anni, osservava quello che un tempo era la sua casa con le lacrime agli occhi; velocemente si passava la manica della maglia, strofinandosi il viso.
Un bacione spero di non averti annoiato tantissimo con questa recensione

Recensore Junior
22/06/14, ore 14:11

Ciao!! Visto che la parte che preferisco è molto lunga te la mando. Comunque sei stato bravissimo anche stavolta
Ma il suo cuore continuava a accusarlo di colpe che aveva commesso, che mai si sarebbe perdonato: Francesca, la sua dolce Fran, come la chiamava lui, essendo stati amici fin dalla tenera età, era in prigione e il pensiero di non poter fare nulla lo tormentava. Per di più lo considerava un traditore, e non gli era possibile smentirla, avrebbe corso un rischio troppo grande. E così giocava il ruolo dello spietato conte assetato di potere, pur di rimanere nella sua posizione e aiutare il movimento rivoluzionario. Qualcuno bussò alla sua porta, riscuotendolo all’improvviso. “Ana” disse lui in un sussurro, voltandosi verso l’esile figura che avanzava nella sua stanza. Una ragazza dai capelli castani lisci, che le ricadevano dolcemente lungo la schiena, e dal sorriso solare, dava un’idea di spensieratezza che ben si discostava dal suo modo di vestire: un abito lungo e nero, che aderiva perfettamente al suo corpo, e sembrava adattarsi elasticamente ad ogni suo movimento. Ana era una maga, e non una maga qualsiasi, era una delle più promettenti, e per questo al fianco della regina. La regina non possedeva la magia, e Ana si rendeva sua arma, donandole così indirettamente anche quel potere attraverso il Pactio. “Conte Federico” sorrise indulgente la ragazza, osservando il suo petto nudo. Il giovane imbarazzato corse a procurarsi una maglia, e la indossò sentendo ancora lo sguardo della maga addosso.
“Non ho alcuna fretta” lo rassicurò con freddezza Ana, facendo un passo indietro. Per quanto la ragazza fosse rinomata in tutto il castello, non solo per i suoi poteri, ma anche per la sua incredibile bellezza, era altrettanto risaputo il fatto che non si lasciasse toccare da nessuno, e per questo costituiva una sorta di bellezza irraggiungibile. Ogni contatto al di fuori di quelli da cerimonia, e al di fuori di quelli con la regina, veniva visto da lei come contaminante.
“So bene che non c’è fretta, ma non ci tengo a far attendere la regina, anche se prima avrei un favore da chiederti” esclamò Federico, facendo avanti e indietro alla ricerca dei suoi stivali.
“Se la tua richiesta sarà esaudibile, allora ti aiuterò”. Tipico di Ana: diretta e allo stesso tempo severa. Il suo sorriso si incrinò non appena sentita la richiesta, ma cercò di mantenerlo vivo, distogliendo lo sguardo dal Conte, e concentrandosi sul panorama offerto dalla grande finestra in fondo alla stanza da letto.
“Chiedo solo di fare una visita alle celle del palazzo prima dell’udienza della regina. Ho alcune cose di cui discutere…”.
“Con la regina Francesca. Federico, già è tanto che ti venga concesso di andarla a trovare ogni tanto, non credi di stare approfittando fin troppo della generosa grazia che ti ha fatto la nostra vera regina?” rispose Ana freddamente, mentre il sorriso che con tanta fatica aveva tentato di conservare svanì di colpo.
“La regina sa bene della mia fedeltà, non credo che costituisca un problema. D’altronde nonostante tutto, dovreste comprendere il mio legame affettivo con Francesca. Siamo cresciuti insieme”.
Ana ponderò bene quelle parole, quindi annuì ben poco convinta e fece un gesto della mano per scacciare ogni futile pensiero che le era sopraggiunto. “Allora ti aspetto direttamente nella sala delle udienze, ma fai presto, non vorrei che la regina se la prendesse con me per la tua incuranza”.
Federico attese che la ragazza avesse voltato l’angolo, quindi spiccò una corsa dall’altra parte: aveva intenzione di prendere una scorciatoia per impiegarci meno tempo.
“Federico, perché non mi aspetti mai?”.
La voce di una bambina vagava nella sua testa. E pensare che quella bambina, così fragile e delicata, sarebbe diventata regina, e avrebbe dovuto subire una terribile prigionia.
“Sei tu che sei lenta!”.
Correva, e mentre correva lo spettro di un bambino lo affiancava: occhi scurissimi, capelli di un castano chiaro, corti e spettinati. I suoi passi erano in perfetta sincronia con quelli dello spettro dei suoi ricordi, ne assaporava la risata gioiosa, così innaturale nel presente.
“Ma io sono una principessa. Tu dovresti aspettarmi! Tutti i cavalieri aspettano le principesse”.
Il bambino si voltò a fare una linguaccia prima di scomparire di colpo, ad un solo suo battito di ciglia. Rallentò il passo solo dopo aver sceso di corsa la scalinata, e regolarizzò velocemente il respiro affannato, fermandosi di fronte all’ingresso delle celle, dove due guardie stringevano nella mano una lancia minacciosa con la punta rivolta verso l’alto.
“Se vuoi un principe fatti aiutare da tuo fratello Luca, io non ho intenzione di stare dietro ai capricci di una ragazza. D’altronde lui sarà il futuro re, chi meglio di lui?”.
Sorrise amaramente mentre le guardie si lanciarono uno sguardo prima di farsi da parte e permettergli l’accesso. Odiava scendere nei sotterranei. Le celle erano tutte chiuse e vuote, inghiottite nel buio e divorate dall’umidità. Un uomo lo attendeva su uno sgabello, e non appena lo vide scattò in piedi barcollando.
“La signora non penso voglia ricevere visite” ghignò con tono sarcastico, prendendo la fiaschetta che aveva allacciata alla cintura e ingurgitando una bella quantità di whisky.
“Beh, sono io a volere avere un’udienza con lei” sibilò Federico, assolutamente impassibile, solo leggermente disgustato dalla rozzezza di quell’uomo.
“La visitate un po’ troppo spesso. Se cercate una compagnia femminile esistono i bordelli in città, non avete certo bisogno di venire fin qui a…”.
Federico non ci vide più dalla rabbia, e lo spinse contro il muro ringhiando. “Sarà anche una prigioniera, ma merita certamente più rispetto di un lurido cane come te. E farò finta di non aver sentito nessuna delle tue sporche insinuazioni, farò finta che ti siano uscite in un momento di poca lucidità. Ma stai attento, un’altra parola del genere, e farò in modo che un’altra cella venga adibita per qualcuno di molto meno degno della regina”. Non tollerava una simile mancanza di rispetto, soprattutto nei confronti di Francesca. Gli strappò un mazzo di chiavi nell’altra mano, mentre l’uomo lo fissava terrorizzato.
La serratura scattò, e Federico aprì la porta della cella. Seduta sul letto, in un angolino, con un vestito logoro e sporco, Francesca stava con il capo chino, i capelli le coprivano il viso. Ma nonostante tutto aveva un contegno che la contraddistingueva da una qualsiasi prigioniera, il busto era dritto e fiero, le mani poggiate sulle gambe, di un pallore quasi disumano.
“Che ci fai qui?” chiese senza tanti giri di parole, alzando di scatto lo sguardo: gli occhi incavati sembravano acquisire una nuova vita, dettata dal disprezzo, e Federico se ne sentì inondato, un brivido freddo gli corse lungo la schiena. La pelle era bianca come il latte, ma aveva una sfumatura verdastra: Francesca era malata, viste le scarsissime condizioni igieniche di quel postaccio, e il pensiero di non poter fare nulla, di doverla vedere in quello stato lo fece sentire sempre peggio. Era sempre così, non riusciva a spiccicare una parola al suo cospetto, il senso di colpa e impotenza aveva sempre la meglio.
“Vattene”
“Francesca, io…”
“Vattene, ho detto”
“Tu non capisci”
“Io non capisco? Capisco fin troppo bene, invece. Ricordo tutto, Federico, il giorno in cui sono finita qui dentro. Ricordo il tuo tradimento come se fosse accaduto ieri, e ricordo la terribile fitta al cuore che mi ha provocato. Eri tutto per me, e perdere ogni certezza mi ha cambiato. Mi sento vuota, non perché sono costretta a stare tra queste quattro mura, ma perché non ho più nessuno di cui fidarmi. Non ho più te”. Glielo disse con una freddezza glaciale, ma le sue mani si strinsero sempre più alle vesti, tradendo le emozioni che le stavano dando la forza per dire quelle parole, per muovere le labbra e rivelare ciò che più la distruggeva. Federico le era di fronte, sembrava come fatto di pietra, lo sguardo fisso su di lei, e un forte di desiderio di urlare al mondo la verità. Ma non era il momento, non ancora. L’importante incarico che gli era stato affidato doveva essere portato a termine. Gli era stato detto che un certo Andres in compagnia di quattro persone sarebbe giunto a Fiordibianco e lui avrebbe dovuto trovare il modo per farli entrare a palazzo senza destare sospetti. Dopo avrebbe potuto cercare di far fuggire Francesca e di portarla in salvo.
“Dimmi solo una cosa: ci sono notizie di Luca?” domandò Francesca, osservandolo seriamente. Luca Fiorenero, fratello di Francesca, era il vero erede al trono del regno, ma una volta deceduto il padre, non sentendosi degno di succedergli, aveva subito abdicato in favore della sorella, scegliendo però di rimanere a capo dell’esercito, come se fosse il re, dopo aver ottenuto il favore della regina. I due fratelli rispecchiavano l’equilibrio che aveva sempre contraddistinto Fiori: Francesca rappresentava la saggezza, la giustizia, l’ordine interno, Luca la forza, l’astuzia, e l’ordine ai confini. Mentre Luca però era di ritorno dopo una delle numerose battaglie con Cuori e Quadri, ormai chiaramente alleati tra loro contro Fiori, era stato preda insieme ai suoi uomini di un’imboscata da parte degli autori del colpo di stato, ed era stato costretto a fuggire, insieme ai pochi reduci dell'attacco. Nessuno sapeva che fine avesse fatto, ma alcuni contadini di vari villaggi giuravano di averlo visto, come un fantasma, aggirarsi nei boschi. Quasi tutti però credevano che, gravemente ferito, il giovane Fiorenero avesse spirato in qualche grotta o luogo impervio e inaccessibile.
“Nessuna novità, purtroppo” rispose debolmente il Conte, avvicinando la mano alla spalla della ragazza, scossa da un fremito a quelle parole. Forse avrebbe pianto di lì a poco, ma di certo non di fronte a lui, non avrebbe mai dato una soddisfazione del genere a un nemico. Sembrava fragile, ma la regina Francesca aveva una forza che, dopo due anni costretta a marcire in quella cella, non accennava a spegnersi.
“Era tutto ciò che volevo sapere” sussurrò Francesca Fiorenero, abbassando ancora di più il capo. Si chiuse in un silenzio insormontabile, e Federico capì che la conversazione era finita. Finita ancora prima che potesse dire qualunque cosa, prima ancora che cercasse di farle capire che non era sola, che l’apparenza non contava, che lui ci sarebbe sempre stato per lei. Non era sola, e doveva capirlo. Ma lei era una prigioniera, e lui si sentiva il suo carceriere. Non gli avrebbe creduto. Mentre girava le spalle, vide di fronte a sé le sbarre scure e arrugginite della cella, e pensò che un giorno avrebbe potuto distruggerle; avrebbe potuto salvare la sua principessa, e diventare il cavaliere che da piccolo si era sempre rifiutato di essere.

“Dovremo essere quasi arrivati” ansimò Dj, salendo in cima ad una collina. Si ricordava di quando era venuto in quel posto da piccolo. Quella pianura era stata consacrata agli Dei Bianchi, protettori del Regno, e vi vivevano i sacerdoti di Asteria. I sacerdoti, sebbene possedessero poteri magici, non potevano essere in nessun modo toccati dalla regina Natalia. Quella piana costituiva una sorta di terreno neutrale in cui chiunque avrebbe potuto trovare rifugio. Avevano dovuto allungare il tragitto che li avrebbe portati a raggiungere Fioridibianco, per poter chiedere ai sacerdoti una cura per Emma. Erano gli unici in grado aiutarli, e di certo non gli avrebbero negato soccorso.
“E’ stata una follia ritardare le tappe per raggiungere il castello. Perderemo solo tempo” disse Broadway, piantando l’ascia sul terreno, e scrutando la sterminata prateria di un verde brillante che si estendeva di fronte a loro. L’erba frusciava mossa dal vento, e creava numerose onde che si disperdevano all’orizzonte.
“Se c’è anche una sola possibilità di salvare Emma, voglio tentare” esclamò Andres, affiancandosi al compagno e dandogli una pacca sulla spalla. Broadway sembrò infastidito da quel gesto amichevole, ma non disse nulla. “Adesso ci affidiamo anche a un ladro” borbottò tra sé e sé ricominciando a camminare.
“Guarda che ti sento, non sono mica sordo!” disse Dj, evidentemente furioso.
“Quanto manca ancora?” chiese Maxi, evidentemente stremato, che stava per stramazzare al suolo. Avendo dovuto allungare il tragitto avevano accorciato di molto i momenti di riposo, arrivando a dormire solo poche ore. La missione era troppo importante, e non potevano permettersi il lusso di perdere tempo. Emma per di più stava peggiorando sempre di più. Il viso aveva assunto un pallido colore violaceo, e respirava sempre più a fatica.
D’un tratto, Andres scorse qualcosa in lontananza, come tanti pilastri messi in cerchio. Dj sogghignò soddisfatto: “Vedete, uomini di poca fede? Ecco che il vostro mago vi ha portato nel posto giusto”. Continuarono a camminare, chiedendosi che razza di tempio fosse quello che vedevano in lontananza. Dietro Libi si era offerta di aiutare Andres a trasportare la barella con sopra Emma.
“Ce la faremo vedrai, Andres” lo rassicurò con un sorriso. Andres la guardò e ricambiò il sorriso, ma il suo era spento, privo di vita. Non era più la guida che conosceva, ne era ormai un pallido riflesso.
“Io…non potrei perdonarmi di perdere un mio compagno. Non di nuovo”.
Libi annuì, e tornò a guardare davanti a sé, in silenzio. Sapeva bene a cosa si riferiva: l’assalto all’accampamento, le migliaia di feriti e di morti, e poi la morte di Serdna. Tutto questo dolore aveva segnato il ragazzo, che avrebbe fatto di tutto per salvare la vita della giovane in bilico tra la vita e la morte, che scivolava sempre più verso quest’ultima. Forse aveva giudicato troppo in fretta l’interesse di Andres nei confronti di Emma; era stata in grado solo di vederla come una rivale, mai come una compagna. E non aveva considerato il fatto che mai Andres avrebbe lasciato indietro un compagno.
“Riesci a capirmi sempre” disse Andres, asciugandosi con una mano il sudore sulla fronte.
“Che intendi?”.
“Hai capito che nessuna parola mi avrebbe fatto stare meglio e sei rimasta in silenzio. Mi conosci meglio di chiunque altro, anche se in questo periodo ti ho avvertito distante” rispose Andres, evitando di guardarla negli occhi.
“Sei mio amico, mio compagno, e ti am…miro, ti ammiro molto” disse Libi, correggendosi all’ultimo. “E’normale che ti capisca, che ti conosca. Non dovresti sorprenderti di questo”.
“Hai ragione, a volte dimentico che intorno a me ci sono persone che mi vogliono bene, e che mi stanno accanto nel momento del bisogno” rispose Andres, per poi rivolgere l’attenzione verso lo strano tempio che si ergeva ora a qualche passo da loro.
Numerosi pilastri bianchi erano disposti in tondo a poca distanza l’uno dall’altro, e dentro si ripeteva concentricamente la stessa costruzione. Quei massi bianchi svettavano, e costituivano una sorta di parete inviolabile. Dj li condusse all’interno, e si ritrovarono di fronte al secondo cerchio. Un sacerdote piuttosto giovane dai capelli biondo cenere li accolse dopo aver abbracciato Dj. “Braco!” esclamò quest’ultimo, esplodendo in una risata gioiosa.
“Quanto tempo!”
“Lo so…diciamo che ho avuto qualche problema in questo periodo” disse il mago, sciogliendo l’abbraccio e indicandogli poi con lo sguardo i suoi compagni. “Vorrei tanto parlare dei vecchi tempi, ma…abbiamo bisogno urgentemente di avere un’udienza con i sette saggi”
“Vi stanno aspettando” disse l’iniziato ai voti, suscitando sorpresa in tutti.
“I venti non falliscono mai” aggiunse con aria imperscrutabile, parlando poi in una lingua sconosciuta che risultò incomprensibile a tutti, tranne a Dj che lo fissava e annuiva di tanto in tanto.
“Allora, che ha detto?” gli chiese Andres, avvicinandosi al compagno.
“Non ne ho la più pallida idea. Qualche invocazione agli dei, forse…tu annuisci e basta” bisbigliò il mago, fingendo un interesse nelle parole per lui prive di significato di Braco.
Ciao ci vediamo al prossimo capitolo.

Recensore Junior
22/06/14, ore 14:05
Cap. 25:

Wow!!!!!!! Come al solito bravo!!! Scrivi benissimo!!!
La parte che adoro è :
Una carta venne fatta scivolare lungo il tavolo consunto da una mano rugosa. Un uomo sulla quarantina dalla barba scura e i capelli spettinati dello stesso colore, la prese tranquillamente, evidentemente per nulla sotto pressione. La aggiunse alle altre quattro che teneva in mano, e un sorrisetto enigmatico si dipinse sul suo volto. Fissò avidamente le monete d’oro e d’argento che lo separavano dal suo contendente, cominciando a contarle, e facendo i propri calcoli. Il suo rivale era un omaccione pelato e dai denti storti, con una giacca di pelle di montone, e un odore che ricordava lo stesso animale. Sorrise nuovamente, e prese una moneta d’oro dal sacchetto di pelle alle sua destra; lo lanciò con noncuranza, e la moneta rotolò tintinnando e andandosi ad aggiungere al resto del gruzzolo. “Rilancio con un quadrifoglio d’oro”. L’altro strabuzzò gli occhi, osservando attentamente le sue carte, quindi prese dubbioso alcune monete d’argento contandole una ad una, e annuì col capo, mettendo il tutto al centro del tavolo: “Ci sto”. Un gruppetto di curiosi, e compagni di bevute si erano riuniti tutt’intorno, attirati dall’enorme posta in denaro in palio. “Ar, ar” ridacchiò l’omone, mostrando le sue carte con aria soddisfatta: una coppia di cavalli e un tris di corone. Uno dei punteggi più alti di ‘Fante, cavallo e re’, che il più delle volte assicurava una vittoria schiacciante. Allungò le mani per riscattare il suo premio, ma la mano dell’uomo dagli occhi scurissimi gli impedì di prendersi le monete. “Non c’è storia amico, mi dispiace. E’ un buon punto, non dico di no, ma cosa pretendi di fare contro quattro corone?” sorrise, mostrando il suo punto. “Un taglio alla testa in piena regola!” esclamò uno degli spettatori, accompagnato da un brusio eccitato. Il taglio alla testa era il punto più alto che si potesse fare e consisteva appunto nell’avere quattro corone d’oro. “Hai barato!” grugnò l’altro, ripresosi in fretta dallo sgomento provocato dalla cocente sconfitta. Sbatté il pugno sul tavolo con rabbia, scuotendo tutte le monete e le carte appoggiate. “Ehi, amico, per chi mi hai preso…un mago, forse?” esclamò l’uomo, per poi scoppiare a ridere della sua battuta, accompagnata da tutti gli altri che additarono il perdente con ilarità, facilitata ancor di più dall’enorme quantità di birra che circolava nei loro corpi. Il suo sfidante boccheggiò qualcosa, nel tentativo di trovare qualche prova o, in caso, qualche valido insulto, ma si limitò ad osservare le monete che scomparivano dalla sua visuale, inghiottite dal sacchetto di pelle. “Tutti e soli i maghi del Regno sono al servizio della Regina, testa di rapa!” disse un vecchietto dai capelli bianchi e unticci, mentre si sganasciava dalle risate. Nel trambusto generale l’uomo uscì fuori con il portamonete ben rigonfio, mentre già dentro la taverna qualcuno si chiedeva che fine avesse fatto quel fortunato giocatore. Già, fortunato…Rise sotto i baffi, mentre con un gesto della mano, fece sparire la barba, e il suo aspetto si deformò velocemente, lasciando il posto ad un giovane dall’espressione vivace, e i capelli corti con un ciuffo leggermente sollevato. In quella notte senza luna, nessuno l’avrebbe notato, e lui poté tranquillamente mettersi in cammino verso un piccolo bosco poco distante, per poi raggiungere il cavallo legato ad una albero sul limitare. Anche quello era stato un bottino piuttosto ricco, e la sua magia per modificare la carta uscita era venuta alla perfezione; amava imbrogliare il prossimo con qualcuno dei suoi trucchetti e se questo gli permetteva anche di avere un bel gruzzolo, la soddisfazione era doppia. “Ehi, ehi, sono io, Domingus” sussurrò al cavallo, che avendo visto un’ombra avvicinarsi si era leggermente innervosito. Non appena ebbe riconosciuto il padrone si rilassò nuovamente, e avvicinò la lingua ruvida alla mano del giovane che teneva una zolletta di zucchero sul palmo. “Bravo, sei stato bravissimo” lo lodò il ragazzo, accarezzandogli piano il manto lucido. La prossima taverna era al confine tra i Regno di Fiori e quello di Picche, subito prima dei Monti Neri, e poi avrebbe potuto tranquillamente tornare alla sua dimora, vicino Fiordibianco. Non tutti i maghi erano stati assoldati da Natalia in difesa del suo palazzo, un mago era riuscito a cavarsela, o meglio un apprendista mago. Riuscito a fuggire per miracolo da quella che era passata alla storia con il nome di ‘leva magica’ stabilita dalla regina in persona, aveva deciso di usare il suo talento innato per continuare a errare da un paese a un altro, spillando denaro per condurre una vita dignitosa. Si era rifiutato di entrare a far parte dei giochi di potere del Regno, rimanendo distante sia dalla corona, sia dalla fazione che invece cercava in ogni modo di porre fine a quella tirannia, nel tentativo di liberare la regina Francesca. Lui conduceva la sua vita solitaria, e priva di uno scopo particolare, priva di ideali, e, parlandosi onestamente, non gliene poteva importare di meno di tutte quelle battaglie, di tutto quell’inutile sangue versato. Gli bastava potersi riempire la pancia con dell’ottimo stufato e una bella pagnotta calda per sentirsi appagato. E pensare che durante l’apprendistato gli avevano ripetuto migliaia di volte che la magia implicava tante responsabilità, tra cui quella di mediare tra il popolo e il sovrano! Se i suoi maestri l’avessero visto in quello stato l’avrebbe ro preso a bacchettate dalla mattina alla sera. Ma non c’era nessuno a giudicarlo, e questo gli permetteva di fare come voleva senza alcuno scrupolo. Tirò fuori un fazzoletto dalla tasca dove era stata accuratamente avvolta una fetta di torta di mele, pagata profumatamente nell’ultimo villaggio attraversato. Il tovagliolo di stoffa era ricamato con due iniziali viola, quelle del suo nome. Mangiò quell’ultima prelibatezza avidamente, quindi si scrollò i vestiti per far cadere le briciole. Si sedette con la schiena appoggiata sul tronco di un pino, e osservò la notte buia, facendo schioccare le mani e accendendo sull’indice una luce azzurrina. Sbadigliò sonoramente, osservando il cielo illuminato da sparute stelle.
‘Ogni stella è un pezzo di passato, Domingus, ricordalo bene’
Quella frase che gli aveva detto il padre gli era rimasta impressa come se l’avesse sentita appena poco fa dentro quella sudicia taverna. Il padre era un mago famoso, che purtroppo non aveva potuto avere scampo dalla leva magica, ed era rinchiuso tra le quattro pareti di quel palazzo. A volte si chiedeva se l’avrebbe mai rivisto, se l’avrebbe potuto mai più riabbracciare, o ricevere da lui una pacca piena di orgoglio per il sangue del suo sangue. Era sempre stato un uomo rigido e integerrimo, ma allo stesso tempo pieno di premurose attenzioni nei suoi confronti, nonostante fosse sempre stato…meno incline al lavoro serio. Per lui la magia era e rimaneva un gioco, un modo per piegare la natura a suo favore, per poter ingannare la realtà, deformandola a suo piacimento, ma il padre invece voleva che prendesse sul serio il suo dono.
Continua così. Baci

Recensore Junior
22/06/14, ore 13:57

Mi piace tantissimo questo capitolo è veramente stupendo!!! Ma lo fai apposta a non fare errori???!!! Non mi viene mai neanche una critica da farti!!! Sei troppo bravo.
Il capitolo è scritto benissimo, come al solito, senza errori.
Quindi bravo e ci 'vediamo' al prossimo capitolo.
Ah quasi dimenticavo la parte che preferisco è:
“Penso di poter camminare adesso!” esclamò Violetta, mentre Leon usciva dal labirinto, con lei in braccio. Il ragazzo scosse la testa, facendo scendere alcune gocce d’acqua. “Non ci penso nemmeno, hai preso una storta, e voglio che disinfetti prima la ferita. “D’accordo…non ti ho mai visto così preoccupato” scherzò lei. “Non mi era mai importato tanto di qualcuno, prima” rispose con semplicità Vargas, lasciandola senza parole. Quando raggiunsero la sua stanza, fortunatamente senza incontrare nessuno, cercò di mettersi in piedi, ma una debolezza improvvisa, la fece quasi cadere di colpo. Leon la prese al volo, e le sentì la fronte: “Non hai la febbre, ma credo che tu sia un po’ debole. Ti disinfetto la ferita e poi sarà bene che ti riposi”. La fece sedere, e la intimò di non muoversi, mentre si muoveva in giro per la stanza. Prese una caraffa d’acqua, vi intinse una fascia bianca, quindi la passò lentamente sulla ferita. Violetta gemette di dolore, a contatto con l’acqua fredda, ma un sorriso di Leon fu in grado di rassicurarla. Fece un nodo intorno alla caviglia, quindi guardò soddisfatto il risultato ottenuto. “Ecco fatto, e ora sotto le coperte!” le ordinò. Violetta obbedì senza riuscire ad evitare di fare battutine a proposito, ma non appena si fu messa sotto le coperte venne scossa dai brividi. “Avresti dovuto prima cambiarti d’abito…adesso hai bagnato tutto il letto” la rimproverò sedendosi sul bordo del letto. La ragazza non rispose, ma si limitò a battere i denti, mentre il corpo continuava a tremare. Leon sospirò, quindi si tolse la maglia, rimanendo così a torso nudo. In quel modo non avrebbe peggiorato ancora la situazione; si mise sotto le coperte al suo fianco, e la abbracciò dolcemente cercando di trasmetterle il calore del suo corpo. “Va un po’ meglio?” le sussurrò apprensivo. Violetta era rimasta troppo sconvolta per quel gesto per dire qualunque cosa, quindi si limitò ad annuire, poggiando il capo sul petto caldo, e sentendo il suono dei battiti del suo cuore cullarla come un’antica sinfonia che celava chissà quali segreti. Tra le braccia di Leon sentì la stanchezza farsi strada, mentre le sfiorava il braccio accarezzandolo con il pollice. Lentamente chiuse gli occhi, con un sorriso stampato sul volto, mentre Leon le baciò in modo protettivo la fronte. “Non ti lascerò andare mai più. D'ora in poi ci sarò io per proteggerti”.
(Recensione modificata il 22/06/2014 - 02:01 pm)

Recensore Junior
20/06/14, ore 10:18

Io stavo per uccidere Lena!
Figlia mia, (e questa da dove esce?! Bho.), dicevo, come fai a non stare zitta davanti a un Leon così cucciolosho,eh?!!
Il mio Leoncino...è disposto a tutto! E ora.. Ludmilla attenta a te e Jackie, tu mia cara avrai una morte lenta e dolorosa!
Parola di una futura cantante!!


Che vi deve fare contro di me Maleficent?
Nada, rien, niente, nothing!

Capitolo bello e intricato..l'ho adorato!
..e ora, scappo!

Recensore Junior
19/06/14, ore 19:18
Cap. 23:

Ciao!!!!!
Allora il capitolo é scritto benissimo!!
La parte che mi piace è nn è lunghissima
Le lacrime scorrevano più veloci di quanto correva. Avrebbe voluto fermarsi, capire dove stesse andando, ma la visuale gli risultava sfocata, e i piedi non avevano intenzione di ascoltarla. Come aveva potuto trattarla in quel modo? Si era sentita ferita: il modo in cui le si era rivolto, lo schiaffo che aggiungeva un’umiliazione fisica a quella provocata dalle sue parole. Tutto aveva improvvisamente perso un senso, e sebbene avesse creduto che in fondo Leon potesse nascondere un animo generoso e bisognoso d’amore oltre quella scorza dura e ruvida, adesso si rendeva conto di aver sbagliato. O meglio, forse Leon avrebbe potuto cambiare, ma non con lei. Un giorno avrebbe potuto incontrare davvero la persona in grado di rivoluzionare il suo essere egoista e crudele, ma quella persona non portava il suo nome. Non era Violetta. Andò a sbattere contro qualcuno involontariamente, e sperò con tutto il cuore che non fosse Lena: non voleva farsi vedere in quello stato pietoso. Peggio ancora sarebbe stata Lara, che avrebbe potuto solo ridere di fronte alle sue lacrime. “Ma che modi!” borbottò colui che sfortunatamente, o nel suo caso fortunatamente, si era messo involontariamente sulla sua strada. “Scusi, io…”. Ma le parole furono interrotte dai singhiozzi provocati dal pianto. “Violetta! Ma cosa…stai piangendo?” chiese Thomas, riscossosi dal colpo, e recuperando l’orologio dorato che era caduto a terra durante lo scontro. Controllò che fosse ancora funzionante, quindi lo inserì nella tasca del giacchetto, lasciandolo ticchettare al suo interno. “N-no” cercò di dissimulare la ragazza, asciugandosi prontamente il viso con la manica del vestito. Gli occhi arrossati e lucidi per il pianto erano tuttavia impossibili da nascondere. “Cos’è quel segno rosso? Chi ti ha fatto questo?”. Thomas si avvicinò premuroso, mentre i brividi si impadronivano del suo corpo. Sapeva cosa volesse dire provare del dolore fisico, sapeva cosa volesse dire quando nemmeno il tuo corpo ti appartiene più. Sapeva cosa volesse dire perdere qualsiasi tipo di libertà. Violetta si portò la mano alla guancia, e abbassò lo sguardo intimidita: “N-niente, non è niente”. Thomas scosse la testa, quindi le sollevò delicatamente il viso scoprendo il segno rosso. “E’ stato Leon, vero?”. Nessuna risposta. “E’ stato Leon” si rispose con aria stanca. “Quell’uomo è una bestia! E’ un animale” aggiunse dopo furioso. “Devi stargli lontano, per il tuo bene. Leon non è in grado di controllarsi, a volte, ma cerca di capirlo, lui…”. “Lui?” chiese Violetta, cercando di soffocare i singhiozzi. “Lui ha passato alcune situazioni orribili. Non lo giustifico per il suo comportamento, lo capisco” disse Thomas, per poi abbracciarla forte. Violetta si lasciò cullare dalle braccia esili del giovane. Era tutto molto diverso: sentiva un fievole e confortante tepore, ma non era nulla di paragonabile alle fiamme vive che provava anche solo perdendosi per un secondo negli occhi di Leon, nel verde oscurato da una perenne ombra misteriosa. E per quanto cercasse di odiarlo, non ci riusciva, qualcosa glielo impediva. “Ti aiuterò a fuggire da questo posto maledetto, te lo prometto” concluse il ragazzo, stringendola più forte. Violetta annuì debolmente e scoppiò finalmente a piangere liberamente. Sperava di poter uscire da quella prigione il prima possibile, non ce la faceva più. L’unica persona che avrebbe potuto trattenerla era la stessa che l’aveva ferita così profondamente, e adesso non le era rimasto più nulla che la legasse a quel castello definitivamente. Le dispiaceva non poter più rivedere Lena e Humpty, ma quella era la sua scelta definitiva.
Leon era rimasto da solo nella stanza da letto, ripensando alle azioni da lui commesse. Non la smetteva di osservare quella mano, colpevole. Il senso di colpa lo stava attanagliando, sebbene la ragione continuasse a ripetergli che avesse ragione, come un disco rotto. Si mise la testa tra le mani, sentendola scoppiare, e cercò di piangere, di sfogarsi, ma non ci riusciva. Qualcuno bussò prepotentemente, interrompendo il suo dolore; riacquistò subito un aspetto fiero e distaccato, prima di dare il permesso di entrare. Lara si fece avanti lentamente, aprendo la porta: aveva gli occhi arrossati, simulando un falso pianto. “Oh, mio principe!” singhiozzò la ragazza, sedendosi al suo fianco e abbracciandolo forte. Leon rimase con lo sguardo fisso contro la parete, mentre la ragazza continuava a dirgli quanto male avesse fatto a fidarsi di quella serva, che invece vedeva in lui solo un oggetto di scherno. “Ti ha preso in giro. Sempre! Non come me…” gli sussurrò, diventando improvvisamente audace. Si abbassò la spallina del vestito, convinta che il principe avrebbe ceduto al richiamo di un dolce conforto, e così fu. Leon non capì più nulla, si voltò verso di lei, e la baciò selvaggiamente: non c’era amore o passione in quel bacio, solo un profondo bisogno di dimenticare, e ancora una volta Lara si stava prestando a quello scopo nel modo più squallido possibile. Continuarono a baciarsi, arretrando sul letto, e si trovò sopra di lei, senza quasi più comprendere come avesse fatto. La ragazza, gli accarezzava il volto, ma per lui non significava nulla: era come se al posto delle mani di Lara ci fosse uno spiffero inconsistente. Era debole, ferito, vulnerabile, tutto ciò che odiava essere, e la sua unica consolazione risiedeva nel corpo di Lara. Si separò per prendere aria, e abbassò lo sguardo per slacciarsi la cintura velocemente, e togliersi i pantaloni, ma quando lo rialzò si scostò terrorizzato. Per un momento, un maledetto istante, aveva avuto l’impressione di scorgere il viso puro ed innocente di Violetta al posto di quello compiaciuto di Lara. Cominciò a sudare freddo, mentre la ragazza, non rendendosi conto del suo stato d’animo stava cercando di togliergli rapidamente la maglia. Tentò di baciarla nuovamente, ma ancora la sua mente gli giocò lo stesso scherzo; quello che doveva essere un modo per dimenticare stava diventando un incubo. “No!” esclamò deciso alla fine, allontanandosi e sedendosi al bordo del letto, incapace di credere a quello che stava facendo. Il vecchio Leon non avrebbe mai perso un’occasione del genere, non si sarebbe lasciato fermare in alcun modo, avrebbe dato sfogo a tutti i suoi istinti e bisogni. Ancora una volta Violetta gli stava mettendo i bastoni tra le ruote, e non riusciva ad accettarlo. “Leon, che ti succede?”. La voce di Lara, quasi stridula, venne avvertita da lui come dolce e melodiosa. Era la voce di Violetta che lo stava chiamando. Sembrava una maledizione quella che stava vivendo: destinato a rivedere in ogni persona l’oggetto della sua crudeltà…aveva un amaro sapore di favola, eppure lo stava vivendo in quel preciso istante sulla sua pelle. “Vattene, ti prego” la implorò, cominciando a tremare come una foglia. Quando sentì la mano di Lara toccarle la spalla, abbandonò la lucidità e si voltò verso di lei furioso: “Vattene, ho detto!”. La ragazza rimase sconvolta da tale reazione, e annuì debolmente, rivestendosi al meglio, e correndo fuori dalla stanza. Non ce l’aveva fatta, aveva la fallito la prova, che una volta superata gli avrebbe dimostrato che non era affatto cambiato. Si buttò sul letto, dando finalmente libero sfogo alle sue emozioni: rabbia, lacrime, odio, disprezzo e…amore. Qualcosa di assolutamente nuovo che non sapeva come trattare, ma che sentiva ormai parte di sé.
Il sole era alto all’orizzonte, con la sua luce mattiniera, quando Violetta si presentò in biblioteca. Proprio come aveva supposto, Leon non era nei paraggi, e questo la consolava non poco. Humpty era immerso in qualche sua solita lettura, ed alzò il capo non appena ebbe sentito la porta aprirsi. “Buongiorno” salutò allegramente, abbassando gli occhialetti per studiare la persona appena entrata. Si rese subito conto che qualcosa non andasse, e infatti si alzò preoccupato richiudendo il libro di botto. “Che cosa ti è successo?” chiese, notando che Violetta cercasse di nascondere qualcosa con la mano all’altezza della guancia. “Niente…sono solo stanca. Molto stanca, e…”. Humpty le diede una botta al braccio costringendola a mostrargli quello che adesso era diventato un livido di un tenue colore violaceo. “E’ stato Vargas?” chiese con voce incolore. Violetta non rispose, ma abbassò il capo, mordendosi il labbro inferiore incerta. Gli occhi di Humpty, di quel rassicurante azzurro acquoso, ardevano di rabbia. Sembrava un’altra persona, tanto gli tremavano le mani strette in pugni saldi come l’acciaio. “Figlio di una meretrice!” imprecò l’anziano, montando su tutte le furie. “Humpty!” lo riprese sconvolto, non avendo mai sentito un insulto provenire dalla bocca del pacifico uomo-uovo. “Ma questa volta mi sente” sbottò il bibliotecario, infilando gli occhiali per la lettura nel taschino della giacca, e correndo talmente veloce fuori dalla stanza sulle sue gambe piccole ed esili che sembrava sarebbe finito a rotolare da un momento all’altro. Violetta voleva seguirlo per fermare quel folle proposito che aveva avuto Humpty. Aveva paura che se la sarebbe potuta prendere anche con il povero uomo-uovo, e non voleva che accadesse.
Leon stava tranquillamente facendo colazione, anche se il cibo aveva un odore nauseante. Tutto aveva un odore nauseante quel giorno, perfino la sua stessa presenza. Non aveva chiuso occhio tutta la notte, ripensando al vergognoso gesto che aveva segnato la sua colpa. Quello schiaffo gli era uscito dalla parte peggiore del suo essere, e non sapeva se sarebbe stato capace di perdonarselo. Nonostante il ricordo del busto distrutto continuasse a tormentarlo, non poteva negare che il suo tentativo di rompere ogni rapporto con Violetta stava miseramente fallendo. O meglio, materialmente era riuscito ad allontanarla, a farsi temere come un tempo, ma dentro sentiva che i sentimenti per quella ragazza non si erano solo duplicati, ma addirittura si erano triplicati. E quella morsa non accennava ad allentare la sua presa, anzi, più il tempo passava più la situazione peggiorava. Cominciò a giocare con il cibo sul piatto, muovendo la forchetta con un moto circolare, e guardando il tutto in modo distaccato. L’uovo lo guardava colpevole, mentre la pancetta sembrava indicarlo allo stesso modo. Perfino il cibo lo giudicava adesso. “Non è stata colpa mia” sibilò rivolto al piatto, ben consapevole di stare parlando da solo. Un cameriere gli rivolse un fugace sguardo confuso, quindi tornò a fissare davanti a sé, immobile come una statua, in attesa di un qualsiasi ordine. Leon alzò gli occhi e si ritrovò a fissare il suo riflesso sulla caraffa argentata posta di fronte. Gli occhi incavati, il viso pallido come la luce lunare…non si riconosceva più. Una notte senza dormire lo aveva ridotto in uno stato pietoso. Aveva anche la carnagione più olivastra del solito, dovuto alla sua alimentazione quasi del tutto assente e disordinata. Aggiungendoci anche gli allenamenti che quel giorno lo aspettavano si chiedeva se sarebbe arrivato alla fine di quella dura giornata. Le porte si spalancarono e Humpty avanzò velocemente. Leon alzò un sopracciglio: il vecchio bibliotecario non lasciava mai il suo regno di libri, se non per un motivo della massima importanza. “Humpty” salutò con voce spenta il giovane, alzandosi e facendo cenno alla servitù di lasciarli da soli. Aveva proprio bisogno di un amico, qualcuno su cui fare affidamento per superare la terribile delusione. Quando anche l’ultimo cameriere fu uscito, si sciolse in un sorriso triste, a si preparò per sentirsi ricevere parole di conforto di cui aveva un disperato bisogno. “Leon Vargas! Tu sei un mostro” esordì Humpty indiavolato. Il sorriso gli morì sul volto, e fu presto sostituito da una sorta di smorfia. “Come ti sei permesso, eh? Come anche ha solo potuto pensare di alzare le mani su Violetta? Mi disgusti, come amico e come essere umano” continuò imperterrito, senza quasi nemmeno prendere fiato. “Ma, amico…” cercò di spiegarsi Leon, invano. “No, Leon! Io per te non sono più un amico, sono solo un vecchio conoscente…io non intendo avere più nulla a che fare con te! Pensavo che grazie a quella ragazza saresti cambiato, avresti imparato qualcosa sull’umiltà, sull’amore, e invece siamo punto e a capo! Che razza di uomo è colui che non è in grado di provare un sentimento d’affetto? Dimmi: che razza di uomo è?”. Il principe indurì la mascella, ispirando lentamente. Quelle parole non facevano altro che rendere più dolorosa la ferita che sentiva alla base del petto. “Non lo so, dimmelo tu” disse sprezzante, incrociando le braccia, e mostrando così la sua ostilità. “La risposta che mi sarei dovuto aspettare da un ragazzo arrogante come te, che pretende di capire tutto meglio degli altri. Ma ti avviso: forse ho sbagliato a riporre fiducia in te, ma di certo non sbaglio nel voler proteggere l’unica persona che non è stata inghiottita dall’oscurità di questo posto, che nonostante tutto ha mantenuto il sorriso e una vitalità che mi fanno quasi ringiovanire. Tu prova ancora a muovere un dito per farla soffrire, e parola dell’ultimo Uomo-uovo non avrò pace finché non avrò ottenuto vendetta”. “Mi stai forse minacciando?” chiese Leon, infastidito. “No, sto solo prendendo le giuste precauzioni perché un evento del genere non si ripeta”. “Non puoi darmi ordini, vecchio. Sono io che comando qui dentro” ghignò il principe Vargas, recuperando la sua autorità. Humpty resse il suo sguardo crudele, quindi si voltò pensando di aver detto tutto. “Ti stai sbagliando sul suo conto” lo fermò il ragazzo, poggiandogli una mano sulla spalla. “Lei ha distrutto tutto ciò che provavo cancellando il ricordo di mio padre. Ha distrutto il busto nella sala dei trofei”. “Penso che sia tu a sbagliare se la credi capace di una cosa del genere” disse l’altro. Il tono di Leon si fece quasi supplichevole all’improvviso, cercando un appoggio: “Mi ha ferito profondamente”. “Ti infliggi ferite non necessarie. Hai forse parlato con lei? Le hai chiesto spiegazioni? No, Leon, perché in fondo a te piace soffrire, ne provi un sadico piacere. Soffrendo pensi di essere sempre tu la vittima, di essere l’incompreso…Ma io ti comprendo benissimo e la tua rabbia insensata è dettata solamente dalla paura che stavi provando nell’innamorarti. Appena hai potuto hai fatto un passo indietro, come il più vile dei conigli”. “Io non sono vile!” sbottò il principe offeso. “Lei ha distrutto ciò a cui più tengo”. “Il che è tutto da provare…e se anche fosse? Lei ti stava donando ben di meglio di un semplice pezzo di pietra! Continuo a ripetere che non la credo capace di un atto del genere. Non farebbe mai una cosa così volontariamente. Può essere stato anche un incidente…e a quel punto che faresti? Metteresti tutto da parte per un incidente? Metteresti da parte l’affetto che lei ti ha donato incondizionatamente, senza che tu gliel’avessi chiesto, senza che te ne fossi dimostrato degno? Se fossi in grado di comportarti in questo modo, allora in te non c’è nulla che mi permetta di chiamarti uomo. Il passato è stato doloroso, lo so quanto te, ma non permettere che delle pietre rovinino qualcosa di tanto forte e bello. Non permettere al vecchio Leon di prendere il sopravvento su quello che io vedo essere il vero Leon. So che senti il senso di colpa per le tue azioni, e che in fondo sei pentito”. Leon arretrò lentamente. Si sentiva come un libro aperto per quell’uomo: indifeso come un libro tra le sue mani. Humpty sfogliava le pagine avidamente e ne leggeva il contenuto, leggeva le sue emozioni come solo un’altra persona era ormai in grado di fare. E ancora una volta il pensiero di Violetta tornò con prepotenza nella sua mente. “Cerca di capirmi, non posso. Sarebbe come insultare la memoria di Javier Vargas…”. “Se queste sono le tue ultime parole, allora la conversazione tra noi è finita” concluse duramente Humpty, rivolgendogli uno sguardo severo e comprensivo allo stesso tempo. Era lo sguardo di un padre, quel padre che non aveva mai avuto. Lo vide allontanarsi, il braccio ancora teso in aria, senza fare nulla per fermarlo nuovamente.
Thomas raggiunse Violetta nella biblioteca e i due cominciarono a parlare tranquillamente. Violetta doveva molto a quel ragazzo: cercava in tutti i modi di non farle pensare a Leon, e dovette ammettere che stava facendo un ottimo lavoro. Le risate dovute alla buffa caduta del ragazzo da una delle scale che portava ai ripiani più alti per qualche minuto avevano offuscato i tristi pensieri sul suo futuro in quel castello. “Invece di darmi una mano, lei ride!” scherzò il ragazzo, tirandosi su con un balzo, e facendole la linguaccia. “Scusa, ma eri talmente buffo!” ribatté Violetta con le lacrime per il ridere. “Macché buffo e buffo, io sono terribile. Interi eserciti si ritirano alla mia vista” continuò Thomas, dandosi alcune pacche sui pantaloni. “Senti…ma perché invece di stare qui dentro, al buio e in mezzo ai libri polverosi, non andiamo a farci una bella passeggiata?” propose poi, indicando le vetrate che promettevano una giornata soleggiata e ventilata. Violetta guardò incerta il paesaggio, lasciandosi tentare dai rami degli alberi che frusciavano invitanti, mossi da un leggero venticello. “Vorrei davvero, ma dovrei finire di pulire ancora quella sezione” disse indicando una parte della biblioteca. Una lunga libreria posta in fondo mostrava con dei minuscoli caratteri dorati la scritta ‘Animali fantastici e trappole mortali’. Thomas sbiancò di colpo: “Non ti conviene avvicinarti a quel postaccio!”. “Come mai?” domandò curiosa Violetta. “E’ solo che…l’ultima volta ci hanno trovato una tarantola enorme…non vorrei che ti spaventassi anche tu” balbettò lui, cominciando a picchiettare impaziente per il nervoso. “Comunque non posso uscire, devo finire un sacco di cose che…”. “Che posso tranquillamente fare io”. La voce di Humpty apparve lontana, e il bibliotecario in persona sbucò fuori da una libreria. “Ma non posso lasciarti questi lavori!”. “Certo che puoi! Oggi sarà meglio che ti divaghi un po’”. Le fece un occhiolino rassicurante, e alla fine la giovane, con qualche riserva, accettò.
Le piaceva passeggiare in compagnia di Thomas: insieme ridevano e scherzavano come due che si conoscevano da una vita, ma temeva di illuderlo. Il modo in cui la guardava ben si discostava da quello di un semplice amico; lo sguardo di un innamorato perso era difficilmente confondibile con altro. Però sembrava comunque rispettoso nei suoi confronti, non faceva alcuna pressione, semplicemente stava al suo fianco nella speranza che lei incoraggiasse i suoi sentimenti. “Mi piace stare a contatto con la natura” sorrise Violetta; alzò lo sguardo e socchiuse gli occhi accecata dal sole. “Anche a me… e in più a me piace stare con persone come te” mormorò Thomas, piuttosto imbarazzato. “Come me?” chiese incuriosita la ragazza con un sorriso. “Intendo solari, dolci…simpatiche. Insomma, in questo castello di solito ci si diverte ben poco” spiegò il Bianconiglio grattandosi il capo. Una campanula bianca sporgeva dal terreno, diffondendo il suo profumo; subito Violetta se ne sentì attratta, si chinò e la colse con cura. “Ti piacciono i fiori?”. “A chi non piacciono i fiori?” rispose naturalmente la ragazza. “Beh, alcuni fiori a me fanno venire l’allergia, non potrebbe mai piacermi in alcun modo!” ribatté Thomas. I due si guardarono per qualche secondo quindi scoppiarono a ridere. “Disturbo?” li interruppe qualcuno, con una voce fredda e distaccata. Leon era di fronte a loro, e li guardava dall’alto in basso. La mano era serrata intorno all’elsa della spada, e nessuno poteva sapere che l’avrebbe volentieri fatta calare sulla testa dell’accompagnatore di Violetta. “Nessun disturbo, principe Vargas” rispose frettolosamente il Bianconiglio facendo un lieve inchino. Violetta lo imitò suo malgrado, e sul suo viso si poteva leggere tutto il risentimento che provava per il ragazzo di fronte a lei. Leon si passò una mano sulla fronte sudata. “Avrei bisogno di un bagno caldo dopo questo faticoso allenamento. Porta gli ordini a una delle mie domestiche di farmi trovare dell’acqua calda nella vasca". “Sarà fatto”. “Bene…”. Fece saettare lo sguardo da una parte all’altra e poi si concentrò sul viso di Violetta, come se intendesse studiarlo a fondo. Cosa avrebbe dato per capire cosa stesse pensando di lui. Non che ci volesse un genio: lo disprezzava. E anche lui in parte si disprezzava per quello che aveva fatto, per le dure parole che le aveva rivolto. “Mi dispiace aver interrotto la vostra uscita…di piacere” disse, marcando bene le ultime parole. “Avete detto bene. Ogni tanto è bello poter rilassare la propria mente con persone gradite” rispose a tono Violetta, con aria di sfida, trovando quel coraggio che pensava non avrebbe mai avuto. “Deduco quindi che la mia intromissione mi renda una persona sgradita”. Lo sguardo del principe era duro, ma si leggeva qualcosa di diverso dal solito. Le sue parole erano affilate come coltelli e sembravano sfidarla ad un duello verbale. “Lo avete insinuato voi, non certo io” concluse la ragazza, inchinandosi per poi congedarsi. Thomas aveva colto la freddezza che regnava tra i due, e non poteva dimenticare il modo in cui quel ragazzo aveva fatto soffrire Violetta, quindi si mostrò altrettanto freddo e distaccato. Tutti e tre tornarono al castello, ognuno a distanza di sicurezza dall’altro, senza proferire parola. Finalmente al salone di ingresso le strade si divisero e Violetta provò una sorta di gioia nel percorrere da sola i corridoi che portavano alla sua stanza. Almeno non doveva più sentirsi lo sguardo di Leon puntato addosso come quello di un’aquila.
Era una giornata soleggiata, e le papere emettevano i loro versi striduli. Violetta era seduta e osservava la superficie di un lago, persa nei suoi pensieri quando una strana melodia le giunse alle orecchie, delicata e potente allo stesso tempo:
No soy ave para volar,
Y en un cuadro no se pintar
No soy poeta escultor.
Tan solo soy lo que soy.
Si alzò in piedi, guardandosi intorno, senza riuscire a capire da dove provenisse quella musica, unita alla voce più dolce che avesse mai sentito. Su una possente roccia ai lati del lago erano seduti due individui, uno di questi a lei ben noto. Leon era affianco a una donna vestita di bianco, dal volto coperto da un velo dello stesso colore del vestito, i capelli biondi e lisci che volavano disordinatamente. Era lui a cantare in quel modo, a donarle quella dolcezza nel cuore. Aveva paura ad avvicinarsi, ma non ne ebbe bisogno. Non appena la vide, Leon scese dal rocce sorridendo e le venne incontro.
Las estrellas no se leer,
Y la luna no bajare.
No soy el cielo, ni el sol…
Tan solo soy.
Le prese la mano speranzoso, mentre continuava a cantare, dipendente dai suoi sguardi. La fece volteggiare improvvisamente per poi stringerla a sé senza interrompere il dirompente contatto visivo che si era creato.
Pero hay cosas que si sé,
Ven aquí y te mostraré.
En tu ojos puedo ver…
Lo puedes lograr, prueba imaginar.
Era strano lasciarsi andare in quel modo. Almeno nei sogni sentiva che lei e Leon erano fatti per stare insieme; era una convinzione tanto assurda nella sua mente quanto certa nel suo cuore. “Leon…” sussurrò, mentre i loro visi si avvicinavano. Leon poggiò la fronte sulla sua, continuando a cantare.
Podemos pintar, colores al alma,
Podemos gritar iee eê
Podemos volar, sin tener alas…
Ser la letra en mi canción,
Y tallarme en tu voz.
Scolpirsi nella sua voce: era ciò che desiderava fare lei in quel momento. La donna misteriosa era ormai passata in secondo piano, anche se lei li osservava attenta. “Violetta, io ti amo” le disse il principe, sfiorandole lentamente una guancia, per poi ridurre lentamente ogni distanza. I loro corpi si attraevano irrimediabilmente, e allo stesso modo agivano le loro labbra, quasi tremanti. Quando si unirono in quel bacio tanto atteso, ogni fibra del suo essere avvertì una scossa. Violetta sentì il sapore che aveva un bacio vero, un bacio sentito da entrambi. Un bacio che assumeva solo la forma di un ricordo sbiadito nei suoi sogni, ma che lì, in quel momento, era talmente reale da poterlo avvertire.
Leon teneva in mano il pugnale sporco di sangue con sguardo inorridito. Tutt’intorno era buio, vi erano solo delle panche di legno in fila. Ma al centro della stanza giaceva riverso un ragazzo. Morto. Lì era tutto finito; con quel cadavere aveva messo fine anche alla sua vita. I tentativi di piangere erano inutili, perché la sua crudeltà glielo impediva. Gli usciva solo un pericoloso e inquietante ghigno, mentre osservava il sangue farsi lentamente strada sul pavimento. Quello era un incubo per lui ricorrente, era abituato a convivere con quel crudele passato che aveva forgiato Leon Vargas. Una mano lieve si poggiò sulla spalla, facendolo voltare di scatto con un ringhio e gli occhi iniettati di sangue. Una donna con un velo bianco e dai lunghi capelli biondi che le ricadevano ordinatamente sulla spalle, gli indicò un lato della stanza. Leon seguì la direzione che indicava il dito e dall’oscurità emerse una figura esile. “Violetta…” mormorò, lasciando cadere il pugnale a terra, che rimbombò vendicativo. “N-Non mi guardare così…” cercò di difendersi Leon, perdendo tutta la malvagità che aveva mostrato fino ad allora. Si sentiva indifeso come un bambino, e per poco non sarebbe scoppiato a piangere per il rimorso.
No soy el sol que se pone en el mar,
No se nada que este por pasar.
No soy un príncipe azul…
Tan solo soy.
Quella musica stava risuonando nella sua testa, ma nessuno intorno a lui stava cantando. Che stesse completamente impazzendo?
Pero hay cosas que si sé,
Ven aquí y te mostraré.
En tu ojos puedo ver…
Lo puedes lograr, (lo puedes lograr…)
Prueba imaginar.
Adesso invece Violetta cantava; la sua voce era limpida come l’acqua, le parole smorzavano il dolore nel cuore. Quella non era musica, era semplicemente amore tramutato in note, e non poteva sfuggire più. Perché adesso si sentiva schiavo, lui che era padrone di tutto. Si sentiva schiavo di un solo sguardo di Violetta, di un suo solo sorriso. La testa gli scoppiava, eppure i piedi si trascinavano faticosamente avanti.
Podemos pintar, colores al alma,
Podemos gritar iee eê
Podemos volar, sin tener alas…
Ser la letra en mi canción…
Un abbraccio era tutto ciò che desiderava avere in quel momento, e quando sentì Violetta fiondarsi tra le sue braccia, come se non aspettasse altro, si sentì in pace. Una pace che non aveva mai provato, che sentiva solo al suo fianco.
No es el destino,
Ni la suerte que vino por mi.
Lo imaginamos…
Y la magia te trajo hasta aquí…
“Se anche fosse stata la magia a portarti fin qui, sarò io a farti restare” le sussurrò mentre le accarezzava il capo, concedendosi il piacere che provava nel fare quelle carezze. E rafforzò la presa per farle capire che le sue non erano solo parole, ma una promessa. La promessa fatta in un sogno che si sarebbe conservata anche quando il sole sarebbe sorto.
Podemos pintar, colores al alma,
Podemos gritar iee eê
Podemos volar, si tener alas…
Ser la letra en mi canción…
Podemos pintar, colores al alma,
Podemos gritar iee eê
Podemos volar, si tener alas…
Ser la letra en mi canción…
Y tallarme en tu voz.
Ok ecco tutto il pezzo che amo un bacio

Recensore Junior
19/06/14, ore 19:11
Cap. 22:

Allora io adoro Valeria Baroni.
Non ti preoccupare non è una critica però te lo dico.
In questa storia Lara(Valeria) l'hai descritta come una ragazza senza cuore perché vuole riconquistare Leon.
Lui però non doveva credere a lei perché se ama veramente Violetta oppure prova un sentimento per Vilu oltre all attrazione fisica.
Povera Violetta!!! Ma credo che ritorneranno insieme presto loro due visto che si amano alla follia no?!
Un bacio💋

Recensore Junior
19/06/14, ore 18:53

Questo capitolo mi piaciuto moltissimo e anche qui ci sono i miei pezzi preferiti( questa è l'ultima recensione kilometrica che ti faccio te lo prometto)
piace?” le sussurrò all’orecchio, facendola rabbrividire. Le stelle sembravano quasi comporre delle scritte in lingue sconosciute e antiche; era impossibile non credere che ogni posto nel manto celeste non fosse stato già predestinato, e tutto quello non facesse parte di un ordine immutabile, un ordine deciso dalla natura all’alba dei tempi. “E’…una sensazione indescrivibile” disse emozionata. Abbassò il cannocchiale, e si voltò di scatto con gli occhi luminosi. Non pensava che fosse così vicino: il suo corpo imponente la intrappolava, e si ritrovò praticamente con la punta del naso sul suo collo. Alzò piano lo sguardo e avvertì un potente quanto devastante brivido quando si rese conto che ancora una volta i loro sguardi si cercavano e si attiravano come calamite. Si sentì legata: ogni movimento le sembrava superfluo e impossibile, se non quello di sporgersi ancora di più verso quel verde ipnotico, quanto maledettamente segnato dal dolore. Leon le sfiorò una guancia con il dorso mano, e il cannocchiale cadde a terra rumorosamente. Il suo respiro si mescolò con quello del principe, ansioso di fondersi completamente con esso. Chiusero entrambi gli occhi, lasciandosi andare; Leon fece scorrere la mani lungo le sue braccia fino a raggiungere le sue mani, stringendole con fermezza. Le loro labbra si sfiorarono, desiderose quanto timorose. Tuttavia un rumore dall’esterno di qualcosa in frantumi li fece sobbalzare, facendo sfumare quel momento dolce tanto atteso. Leon si avvicinò alla porta socchiusa, e scorse una figura scendere le scale velocemente, mentre uno dei due vasi era ridotto in frantumi: qualcuno li aveva visti. Si voltò verso Violetta con aria spaesata, mentre il terrore si impadroniva di lui: chi poteva essere stato? E cosa aveva visto effettivamente? Se l’avesse riferito a sua madre? Sarebbe stato punito in modo orribile, lo sapeva bene. “Che succede, Leon?” chiese la ragazza, preoccupata. “Qualcuno ci ha scoperti. Deve averci seguito fin quassù, eppure non mi era sembrato di vedere nessuno!” esclamò furioso come non mai. Non era arrabbiato con Violetta, era semplicemente arrabbiato con se stesso, per essere stato tanto sciocco quanto sentimentale. Non avrebbe dovuto aprirsi così tanto con Violetta, in questo modo nessuno dei due avrebbe corso alcun rischio, e invece adesso si trovavano sul filo di un rasoio. La guardò spevanteto, quindi si avvicinò a lei e la abbracciò forte. Spiegare il perché di quel gesto gli risultava impossibile, ma stringerla in quel modo, affondare la testa sulla sua spalla, inebriandosi del suo profumo lo tranquillizzava. Violetta si lasciò cullare, riuscendo finalmente a cogliere un barlume di sentimento in Leon. “Dobbiamo andare” sussurrò; spense la fiaccola con un potente soffio, le prese la mano e la condusse fuori. Chiuse la porta a chiave frettolosamente, quindi scesero le scale. “E’ stato sciocco portarti là” sentenziò mentre la riaccompagnava alla porta che conduceva agli appartamenti dei domestici. “Invece è stato divertente; mi dispiace solo averti fatto correre rischi…e non volevo” si scusò Violetta, aprendo la porta lentamente, per evitare rumori sospetti. Il principe non rispose, incapace di trovare una qualsiasi parola per rassicurarla. “Grazie” sussurrò, avvicinandosi e lasciandogli un candido bacio sulla guancia, prima di scomparire per il corridoio che portava nella sua stanza. Leon rimase imbambolato, guardandola allontanarsi. La tristezza e la solitudine sembravano avere trovato una cura nei sentimenti di affetto che provava per Violetta. Eppure non riusciva a sfogarsi sul suo passato, un passato oscuro quanto doloroso. Allontanando quei pensieri distolse lo sguardo e salì la scalinata per tornare agli appartamenti reali, dove sperava che una notte priva di incubi lo aiutasse ad avere le idee più chiare.
Ecco qui la parte che amo un bacio!!!

Recensore Junior
19/06/14, ore 18:50

Bello come capitolo. Il titolo é perfetto per questo capitolo sai?!
Ecco i pezzi che amo di questo capitolo:
Maxi!”. Il ragazzo cerco di rispondere, ma gli usci solo un urlo di dolore: l’essere lo aveva intrappolato con la sua coda ed era risalito lungo la gamba per poi morderlo con forza. Libi tentò di soccorrerlo, ma fu impegnata ad abbatterne uno con l’arco, che si stava avvicinando pericolosamente. Si rivoltò per aiutare l’amico ma con orrore si rese conto che era stato trascinato da qualche parte nella nebbia. Sentiva i suoi lamenti di dolore e le grida di aiuto, ma il cervello era annebbiato. Non sapeva in che modo agire: lasciare Maxi e continuare a fuggire, o cercare di salvargli la vita con il rischio di mettere in pericolo la sua? L’assenza di una guida, di qualcuno che le dicesse cosa fare si fece sentire in quell’esatto momento. Possibile che dipendesse così tanto da Andres da non essere in grado di prendere alcuna decisione per suo conto? Si rifiutava di crederlo. Chiuse gli occhi e si diede mentalmente della sciocca per quello che avrebbe fatto. Una palla al piede, ecco cos’è, pensò, prima di lanciarsi a capofitto dove provenivano le urla di terrore. Tirò fuori il pugnale e tagliò uno delle lunghe code nere degli esseri che scivolavano sul terreno. Un fiotto di sangue bluastro le schizzò il viso, ma continuò a correre, fino a quando non si fermò, le gambe paralizzate dal terrore, il fiato mozzato. Un enorme mostro, somigliante a un grosso ratto grigio ruggì clamorosamente, mostrando i denti giallognoli. Cumuli di bava gli scesero dalla sproporzionata bocca aperta. Il corpo era grigio e peloso, come quello delle creature che avevano incontrato, e seguendo i contorni del corpo, vide un’imponente e spessa coda nera, che si diramava in tante piccole code, ognuna collegata a uno degli esseri. Maxi era sospeso a testa in su, a pochi metri dagli occhi piccoli e ravvicinati del mostro. Erano di un color rosso sangue, e dal modo in cui si muovevano dovevano essere impazienti quanto il padrone di concludere quel pasto. “Aiuto!” frignò Maxi, non riuscendo a estrarre la spada di neranio, che cadde al suolo. Libi si riprese dallo shock causato dalla visione del mostro, quindi rinfoderò il pugnale, e preparò un’altra freccia; cercò di mirare proprio all’occhio. Tuttavia la nebbia rendeva difficile anche quella semplice operazione, e si ritrovò a correggere più volte la mira. “Stai fermo!” gli intimò la ragazza, cercando di non ferire il proprio compagno, che nel frattempo veniva sballottato qua e là. “E chi si muove! Non sono io qui che detta ordini!” strillò Maxi, mettendosi una mano davanti alla bocca, in preda a dei conati di vomito alla vista della maleodorante bocca del gigantesco ratto. La coda che gli stritolava la gamba continuò ad agitarsi, roteando vorticosamente. “Fa…” cercò di dire, tra un giro e un altro. “QUALCOSA!”. Libi serrò la mano attorno all’arco, e una goccia di sudore freddo scivolò
Un bacione💋
Credo che farai fatica a leggere tutte le recensioni che ti mando se sono kilometriche come questa
Ciao 😊

Recensore Junior
19/06/14, ore 18:39

Non ci posso credere!!!!! Non trovo mai nulla da criticare!!!!!!!!
I tuoi capitoli sono divini!!!! In questo capitolo non ci sono parti preferite perché mi piace tutto!!!!!!
Continua così mi raccomando!!!! Devo dire che Andres è diventato uno dei personaggi che preferisco di più sai?!
Anche Maxi la motivazione è che lui è coraggioso, battagliero un perfetto principe azzurro per la nostra regina Natalia non trovi??!!
Ah devo chiederti un consiglio per una cosa quando è se risponderai alla recensione ti dico.
Vado a vedere la partita e a recensire il capitolo successivo
Baci💋
(Recensione modificata il 19/06/2014 - 06:47 pm)

Recensore Junior
19/06/14, ore 18:19

innanzi tutto questo capitolo è BELLISSIMO!!!FANTASTICO !!!MITICO(stile omer simson)*sclera*c'è so rimasta x tutto il capitolo tipo cosi *0*!!poi la coppia LEONETTA è da prima pagina!!continua presto
BACI!!alla prossimo
(Recensione modificata il 19/06/2014 - 06:21 pm)